Gratia vivendi et augendi gratus
son grato a chi mi ha instradato nella vita. A mio padre semplice e operoso, nozionista strano, in sproporzione con la quinta elementare che aveva frequentato. Mi ha fatto studiare lavorando, lui, quasi fosse un servo della gleba, nelle profonde boscosità della Germania, insegnando probità, e una sorta di candore, per così com’era. Gli son grato del tempo dedicato a me nei brevi inverni del ritorno a casa dalle cave petrose d’Assia e di Wesfalia, quando mi disegnava con la memoria fantastiche distanze, capitali di nazioni arcane, lunghezze e nomi di fiumi e altitudini delle montagne più remote. Lo ringrazio anche perché non aveva ben capito quale era il mio lavoro e mi diceva: “Ma te ti pagano per parlare, trattare, discutere? Che mestiere fai?”
A mia madre, che non parlava mai di cose che non conosceva, non interrompeva i discorsi, non osava…
Ed è così che hanno creato spazi a me, che crescevo senza il timore di essere zittito, perché giovane, e un tratto di strada l’ho fatto proprio in ragione di quegli spazi a me dati, da loro due.
Ecco, sono stati pedagoghi naturali, ispirati da umiltà e buon senso, rispettosi della mia alterità, che non sapevano per nulla definire, come tale.
Se il ragazzo non ha questa libertà cresce conculcato, intimorito dai grandi, se questi pretendono di insegnargli a vivere, perché sono nati prima e loro sanno le cose, che invece il ragazzo ignora. Questi “grandi”, invece, ignorano che ognuno deve cercare la propria strada, con gli opportuni sostegni e indirizzi, e consigli (se richiesti, dopo una certa età). Ogni vita è un lavoro originale e unico, ogni esperienza vale nel suo darsi e farsi, evitando imitazioni pedisseque e copiature impigrite di altrui percorsi.
Non vi è al mondo un clone di ogni esperienza singola, ma solo esempi, che dicono qualcosa se non sono presentati come tali, ché altrimenti son prediche pedantescamente inutili, a danno dei giovani e di chi pretende di insegnar loro a vivere.
Io non ricordo un rimbrotto di mio padre a me, ma ricordo il suo occhio stanco di lavoratore, le sue tute lise, il suo sudore invernale mentre cavava ceppi e spaccava legna, e volevo imitarlo, e lo imitavo, perché già forte a quindici sedici anni. Non ricordo di lui paternali o sguardi delusi, anche se io tendevo a far-quel-che-volevo, senza sapere allora che libertà altro non è che volere-ciò-che-si-fa, non il suo -predetto- banalissimo contrario.
Di mia madre ricordo i silenzi, le perplessità silenti, la capacità di ascoltare la mia insofferenza, il mio grido di imberbe autonomia, un abbassar degli occhi, un dire “mi sembra che… forse sarebbe meglio…“. Nient’altro.
E io son qui a ricordare le due figure, umili, silenziosamente discoste, vera origine di tutta la mia vita, della varietà di intenti e di progetti, portati a buon fine per la fiducia e l’autostima che il loro “star-discosti” mi ha cresciuto.
E’ stato un po’ come nell’attività creazionistica di Dio-Cosmocratore, che si è come spostato per fare spazio al mondo, senza che ciò fosse per lui un arricchimento.
Anche loro si sono spostati, guardandosi bene dall’invadere il mio corso, e mi hanno così lasciato libero di diventare Atto di una Potenza che era in loro.
Mi spiace per chi, al contrario, ha avuto meno spazio, e conseguenze in proporzione, e auguro a chi legge di operare come chi mi ha fatto scoprire la bellezza originale della vita a questo mondo.
Post correlati
0 Comments