Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Lo sguardo giusto

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Saper guardare le cose nel giusto modo è importante. Quante volte ci confondiamo sul reale significato di un gesto, di una parola, di un fatto, perché lo interpretiamo come fossimo l’ombelico del mondo, anzi l’unico ombelico!

In realtà ognuno di noi è un “ombelico del mondo”, perché non possiamo evitare di partire da noi stessi come soggetto, per conoscere ogni cosa. Anzi, le filosofie idealiste, fin da Platone e sant’Agostino, ma con più evidenza e in modi diversi, da Descartes in poi, passando per Berkeley, con i picchi estremi della potente stagione tedesca dei primi dell’800 (Fichte-Schelling-Hegel), hanno sempre posto il soggetto pensante, o l’io, al centro del processo della conoscenza, addirittura (con Berkeley) affermando che “l’essere delle cose è l’essere percepito” (non l’essere della cosa in sé e tantomeno l’essere stesso, dimensione metafisica classica), a differenza del filone realista che ha i suoi massimi esponenti in Aristotele e san Tommaso d’Aquino e, più recentemente in pensatori come la Anscombe e Ferraris. Personalmente mi iscrivo a questa seconda scuola, pur ammirando moltissimo il filone platonico-idealista.

In realtà, si può dire che “hanno ragione” tutte e due le “scuole”, perché il realismo considera la realtà in quanto tale, al di là della nostra percezione (la realtà delle cose esiste anche indipendentemente da noi, anche se non fossimo mai nati, e dunque la realtà non ci interessasse, ovviamente), mentre l’idealismo sottolinea l’importanza della percezione e della successiva elaborazione e interpretazione soggettiva della realtà stessa.

I due approcci, o “sguardi”, sono altrettanto necessari e, a parer mio, integrabili.

Un primo esempio: la foto sopra, ripresa nella Terra del confine, in me genera un sentimento di pacata malinconia, consentanea al mio temperamento, ma in un’altra persona può dare un senso di misteriosa inquietudine notturna. La notte rappresentata dal cielo viola-turchese è un dato oggettivo, mentre la percezione diversa esprime la soggettività irriducibile di ogni osservatore umano.

Un altro esempio pratico. Quante volte ci capita di interpretare male o scorrettamente la frase di un’altra persona e ci offendiamo, ma la persona non aveva intenzione di offenderci, eppure noi ci offendiamo. Che è successo? Che qualcosa nelle parole proferite dal nostro interlocutore, ci ha disturbato, sarà stato il tono, la scelta dei vocaboli o… altro, magari il nostro stato d’animo o i pensieri precedenti all’interlocuzione, che hanno costituito un contesto repulsivo per il discorso altrui. Può dunque succedere che si creino problemi relazionali perché non interpretiamo bene e quindi non comprendiamo le reali intenzioni di chi ci parla.

C’è sempre una distanza significante, uno iato tra ciò che si proferisce verbalmente e ciò che viene percepito, inteso, capito. Vi è una linea di pensiero, compresa nella filosofia ermeneutica che se ne occupa da almeno un paio di millenni, possiamo dire dal lavoro straordinario fatto nei primi secoli cristiani dai grandi esegeti, e dai Padri della Chiesa. Un nome su tutti, quello di Origene, interprete sommo delle Scritture bibliche ed evangeliche, ma anche Girolamo e Agostino, Gregorio di Nissa e Giovanni Crisostomo, per arrivare fino all’Illuminismo, a Schleiermacher, e poi ai nostri tempi, con pensatori come Florenskij, Gadamer, Pareyson, Ricoeur, trascurando qui altrettanti nomi.

Origene parla di infinita ricchezza della “parola” e Pareyson di “interpretazione infinita”, mentre Gadamer proponeva la “fusione degli orizzonti” tra lo scrittore e il lettore, fossero (siano) pure distanti cronologicamente secoli e secoli; Ricoeur la “metafora infinita”, quasi a voler dire che si può dare, non solo una conoscenza realistica e logica delle cose, ma anche una conoscenza “metaforica”, che arricchisce la nozione di “verità” con le sfumature ineffabili di una “verità metaforica” che vive e irrora la verità naturale.

Meraviglioso. Così come è meravigliosa la realtà che viviamo, nella gioia e anche nel dolore, che ha un profondo significato, quello di ricordarci sempre il nostro limite e l’esigenza sapienziale di “essere pronti” (estote parati) con la bisaccia in spalla, e il bordone impugnato saldamente, per procedere, incedere, intercedere, camminare, lungo il percorso della nostra vita che è già, di per se stesso, meta che conduce più avanti e più in alto, nella comprensione della bellezza.

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