Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

la polise-mia del “mio”

PaperoneCari sindacalisti e cari dirigenti aziendali,

l’aggettivo e pronome possessivo “mio”, “tuo”, etc., se non ben compreso e contestualizzato, crea problemi.

Se è chiaro il significato proprio e immediato di “mio” come ciò-che-mi-appartiene nel senso che è di mia proprietà, non è molto chiaro quando uso questo termine per dire che un qualcosa mi è talmente vicino da poter essere definito “mio”, anche se mio non è sotto il profilo giuridico-legale.

Posso dire senza tema di essere sbugiardato o denunziato da qualcuno, se parlo al bar con un amico, la “mia azienda”, intendendo che è l’azienda dove lavoro. Oppure la “mia” squadra, intendendo quella per cui tifo. Questo “mia” è tutt’altro che banale o solamente metaforico, perché l’azienda dove lavoro, senza di me e senza i miei colleghi di lavoro, semplicemente non esiste più, diventa una scatola vuota, una mera ragione sociale, un ectoplasma, un ologramma inutile.

Con scarsa fortuna e distratta attenzione degli astanti, cercavo di spiegare questi concetti così intuitivi durante un incontro sindacale nazionale, dove il tema era: “i clienti che contatto io possono essere definiti miei, o sono solamente dell’azienda?” Se si vuole restare nel confortevole orto dell’ideologia posso dire che, anche se tratto personalmente quei clienti come miei, essi sono sempre dell’azienda. Certo, tant’è che, nel caso in cui mi siano affidati come portafoglio commerciale e io ne perda qualcuno, sono tenuto a fare in modo di ripristinarne il numero, pena il decadimento del portafoglio stesso

Per uscire dall’impasse concettuale ho provato -invano- a proporre la figura letteraria della polisemia, così diffusa nella lingua italiana, come nelle due lingue madri, il latino e il greco antico, figura che consente di stabilire e comprendere il senso del termine a seconda del contesto nel quale è inserito.

Perciò si può dire “mio” di un qualcosa che ha molto a che fare con me anche se non lo possiedo formalmente. Oserei dire che la “mietà” di quel qualcosa è forte e pregnante come se fosse di mia proprietà, anzi, la sua pregnanza è data proprio dal fatto che lo uso io a nome e per conto di qualcun altro che mi ha dato fiducia.

Ecco, forse, invece di indugiare troppo su una visione arcaica del diritto descrittivo e ordinamentale del principio di proprietà, servirebbe di più ragionare e utilizzare l’infinita ricchezza della polisemia e l’altrettanto infinita potenza della parola… come polisemia.

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