Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La baita degli angeli

  IL PEZZO SOTTOSTANTE SCRITTO PRIMA DI SAPERE DI NIZZA. ERO INCERTO SE PUBBLICARLO, MA TROVO GIUSTO CONTINUARE. LA VITA VINCE.

 

ALBERTOL’osteria di Polizza è nascosta dalla casa di pietra, mentre Alberto mi parla della sua lunga vita. La signora mi ha portato un bicchiere di rosso e biscotti con le mandorle, che intingo nel vino con gesto antico. Poi arriva un altro avventore che si siede con noi.

Ho incontrato Alberto nel cimitero di Gorenji Tarbji (Tribil Superiore), di ritorno da Duge, dalla Casa delle Rondini, uno sguardo e una parola “Tu non sei di qui”, “No, sono qui per il silenzio, vengo dalle pianure”. “Ti racconto, allora”.

Le parole dell’emigrante, segaligno minatore nei momenti della sera che viene. Siamo lì a camminare tra le lapidi, nomi sloveni e ricordi della truce guerra partigiana, perfino una lapide comune a ricordare i morti ammazzati. Dice Alberto: “Non si sapeva bene chi voleva che cosa, e prendevano le vacche dei contadini e i maiali e le galline su a Plataz e a Garmak, oppure a Hostne, e poi sparivano, ogni tanto si sapeva che uno era morto”. Alberto racconta. E anche della sua foto giovanissima, “avevo venti anni e tre giorni”, messa nella tomba di famiglia, “baita degli angeli”, la chiama lui, che sembra di un ragazzo morto di grisoù in miniera, e invece è rimasto sotto con altri tredici operai per trentadue ore, al buio. Era come morto e ha messo la foto, come se fosse morto. Qualcuno ogni tanto che passa di lì gli chiede “Ma chi è quel povero bel ragazzo morto?” e lui risponde, lui che è del ’35 e ha visto i partigiani, “Sono io” lasciando incredulo l’interlocutore, che scuote la testa e se ne va.

La sera tarda a venire a metà luglio nelle Valli favolose, e le parole scorrono, in pace. Poi mi ritiro a Casa Martina e chiudo fuori tutto il mondo. E scrivo e scrivo nella lenta sera che viene, ma lentamente passando tra i boschi e le cime arrotondate dei monti. Immagino la piramide del Monte Hum, salito un mese fa, oltre Tribil, verso il confine.

Prima di incontrare Alberto ero stato a Duge e volevo andare a Oblica, ma poi ho preferito tornare verso il cimitero dove l’ho incontrato, trovato, quasi mi aspettasse. In verità, secondo la mia convinzione sui nessi causali, “mi aspettava”, non so perché e in ragione di cosa, ma così è. Era stabilito ab aeterno dall’essere logico che governa il Tutto. Dio, che cerco continuamente, e a volte intravedo nella luce dell’alba o negli ultimi raggi del sole che cala giù oltre l’orizzonte. Luce pura, beatitudine senza fine.

Stanotte ho dormito nel silenzio che non trova parole e ho indugiato sognando spezzoni di improbabili, caleidoscopiche vicende. Andrò stamani al Sentiero della Memoria e della Pace per sentire dalle lontananze le voci dei soldati di cent’anni fa, che salivano furtivamente il crinale del Kolovrat, come avevano fatto mille anni prima gli Avari e cinquecento anni fa i Turco-Bosniaci, per dilagare nelle pianure, lasciando cromosomi corsari negli uteri delle donne prese. Eccomi qua, fors’anche con loro cromosomi, insieme con geni del nord, Goti e Langobardi. Alberto ha l’occhio grigiazzurro, ceruleo, come quello di mio padre, io scuri, ma è olivastro come me. Terra del Confine.

Il vento trascorre il suo canto tra gli alberi, come la brezza leggera del Primo Libro dei Re, dove Dio si manifesta nel silenzio, non nelle tempeste e nei terremoti. La Terra del Confine attende con pazienza il suo passaggio, sulle orme degli umani che ancora indugiano tra i sentieri e i borghi silenti.

Mi sembra di sentire il passo di Dio che passeggia tra gli alberi, come capitò ad Adamo, il “fatto di terra dove Dio stesso insufflò la vita”, mentre era nel giardino di Eden, a Est tra i quattro fiumi. Anche noi qui, Alberto e io, siamo tra i quattro fiumi, il Natisone, il Cosizza, l’Erbezzo e l’Alberone, mentre oltre il crinale scorre il nastro smeraldino dell’Isonzo, testimone di mille scorrerie, di mille battaglie, di cupi progetti di conquista e di liberanti abbandoni.

Ogni tanto campanili lontani come quello di San Volfango erto sul colle, mandano a distesa il suono delle campane a scandire il tempo e l’annunzio delle messe eterne, tante ma unica come il sacrificio dell’Uomo di Nazaret, il Figlio dell’Uomo (cf. Daniele e Marco), il Cristo fin dalla Fondazione del Mondo, (Giovanni, Apocalisse), co-creatore nella Sostanza unica di Dio. Alla faccia dei teologi che pretendono di capire tutto delle Scritture. Pochi preti girano per le Valli, ma la Presenza non manca.

Non so se Alberto è credente, ma non importa, vedo che crede nell’uomo, nella sua vita aspra, nella condivisione di un bicchiere di vino, nell’auspicio del mio ritorno e di un nuovo incontro, qui, nelle Valli favolose.

Il Sentiero della Pace, Pot Miru, mi ha accolto nella mattinata fresca. Ho visto le trincee e le feritoie da cui i “nostri” sparavano contro gli Austro-Ungarici, che erano nostri anche loro. Entro nei cunicoli dove stavano giovanissimi fanti, alpini, cento anni fa, erano dell’età di mia figlia, e morivano qui, di freddo, di dolore, di sangue e merda, di nostalgia. Scolaresche silenziose in visita per cercar di capire l’assurdo della morte data con violenza, per che cosa? Lo spieghi il general Cadorna.

Da un punto del Kolovrat si vede il mare verso sud-ovest, Tolmino in fondo alla valle, e Cividale. Il mare che accompagna i pensieri altrove, Tolmino verso il mondo Balcanico e le grandi pianure dove soffiano i venti aspri dell’Est, e Cividale, porta romana d’oriente e patria dei popoli barbuti venuti dal Nord. Il pensiero si perde e si ritrova, nell’eco dell’italiano accentato di Alberto, di ieri… della prossima volta.

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