La teologia, di per sé, non salva dalla presunzione, né dalla specular falsa modestia
Non so se lo studio teologico, avendo a che fare con la ricerca sul “divino”, solleciti strani appetiti spirituali, come la mancanza di modestia, che perdòno a Muhammad Alì, ma non ai teologi. Chi legge qui sa che anch’io sono un teologo patentato, e che non le mando a dire, e perciò…
In ritiro spirituale nelle Valli favolose ho letto due libri dal titolo quasi assonante: “Il destino dell’anima” e “Il destino di Dio”, non so se con la “d” maiuscola o la minuscola. Di Vito Mancuso. Nulla avrei da eccepire sul secondo titolo, se fosse stato messo tra virgolette come sopra anche sulla copertina del libro, a significare la diversa accezione logico-semantica che le virgolette comportano: virgolettando un termine, un sintagma, una frase, come è noto, gli si vuol dare un significato diverso da quello comune, proprio, conosciuto da tutti, per fare una riflessione concettuale più libera (cf. Rorty e Wittgenstein).
Non molto da dire sulla documentazione, abbastanza abbondante anche se piuttosto eclettica, ma molto da dire sulla pretesa di rifondare nientemeno che la Teologia fondamentale e la Teologia sistematica, cioè le discipline che trattano del tema di Dio e dei saperi correlati ad esso, come la Teologia filosofica, l’Etica, la relazione tra le Scritture e il pensiero sul “divino”, l’Antropologia teologica e così via.
La sensazione che ho tratto è quella di un Cafè Teò molto colto, ma altrettanto presuntuoso. Se sono condivisibili i fondamenti teorici evoluzionistici sulla relazione tra tutti gli elementi, dalle onde-micro particelle all’autocoscienza e al senso morale umani, cioè allo spirito-anima come libertà, e al Lògos ordinatore, passando per i mondi vegetativi e sensibili di piante e animali non-umani, sono inaccettabili certi giudizi negativamente definitivi, e quasi sprezzanti su grandi autori come Ireneo di Lione e Agostino, e perfin Tommaso d’Aquino non viene risparmiato. All’autore manca proprio il senso della diacronia, cioè la capacità, ben studiata da Gadamer in Warheit un Methode (Verità e Metodo), che suggerisce al lettore odierno di fondere -quasi- il proprio orizzonte cognitivo con quello dell’autore letto, per meglio comprendere le sue intenzioni. Ogni libro e ogni teoria parla nel suo tempo, e i tempi successivi devono tenerne conto. Se è stravero che la Chiesa ha commesso errori madornali e azioni criminali nel tempo (Galileo e Bruno sono solo i due esempi più clamorosi), e ciò è stato senz’altro sèguito di una concezione verticale e autoritaria nata forse fin dai tempi di Ambrogio di Milano, è altrettanto vero che una miriade di presbiteri, più o meno colti (mi viene in mente don Carlo Gnocchi), hanno rappresentato la carità e la misericordia meglio di qualsiasi “cristiano cattolico diverso” (cf. l’elenco a pag. 39 del secondo libro sopra citato, non so se e quanto autorizzato dai signori citati, dove ci sono due mie conoscenze).
Se è vero che la Chiesa ha rivisto nel tempo alcune dottrine, come quella agostinista del “Limbo”, se è anche vero che Agostino e Tommaso hanno espresso discutibili posizioni sul peccato originale e sulla salvezza dei bimbi morti non battezzati, se è -ancora- vero che nella Bibbia vi sono passi contradditori e incomprensibili, abbiamo almeno da duecento cinquanta anni gli strumenti esegetici e storico-critici per dare un nome e un cognome al genere letterario di quel libro biblico o di quell’altro, per interpretare la Bibbia con la Bibbia, come insegnava il sommo Origene. Peraltro, il noto teologo, dovrebbe sapere che la Bibbia è stata scritta da “enne” autori nell’arco di almeno mille anni! E dunque, come fa a essere un libro coordinato e coerente a confronto di un saggio contemporaneo, documentato sul web e su millanta librerie a disposizione?
