Vita, morale e filosofia come strada per la comprensione del senso delle cose
Il contesto esistenziale di ogni uomo e quello della difficile convivenza planetaria in questi tempi difficili, manifesta con una certa evidenza la perdita del senso stesso delle cose, potremmo dire dell’ubi consistam da parte dell’uomo, per cui non è azzardato affermare che vi sia anche il pericolo della perdita del sensus vitae, vale a dire di ciò che la vita umana è in sé e per sé.
Se il tòpos è il luogo dove l’essere umano conduce la sua esperienza vitale, dove esercita la sua umanità come modo universale di essere/stare-al-mondo, il sensus è ciò-che-rende-plausibile[1] il tòpos stesso, che altrimenti slitterebbe verso la condizione dell’insensatezza e del depauperamento del valore connesso con ogni coscienza irriducibilmente individuale.
Se infine la stessa nozione di male è messa in questione in termini concettualmente radicali, si può ipotizzare il formarsi di una condizione di pericolo[2] per il vivere contemporaneo[3] sotto due profili teorici: a) quello della crisi epistemologico-cognitiva, che caratterizza i nostri tempi, nonostante le scoperte scientifiche che si susseguono in ogni campo dello scibile; b) quello della crisi morale,[4] da intendersi anche come una crisi del sapere etico-morale, che si registra con la difficoltà di proporre una declinazione condivisa di un sapere da intendere come etico.[5]
La crisi epistemologico-cognitiva concerne tutti i campi del sapere, compresi quelli delle cosiddette scienze dure,[6] ma coinvolge a maggior ragione anche le aree studiate dalle scienze umane,[7] come quelle del plesso filosofico-antropologico, tra le quali si può annoverare senz’altro la stessa psicologia. Sembrerebbe che il paradigma di Heisenberg abbia conquistato tutti gli statuti epistemologici odierni, destituendo di certezza ogni conoscenza.
Oggi non vi sarebbe pertanto più nulla di certo, soggettivamente, né di evidente, oggettivamente, ma tutto sarebbe sottoposto al dubbio che ciò-che-appare non sia un apparire-dell’essere, ma un mero-apparire senza l’essere (delle cose, e alla fine anche dei concetti), un fenomenologismo senza noumeni. Una specie di mihi videtur, quia non sum certus de aliqua re.
La scienza morale, ne conseguirebbe, può dunque solamente prendere atto del suo stato di incertezza totale, innanzitutto come sapere che non sa più dire che cosa è bene e che cosa è male. La crisi morale sarebbe dunque una specie di crisi da afasia sul suo stesso campo di indagine, che è il campo della responsabilità dell’agire libero dell’uomo singolo, dell’intelligenza e della volontà individuali.
Si tratta quasi di una specie di tautologia o di circolo vizioso intrinseco/ implicito, che indebolisce sia il sapere sia l’agire morale, poiché il primo non sa dire al secondo che cosa è-giusto fare e il secondo non chiede al primo che cosa sia-giusto fare.
In questa situazione non è più possibile dipanare nulla, perché si inizia a non riconoscere più, o sempre meno, il valore di ciò che viene agìto, confondendo l’agire stesso con il suo effetto, anche in assenza di un fine ben chiaro, o in presenza di un fine obiettivamente[8] malo.
Nella riflessione sul male, non può infatti essere elusa la questione della colpa come accettazione del senso di un atto liberamente compiuto e indirizzato secondo il male.[9]
Se l’atto non è liberamente compiuto, è noto a tutte le morali che non si dà colpa di sorta,[10] ed eventualmente può darsi solo dabbenaggine o ignoranza,[11] ovvero, secondo le più recenti scoperte neuro scientifiche, difettosità biologica del cervello umano.
