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itinerarium mentis et corporis in hominem

Verona Luca Toni disapoints at the end of the Serie A soccer match Verona vs Empoli at Bentegodi stadium in Verona, Italy, 06 December 2015. ANSA/FILIPPO VENEZIA
Luca Toni

Echeggio volentieri Bonaventura da Bagnoregio, generale dei Francescani, biografo di Francesco d’Assisi e teologo originalmente agostiniano: il suo Itinerarium mentis in Deum è il tentativo di segnare una traccia spirituale verso il divino, ordinariamente inattingibile.

Stante l’intento bonaventuriano che ammiro, mi sento qui di proporre brevi considerazioni su ciò che potrebbe essere il cammino umano per una sorta di progressiva autorealizzazione. Che all’uomo manchi molto di “umano”, se per umano intendiamo autoconsapevolezza, raziocinio, senso del bene altrui e del bene comune, è fuori dubbio, ma la domanda successiva concerne la possibilità che l’uomo possegga, di suo, la possibilità di evolvere sotto tutti i profili: biologico, psicologico, valoriale e morale. In foto un bell’esemplare di Homo contemporaneus un poco… perplesso.

Molti studiosi (paleontologi e neuro-scienziati, antropologi, filosofi e psicologi) “addetti ai lavori”, non sempre convengono sul fatto che l’uomo, di per sé, sia in grado di progredire sul piano di una progressiva umanizzazione dei propri sentimenti e comportamenti.

Pare infatti vi siano aspetti di carattere biologico ancestrale costitutivo che rendono l’essere umano “quello-che-è” e che non può non essere. La permanenza della parte rettiliana istintiva dell’encefalo rende e mantiene l’essere umano nelle condizioni psico-fisiche dell’animale che è stato e che continua a essere. In altre parole resta lo scarto tra ciò che si intende per “umano”, come consapevolezza, altruismo e senso morale, e ciò che può essere l’umano in concreto. L’uomo è ancora un animale che ha ucciso per sopravvivere e che può ancora farlo, con omicidi e guerre, più o meno asimmetriche. Quella non dichiarata di questi anni è un esempio di come l’uomo sia rimasto quello della pietra e della clava.

A questo punto bisogna che le dottrine antropologiche, etico-filosofiche e religiose prendano atto che il lavoro da fare, nella lucida consapevolezza del limite dell’uomo-che-pensa-se-stesso, è diuturno e senza limiti temporali. La sua redenzione, in linguaggio teologico-morale, è un processo smisurato e per certi aspetti sopra umano, o “troppo-umano” direbbe Nietzsche. Il tema è proprio questo: se l’uomo possa riuscire ad auto-trascendersi, a superare i limiti che finora la bio-antropologia e la storia stessa gli hanno posto dinnanzi, magari aiutando il percorso evolutivo naturale. La dico così: se siamo lontanissimi parenti delle alghe e parenti prossimi degli altri grandi primati, può darsi che in certi tempi riusciamo ad uscire dallo stato di ferinità che ancora ci contraddistingue.

Posto che homo homini lupus resta ancora il sintagma più veridico (e in Hobbes non vi è alcun pessimismo, semmai realismo), possiamo sperare che il prosieguo, non parlo neppure di “futuro”, per  non illudermi neppure con una perifrastica attiva, porti qualche barlume di crescita?

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