Sul “peccato originale”: sappiamo che la versione teo-filosoficamente più profonda del concetto la dà “Giovanni” (virgoletto, così do un contentino all’autore di cui sopra), autore del quarto vangelo canonico, parlando di “peccato del mondo”. Eccome se c’è il peccato del mondo! Forse che non lo vediamo? E sulla “massa dannata” di agostiniano terrore, che dire? Che non c’è? Purtroppo c’è, basta consultare la sempre utile “curva gaussiana” e le più recenti ricerche neuro-scientifiche e neuro-etiche, per ammettere che forse il processo di ominizzazione, che dura da 1,7 milioni di anni non è ancora a buon punto, altro che datare il sapiens a 160.000 anni fa, un’inezia, come fa il nostro. E chi ha detto che Lombroso aveva tutti i torti, visto che nascono e crescono ancora tanti criminali? Non occorre tanto affannarsi (decine di pagine ne Il destino dell’anima) contro il “peccato originale” come evento storico, dai!
Circa il tema dei “novissimi” o “cose ultime”, cioè l’escatologia, la diatriba che l’autore propone, è tra l’esistenza o meno dell’inferno ovvero se l’anima possa essere annichilata, o recuperata in extremis, fosse pure quella di Hitler. Il teologo pone delle alternative: a) l’anima dannata va all’inferno per l’eternità; b) l’anima dannata, alla fine, grazie all’incommensurabile sacrificio del Figlio, viene recuperata alla beatitudine tramite l’origeniana apocastatasi (ricapitolazione), dottrina presente in De Principiis 3; c) l’anima dannata viene annichilata. Per quest’ultima si spende il nostro, perché la nozione di inferno per lui sarebbe inconcepibile e auto-contradditoria, in una visione perfettiva dell’essere, cioè del Lògos come Principio ordinatore assoluto (l’autore più citato a supporto di tale tesi è Urs von Balthasar, per il quale l’inferno esiste ma è vuoto), ovvero viene svuotato dall’apocatastasi teorizzata da Origene e confermata da Gregorio di Nissa e altri. Direi: quale contraddizione ci può essere con l’assolutezza del Principio ordinatore se si ipotizzasse un “inferno” come solitudine assoluta e assenza di beatitudine? Semmai una qualche libertà può essere riconosciuta all’anima umana, perché non anche quella di starsene lontana da un “Dio” amore sempre respinto in vita? E, forse che questa distanza non è, di per sé, la medesima annichilazione? Curiosa è infine la sua visione del purgatorio, che sarebbe solo un momento veloce di passaggio nei pressi della morte fisica. Sorprende che, nonostante la sua insistenza sulla dimensione metafisica dell’eternità, come nunc aeternum, come dimensione “avvolgente” il tempo e ogni tempo, e non successiva, in questo caso si ponga un evento che dura, se pure pochissimo, nel tempo. Ma questi sono i rischi di chi troppo vuole spiegare e riformare.
Io, che pure critico la mia Chiesa per una certa sciatteria organizzativa, per liturgie approssimative e banalizzanti, specie nella scelta di musiche “moderne” molto scadenti, per la vanità di molti presbiteri, per la noiosità di parecchie omelie, pure la riconosco come Casa spirituale, dove ho trovato e trovo laici e presbiteri sinceri e veri, forti e umili, determinati e pazienti. Potrei fare qui tanti nomi, certamente dimenticandone altrettanti.
la cosa che mi fa più inc.zzare, però, è il titolo del volume edito da Garzanti nel 2015 “Il destino di Dio”. Ho chiesto a mia figlia Beatrice, che non è una teologa ma una studentessa di italianistica, che cosa le fa pensare un titolo del genere, e la risposta è stata: ma Dio ha un destino? Bene, il signor teologo di cui sopra, in un ponderoso tomo di oltre 400 pp. sostiene che la religione si rinnoverà, quando sarà riuscita a fare a meno di “Deus”, tenendosi Dio (in italiano). “Deus” per lui sarebbe il “dio” della terribilità biblica, Yahwe, il “dio degli eserciti”, il “dio” che si compiace degli scannamenti dei profeti di Baal eseguiti a mano dal profeta Elia, poi assunto in cielo, etc.. E, naturalmente, Allah, e comunque il “dio” delle chiese varie ed eventuali. L’unico “Dio” vero sarebbe il suo, quello che, al di fuori della storia concreta, crudelissima degli uomini, presiede al Principio Ordinatore impersonale, creatore, ma non “signore” del “cielo” e della “terra”. E così altrettanto crederebbero i quaranta o cinquanta cristiano-cattolici diversi elencati a pag. 39 del su nominato volume, dove mette in un arbitrario pot pourri il padre Jacques Dupuis, Aldo Capitini, don Pierluigi Di Piazza, Augusto Cavadi (di Phronesis, come me), il padre (o ex) Leonardo Boff, don Tonino Bello, Pietro Prini, don Andrea Gallo, don Lorenzo Milani, don Brunetto Salvarani, il padre Giovanni Vannucci, Adriana Zarri, Rudolf Bultmann, Simone Weil e il dottor Albert Schweitzer, tra altri. E mi pare, a memoria, che non ci sia in elenco il padre Theilard de Chardin! Un elenco quantomeno, me lo si consenta, discontinuo per qualità. Si può dire?
