la terza (o la prima?) libertà
I Greci antichi avevano due termini per dire “libertà”: eleutherìa, cioè libertà di fare, di agire, e parresìa, libertà di dire. In realtà molta della loro filosofia, specialmente dopo Socrate, con Platone, Aristotele e le “scuole” stoiche, ciniche e scettiche, si è occupata del tema della libertà insieme a quello della ricerca della verità. Altrimenti si può dire che, per i Greci, conseguire la verità in qualche modo ha a che fare con la libertà umana.
E’ chiaro che per loro la nozione di libertà era molto diversa da quella che abbiamo imparato noi, almeno da oltre duecento anni a questa parte, quando la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo ha giuridicamente affermato l’uguaglianza tra tutti gli uomini.
In sintesi estrema si può dire che la modernità ha regalato agli umani due tipi generali di libertà: la libertà politica, come luogo dove si esercita la democrazia, e la libertà della ragione, derivante dall’antica sapienza filosofica. La prima è una libertà imperfetta, diversificata diacronicamente nella storia delle nazioni e dei popoli, la seconda è intrinseca a ogni spirito, mente, intelletto umani. La prima è in divenire, per definizione, e riguarda -almeno teoricamente- tutte le persone libere, la seconda riguarda tutti, anche i carcerati. In altre parole, sopra tutto è il pensiero a essere depositario della libertà.
Ma vi è un “terzo” tipo di libertà che possiamo far risalire al pensiero religioso giudaico-cristiano e soprattutto a san Paolo e alla sua tradizione. San Paolo, si sa, proclama che Cristo Gesù ha non solo perfezionato ma addirittura sostituito la Legge mosaica, e lo scrive ribadendolo più volte nelle sue epistole. Per Paolo la libertà non è, superata la Legge, aderire a un modo di vivere licenzioso e libertino, ma aderire alla legge dell’amore cristiano, che sorpassa e liquida ogni residuo formalismo legalistico o giuridista: nell’amore di Cristo l’uomo di Tarso vede la verità della libertà e la libertà insita nella verità, quasi in un circolo virtuoso: e la verità è sinonimo di autenticità e di sincera adesione alla scelta morale. Vediamo qualche testo.
Soprattutto nella Lettera a i Galati Paolo stigmatizza la Legge: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge (3, 13)”, e “Perché fossimo liberi Cristo ci ha liberati: state dunque saldi e non sottoponetevi al giogo della schiavitù (5, 1)”. Altrettanto scrive nella Lettera ai Romani e nella Prima ai Corinzi, dove si raccomanda di non sottostare a formalismi sterili, come quello delle prescrizioni sull’uso delle carni delle vittime immolate agli dei pagani. Su questo tema non mancano in Paolo parallelismi filosofici stoici, basti citare un passo di Epitteto come questo “Mentre ti eserciti giorno per giorno, come nel ginnasio, non dire con presunzione che sei filosofo, ma che mostri il tuo emancipatore. Questa infatti è la vera libertà. Per essa Diogene fu liberato (in greco eleutherothe) da Antistene, e disse che ormai non poteva più essere ridotto in schiavitù da nessuno (Diatr. 4, 1, 113-114)”. E ancora Paolo: “(…) se la giustizia viene dalla Legge allora Cristo è morto invano (Gal 2, 21)”. In realtà Paolo, proponendo queste frasi fortissime, intende dire che ogni morale degna di questo nome deve informarsi a Cristo stesso e diventare cuore, carne e sangue dell’uomo, per cui la vera libertà si declina come verità dell’essere cristiani, cioè figli adottivi di Dio e fratelli (imitatori) del Suo Figlio. Chi ama come Cristo non ha bisogno di nessuna “legge”, perché la vita stessa, in quanto autenticamente cristiana, si fa legge. In qualche modo “senza la Legge viene compiuto ciò che la Legge voleva“, come spiega H. Schmithals (Der Romerbrief, Gütersloher Verlagshaus Gerd Mohn, Gütersloh, 1988, 266).
Il cristiano è dunque libero perché è sotto la Grazia e non più sotto la Legge (cf. Rm 6, 14). Cristo è l’emancipatore vero per ogni uomo e donna di buona volontà, e la libertà è un suo dono; per il cristiano, secondo Paolo è accaduto con la venuta di Cristo ciò che per Israele avvenne con il passaggio del Mare dei Giunchi, secondo l’antica Haggadah (racconto) pasquale “(…) e Dio ci trasse dalla servitù alla libertà, dall’affanno alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù alla redenzione (m. Pes. 10, 5 e Es 15, 11)”, e “Suona la grande tromba della libertà (Diciotto benedizioni 10, M. Hengel, Die Zeloten. Untersuchungen zur jüdischen Freiheitsbewegung in der Zeit von Herodes 1 bis 70 n. Chr., Brill, Leyden 1976, 112 e 127)”.
In Paolo non vi è né il senso della partecipazione tipica delle moderne democrazie, ancorché imperfettissime e sostanzialmente oligarchiche, né il senso dell’autodeterminazione soggettiva in capo all’attività del soggetto raziocinante, sempre limitata e cagionevole, come ci stanno sempre di più spiegando le neuroscienze.
Quello che interessa a Paolo sono i frutti che lo spirito genera nell’anima umana e che le permettono di vivere una vita buona: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (Gal 5, 22s), frutti e doni che non abbisognano della Legge qualsivoglia sia, come anche Aristotele credeva: “Contro tali cose non c’è legge“. Con Gesù Cristo non conta né la circoncisione né il prepuzio, ma la fede in lui e quindi le opere che ne seguiranno, per la fede stessa e per la grazia.
Martin Lutero, frate agostiniano e intimamente “paolino” (cf. in V. Subilia, La giustificazione per fede, Paideia, Brescia 1976, 201) sostiene che “Buone, pie opere non fanno mai un uomo buono e pio; ma un buono, pio uomo fa buone, pie opere. Cattive opere non fanno mai un uomo cattivo; ma un uomo cattivo fa cattive opere (…) Le opere, come non rendono credente nessuno, così ancora non lo fanno pio. Ma la fede, come rende pio, così fa anche buone opere“.
Che dire dunque del terzo tipo di libertà? Forse che si tratta della libertà più dinamica? quella che per Tommaso d’Aquino e per il padre Cornelio Fabro è non il “fare ciò che si vuole“, bensì il “volere ciò che si fa“, in piena consapevolezza e totale limpidezza dell’anima?
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