Le dottrine contemporanee sulla colpa e sul suo senso (di colpa) a volte paiono condizionate da una specie di freudismo e sociologismo ideologico diffusi, e le loro conseguenze, sulla traccia dell’individualismo filosofico, sembrano avere liberato l’uomo (occidentale) dal senso di colpa stesso o, come si può anche dire, dal rimorso. Alcuni studiosi,[12] ma soprattutto i divulgatori scientifici del sistema massmediatico, cercano di avvalorare come una conquista di maturità umana l’avere messo la sordina a quel tormento. Appunto. Forse si tratta di avere solo “silenziato” qualcosa di insopprimibile, sovrastandolo con il frastuono della modernità e con l’imponenza talora arrogante dell'”io attuale”. Ma, come il silenziatore non annulla gli effetti dello sparo della pistola, che colpisce con un soffio sordo, così il sentimento dello sbaglio fatto, cioè il rimorso, proprio appena si “fa silenzio” nella coscienza, ri-emerge. E non è qualcosa di astratto, bensì esso è tangibile, lancinante. Qualcosa che può ricordare il senso della scelta compiuta, e i suoi effetti.
Ma si tratta, appunto, di freudismo, cioè di una lezione solo “orecchiata” del grande medico e psicologo viennese, che allora lavorava in un contesto culturale e scientifico positivista. Il tema è stato ripreso e approfondito da J. Lacan,[13] riammettendo in circolo prospettive teoretiche ampiamente umanistiche, già abbandonate da molta della psicologia deterministico-meccanicista del ‘900.[14]
Potremmo dire con qualche ragione che il senso di colpa è una specie di nostalgia di verità e libertà dell’io? Sì, perché ci sembra che occorra riflettere sulla deriva odierna del senso di responsabilità individuale, che pare affidato a una sorte di negazione progressiva, come fosse sostituito da una incerta e traballante responsabilità collettiva.
Ma gli psicologi classici[15] ci insegnano che i meccanismi collettivi funzionano in modo del tutto diverso da quelli individuali. E noi sappiamo, non tanto dalla legislazione civica positiva antica e attuale (diritto romano e moderno), quanto da quella naturale (che poi è, per il nostro ceppo culturale biblico-ellenistico, quella dei dieci Comandamenti e delle Beatitudini, e poi dell’Etica a Nicomaco di Aristotele, di Epicuro, di Epitteto, di Seneca e Cicerone), che bisogna fare il bene ed evitare il male;[16] che fare il bene ed evitare il male è tutto quanto attiene l’esercizio delle virtù morali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, con i loro corollari di attitudini al buon agire (o habitus positivi). E che la responsabilità, sia etica sia giuridica, è individuale.
La secolarizzazione che ha accompagnato il processo di modernizzazione in occidente, inoltre, ha posto in seconda fila la dimensione metafisica della realtà. La secolarizzazione ha in parte fatto dimenticare la dimensione creaturale[17] dell’uomo, cioè i suoi limiti, la sua imperfezione, e anche la sua libertà di agire responsabile. Pare che quasi tutto sia diventato oggetto dell’agire collettivo o sociale e sua conseguenza o effetto, il bene agìto così come il male, e che poco oramai appartenga alla sfera della decisione interiore del soggetto umano, persona individua.
Ma le persone sono sempre più scontente e a volte disperate, proprio adesso che sembra abbiano conquistato l’autonomia da tutto e tutti, anche da un dio (o Dio) creatore. Questo è il punto critico. Questo è il punto dolente della sofferenza e della ricerca della verità su se stessi, non di una propria verità. E’ perciò che forse si può dire che il senso di colpa per le proprie azioni imperfette o sbagliate, in quanto atto proprio della coscienza morale, aiuta a ricercare la via che porta alla vera realizzazione di sé come progetto. E quindi tra le azioni è la più libera.[18]
Ciò che si può plausibilmente evincere da quanto sopra detto è dunque un’esigenza abbastanza comune, generalizzata: quella di cercare di andare personalmente (o di tornare) comunque ai fondamenti, al senso delle cose, dei concetti, dei valori, al tòpos e al lògos. E anche, elemento non secondario, ciò perché sono in crisi[19] le grandi figure dei maestri (di vita) storicamente riconosciuti.[20]
La Consulenza filosofica si pone dunque in questa intersezione decisiva, come pratica dialogale rivolta da Un uomo a un Altro uomo e viceversa.