Non è che ci sia un poco di presupponenza in tutto ciò? Abolire “Deus“, che è la dizione nobilmente latina di “Dio”, del theòs greco, del div sanscrito, da cui dies, giorno, e anche Deus, cioè luce, phòs in greco, luce intelligente per Platone, e anche per Einstein. A pagina 40 leggo “Il destino di questo Dio (che sarebbe “Deus”, ndr) è inesorabilmente segnato“. Però, che sicumera, che altezzosa declaratoria teologica, che profetismo! Mi ricorda quasi il nostro fin troppo esaltato padre Turoldo, che è diventato come Garibaldi, di cui non si può dir male. Turoldo, poeta importante e teologo mediocrissimo.
La cosa che mi impressiona e che non condivido per nulla nel libro su Dio, è la dichiarazione di conoscenza dei generi letterari, poi dimostrata nel testo, e la successiva “battaglia” contro i testi che sarebbero da non accettare più perché rappresentativi di un Dio (Deus) furibondo, imperfetto e contradditorio, cioè di un non-Dio o “dio” minuscolo e demiurgico, semplicemente una proiezione antropomorfica dell’immaginazione umana. Ma, dico, non sarebbe sufficiente tenere conto, appunto, dei “generi letterari”, appunto, come “Libri storici”, “profetici”, “sapienziali”, etc. e dei quattro livelli di lettura possibili, quello letteralista, su cui l’autore, anche se dichiara di non volerlo, spesso si impantana, quello spirituale, come messaggio trascendente, quello morale, come indirizzo etico, laddove plausibile, però (la Bibbia è pur sempre una raccolta di narrazioni materialmente scritta da esseri umani! pur se ispirata da Dio, ma non sotto dettatura, come è il Corano per i musulmani, my dear Mancuso), e quello anagogico, infine, cioè elevante, segno e limite del mistero, e mistero del limite umani.
Un altro aspetto che indispettisce è la sufficienza con cui il nostro tratta Maria di Nazaret e i Santi, e quindi la religiosità popolare. Ricordo ancora il monito di Paolo VI, che non era un inclito, di non atteggiarsi a intellettuali schifati di fronte alla pietà popolare dei santuari e degli ex voto. ‘Sto pomeriggio, la Beata Vergine degli Screncis mi ha salvato da un nubifragio, certamente con il pronao del suo santuario, ma io la ho avuta a grato. Solo muri e colonne neo-ioniche?
Questi, per il teologo neo-gnostico di cui sopra, contano quasi nulla, sono prevalentemente memoria e narratio letteraria.
Ripeto, dove sta un approccio storico-critico, non solo alle varie Scritture religiose, ma anche alla “storia umana”, se si vuole, quella che si riesce a conoscere da quando l’uomo ha lasciato qualche documento scritto o reperto archeologico?
Come si fa a dare valore probatorio a citazioni come quella del simpatico puro di cuore don Gallo che gli disse un giorno (p. 424 del libro citato) “(…) queste cose della Trinità non le ho mai capite bene pure io. Né, sai, mi interessano poi tanto. Perché vedi: a me basta che Dio sia antifascista.”
Nulla verba necesse est hic dicere. Un po’ di umiltà da non-rifondatore, suvvia!
Deus in adjutorium meum intende, Domine ad adjuvandum me festina (Salmo 70, 1), cioè, Oh Dio vieni in mio aiuto, oh Signore affrettati ad aiutarmi.
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