Accettare la perdita
La vita è tutta un “accettare perdite”: dei propri genitori quando giunge l’ora, della giovinezza perché si matura e si invecchia, della casa, del lavoro perché non è scontato andare in pensione dove ci si trova attualmente, essendo il pensiero stesso di “andare in pensione” molto discutibile, e così via.
La dimensione della perdita è un passaggio naturale della vita, come insegna anche il sapiente biblico Qoèlet, che dice “Vanità delle vanità, tutto è vanità (cap. 1)”, e anche, più avanti: “C’è un tempo per ogni cosa… sotto il sole… (cap. 3)”, quasi a dire come il transeunte sia la cifra dell’esistenza, e quindi dell’impermanenza delle cose e degli stati dell’essere, come insegna l’Illuminato Buddha. La vanità del possesso, la libidine del potere sugli altri, il dominio.
I maschi lasciati da una donna che la uccidono (e a volte dopo si uccidono), perché non possono più averla, appartengono a questa categoria, di coloro che non accettano la perdita, e per questo sono disponibili anche a chiudere il sipario su tutto.
Qui non voglio riprendere il tema del rapporto tra hardware e software dell’umano, tra struttura cerebro-mentale, libero arbitrio e morale, ma restare sul tema psico-morale della “perdita”, che ha a che fare con il “limite”, con la misura dell’umano. Tutto è limitato nella vita umana: la forza, l’intelligenza, la durata della vita, il successo o l’insuccesso, l’acutezza o meno dei sensi, la perspicacia, la saggezza, le varie virtù, e anche i vizi. Nessuno è mai virtuoso o vizioso del tutto, né se è un santo, né se è un delinquente abituale, perché anche i santi possono avere difettacci fastidiosi, e i criminali qualche barlume di umanità.
Poi vi è un altro tema, quello del controllo e del dominio sessuale: evidentemente vi sono dei maschi che non solo tanto “regrediti”, quanto evoluti in modo insufficiente, al punto da non riuscire ad accettare la progressiva inesorabile autonomizzazione della femmina umana, che nell’ultimo secolo ha fatto qualche gran passo avanti, al punto che una di loro sta per diventare l’essere umano più potente del mondo, dopo che da anni un’altra è l’essere umano più potente dell’Europa. Ciò non significa che si è raggiunto un equilibrio maturo tra i generi-sessi, ma qualcosa significa, dalle battaglie delle suffragette di un secolo fa.
Ma non basta, perché in generale, come dice lo psichiatra Andreoli, per molti maschi le donne sono ancora concepite come “cose”. Il maschio è rimasto un greve predatore, in alcuni casi, soprattutto nell’ambito familiare, dove ritiene di poter esercitare ancora un potere superiore.
Questi maschi vivono la perdita come un’insopportabile affronto, come un’umiliazione distruttiva, e allora scatenano la loro distruttività, incontenibile.
In queste ore sento ancora parlare di femminicidi, insopportabile neologismo per dire omicidi di donne, e addirittura di richieste che tali omicidi abbiano penalità sanzionatorie più elevate. Ritengo sia una follia, perché la vita di una donna vale né più né meno di quella di un maschio, o di un bambino. Altrove si deve lavorare, sulla cultura, sulla consapevolezza, sul dialogo, sulla logica, sul pensiero umani, che attraversano una fase di difficoltà regressiva.
Scuola, famiglie, tv e media in generale, sostenuti da una buona politica, devono occuparsene.
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