solitarietà e solitudine
Una parola che sembra sbagliata per una consonante, una “t” al posto di una “d”, che darebbe “solidarietà”, ma no che non è sbagliata, voglio proprio dire solitarietà, cioè la caratteristica di chi vuole anche essere solitario, ma non avviluppato dalla solitudine.
L’etimologia è la medesima, quella della radice “olos” che significa, in greco antico, “tutto”, “intero”, e informa di sé anche il termine religioso “catt-olico”, vale a dire “secondo il tutto”, universale.
Questa radice greca si trova sia in “s-oli-tudine”, sia in “s-oli-tarietà”, ma significa qualcosa di diverso nei due termini diversi.
La solitudine è uno stato d’animo e una condizione topologica a volte desiderata e a volte subita, la solitarietà è desiderata, voluta, cercata, realizzata. La solitudine è a volte un poco triste, la solitarietà tuttalpiù è malinconica, e quindi dolce, attraente, desiderabile, specie in tempi in cui la compagnia è spesso noiosa e banalizzante.
La solitarietà paradossalmente ricorda un poco la morte, che è inesistente, perché esiste solo il “morire”, cioè l’ultimo istante del “vivere”: che bello dichiarare l’inesistenza della morte, e sostituirla con l’ultimo-istante del-vivere, dopo il quale ci può essere l’incontro con la luce e le presenze immortali che circondano il Divino di Dio, che bello. Essa ti accompagna quando riesci a sottrarti al tremendo e noioso scorrere degli incontri obbligati, sgattaiolando furtivo oltre ogni muro o cemento, e metti un passo dopo l’altro su un’interpoderale o un sentiero montano, quando i rumori del traffico vengono attutiti dalla lontananza o dalla fitta coltre dei boschi che il tuo incedere ha nel frattempo incontrato.
La solitarietà non porta alla depressione, non esaurisce le energie, non ci mette l’un contro l’altro.
La solitarietà è il luogo del riposo e del recupero, è il luogo-tempo della verità propria ricercata nello sforzo quotidiano.
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Questo articolo è perfetto se solo se ne capovolge a testa in giù il suo paradigma. Solitarietà, in quanto inesistenza, è negazione della vita, è condizione di una vita innaturale fintanto che si è vivi; è esser nati per finire e non per iniziare, per morire e non per vivere; è privazione della propria compagnia in quanto altro da sé e dagli altri. Tanto che il percorso dalla solitarietà alla solitudine è quanto più difficile del suo contrario, se non a volte irreversibile. Viceversa, la solitudine, è la grazia, è la rivelazione del chi siamo. È ciò che ci riconcilia con l’estraneità a cui tutti si è soggetti non appena appariamo nel mondo e, come tali, forestieri, ce ne andremo.
Apprezzo molto, cara Alba, le sue riflessioni che terrò in grande considerazione.
E’ vero ciò che lei scrive, ma mi devo spiegare meglio, per rispetto della sua attenzione: ho inteso trattare il tema della “solitarietà” per rapporto al tema della ben più nota e discussa “solitudine”, in questo modo, per una specifica ragione filosofico-pratica, in quanto una mia consultante (oltre che essere docente universitario di discipline filosofiche, teologiche e sociologiche, da una decina di mesi sono stato eletto Presidente di Phronesis, l’Associazione nazionale per la Consulenza filosofica ex Lege 4/ 2013), a un certo punto dei nostri dialoghi, mi ha chiesto di scriverne sul mio blog per favorire da parte sua ulteriori dialoghi in contesti personali, esistenziali, familiari e di lavoro. Il fine dell’articolo era dunque anche di “filosofia pratica”.
Sono molto contento che lei abbia ritenuto opportuno scrivermi, a ulteriore di-mostrazione che questi temi, certamente sempre trattabili sotto il profilo teorico, immediatamente dopo possono assumere una valenza pratica nella vita quotidiana di ciascuno.
Le auguro buone giornate e ogni bene, renato
Grazie mille per la risposta. Contraccambio volentieri l’augurio.
Cordiali saluti.
Alba