Le scuole che si confrontano[21] danno risposte talora diverse in qualche senso e misura: vi è chi ritiene che il consulente filosofico debba mantenersi in una posizione osservante e rispettosamente distante da chi gli si rivolge,[22] mentre altri, passando per innumerevoli sfumature, ritengono più appropriato un certo interventismo nei confronti del consultante.[23] I primi rifuggono da ogni atteggiamento direttivo nei confronti della persona in consulenza, i secondi non lo considerano fuori luogo, specialmente in certe situazioni di particolare stress o difficoltà del consultante. In mezzo a queste due impostazioni, che qui vengono evidenziate in termini polari per mera comodità descrittiva, vi sono innumerevoli altre possibilità espressive e interpretative del ruolo consulenziale. Non sembra essere lecito definire oggi una epistemologia e una deontologia rigidamente legate ad un paradigma, poiché, nel rispetto di alcuni principi che sono stati evidenziati da chi sta da tempo su questa breccia,[24] si può ritenere che vi sia un ampio spazio per la ricerca e la propositività individuale degli interessati. Per quanto riguarda questo scritto, ci permettiamo di non farci annoverare in qualche “scuola” specifica, attenti a ciò che sta evolvendo nell’ambito del Progetto della Consulenza filosofica.
Qui già forse sono state delineate le linee di un’impostazione, che si potrebbe dire cognitivo-valoriale, senza che ciò suoni come definizione o circoscrizione di ambiti teoretici. Infatti, ogni impostazione è in qualche suo modo cognitivo – valoriale, diremmo quasi per antonomasia, poiché non si può dare consulenza su temi non banali che non sia fondata su una seria epistemologia e un apparato noetico e conoscitivo proporzionato e coerente.
Nel nostro caso la sottolineatura serve solo a confermare che i presupposti e, si potrebbe dire, la pre-comprensione dell’ambito di intervento e dei risultati attesi[25] non possono che essere correlati ad una particolare rigorizzazione terminologica e a una scelta etica connotata da chiare determinazioni, in questo caso per un finalismo eudemonistico.
L’intenzione è infatti quella di proporre una riflessione che avvalori ulteriormente un’ipotesi di “Consulenza filosofica” proprio là dove comincia diffusamente a venire meno l’oriente che ispira le scelte delle persone, innanzitutto a cercare di interpretare le parole del reale e dell’immaginario, e ad agire in base a questo rischiaramento concettuale e significante.
Ciò che rende perfino nobile questo progetto è la sua forte connotazione di servizio, se si vuole, in termini secolari e civici, e di caritas intellectualis, se si preferisce un termine teologico.
Ma non per affermare che chi fa consulenza filosofica debba per forza sentirsi annoverato tra i filantropi, ma perché la ricerca del senso dei concetti, delle cose e della vita costituisce un inter-esse, cioè un essere-tra le cose e la vita degli altri, necessariamente,[26] e nel senso dell’essere-per-via-insieme. È appunto questo condividere la comune sorte di umani su questo sempre più piccolo pianeta, che suggerisce di non evitare la reimmersione[27] nel reale esistenziale che costituisce il dilemma e a volte il tri-lemma o più della scelta puntuale individua, e carica di responsabilità morale, poiché libera,[28] sia pure non mai del tutto.
[1] Nel senso di “vivibile” razionalmente ed emotivamente.
[2] Va sottolineata la differenza concettuale fra “pericolo” e “rischio”, in quanto il primo si pone oggettivamente e ovviamente sul cammino dell’uomo, mentre il secondo si pone soggettivamente come “assunzione (di un rischio)”: il “pericolo” può sussistere senza il “rischio”, ma non viceversa.
[3] Occidentale, in particolare, poiché altri e più specifici discorsi richiederebbe un tentativo di analisi sulla condizione (condizioni) dell’umano a scala planetaria.
[4] In questo scritto intendiamo come quasi sinonimi i termini “etica” e “morale”.
[5] Non può non darsi, infatti, una declinazione del sapere etico, in quanto un sapere meramente “etico” senza attributi, non potrebbe mai esplicitarsi in un indirizzo morale, poiché ricadrebbe perennemente nel significato originario di “uso, costume, consuetudine”.
[6] Quelle che Dilthey definirebbe “Naturwissenschaffen”, e che sono quelle legate al mondo fisico-chimico e biologico.
[7] “Geistwissenschaffen”, o “scienze dello spirito”, sempre per Dilthey.
[8] È chiaro che questo avverbio presuppone un’epistemologia del sapere morale che si basa su alcune evidenze, come il fondamento antropologico del fine umano.
[9] Cfr. la nozione semitica di male come mancare il bersaglio (awòn/awòl) e quella greca come ingiustizia e infedeltà (̉α̉δικία). Male ha comunque un’accezione essenzialmente morale opponendosi in senso proprio alla nozione di bene.
[10] È noto che la dottrina tradizionale cattolica indica tre condizioni perché si possa configurare il “peccato grave”: a) la materia grave, b) la piena avvertenza e, c) il deliberato consenso.
[11] Anche circa l’ignoranza la dottrina classica distingue tra: a) ignoranza vincibile e quindi rimediabile e , b) ignoranza invincibile e dunque ambito nel quale non si dà mai la colpa, premessa della coscienza erronea.
[12] Cfr. il determinismo animalistico di un P. Singer o il primo comportamentismo di Watson e Skinner.
[13] Cf. G. Giacometti, Il Discorso dell’Altro, e Conferenza su Guerra, Violenza e Pulsioni di Morte, a cura di Castellarin e Di Ciaccia in Vicino&Lontano, Udine, Maggio 2009.
[14] Specialmente nelle scuole comportamentiste (Watson e Skinner) e della Programmazione Neuro-Linguistica (Bandler, Dilts e Grindner).
[15] Gli stessi maestri della psicoanalisi Freud e Jung, dunque, e poi più recentemente Rogers e Hillman.
[16] Bonum faciendum [est], malum vitandum.
[17] Il sintagma teologico “dimensione creaturale” può essere inteso anche nel senso a-teologico di un essere-a-questo-mondo fragilmente e precariamente.
[18] Il valore della libertà, discusso per millenni, oscilla tra le visioni estreme del libero (Aristotele, Agostino, Tommaso, Erasmo, Kant) e del servo arbitrio (Lutero) della necessità, del determinismo, dello scetticismo), oppure collocandosi in media virtute (J. Locke, J. Stuart Mill). Si potrebbe dire, alla luce di codeste riflessioni, che la libertà non consiste nel fare ciò che si vuole, ma nel volere ciò che si fa.
[19] Per “crisi” qui intendiamo l’accezione etimologica larga, come: giudizio, passaggio, evento, etc..
[20] Gli psicoterapeuti e i presbiteri.
[21] In generale e anche in Phronesis.
[22] Cfr. le “scuole del primo Lahav, di Pollastri o della Regina.
[23] Si potrebbe dire, se pure con sfumature nettamente diversificate, per quanto mi pare di aver capito, Montanari, Giacometti, lo stesso Zampieri, e, si licet, io stesso.
[24] L’Associazione Phronesis, con i suoi autori ed animatori responsabili.
[25] Non scandalizzi l’espressione “risultati attesi”, poiché qualsiasi attività umana non può non porseli, pena l’assurdo di una fatica di Sisifo ed essenzialmente inutile o pleonastica. Per chiarire: non ci si pongono qui obiettivi di “conversione” di traviati o malati nello spirito, ma semplicemente obiettivi di impegno serio e del tutto compreso della sua delicatezza e importanza, tali da non passare comunque inosservati o completamente inutili.
[26] Secondo l’etimologia classica di nec-cessat, ciò che non finisce.
[27] Che si era persa nei secoli, e destituita di ogni interesse all’alba della modernità.
[28] Non ci interessa a questo punto proseguire oltre, perché non servirebbe ad arricchire quanto proposto. Ora, piuttosto che indugiare sulle differenze tra le varie epistemologie o metodologie, è meglio impegnarsi a fare responsabilmente qualcosa.
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