Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La grotta delle Duje Babe e le buddiste che se la tirano

Giovanni e Alberto

Caro lettor mio,

è là sotto verso il torrente, quasi in verticale, dove scrosciano acque, e le fronde dei faggi cantano. Lì neanche i partigiani titini o i tedeschi erano in grado di arrivare. Giovanni Bergnach racconta di lontani eventi e di nascondigli arcani, dove i giovani uomini delle Valli si nascondevano agli invasori di varie bandiere.

…e a volte venivano visitati dalle Duje Babe, le donne selvatiche. Ho già scritto un pezzo sulla donna selvatica. Avevo sempre sospettato che nelle Valli accadessero cose strane e meravigliose. Come questo pomeriggio quando lungo il sentiero che da Gnijduca conduce a Tarby Goreni, ho senz’altro incontrato Alverman, lo spirito dei boschi, che mi ha visto con gli occhi del cuore, mentre se ne andava chissà dove.

Sei a funghi?” mi ha chiesto, “No, cerco silenzio e solitarietà, lontano da tutto”, “Ah, ti capisco”, con un sorriso, allontanandosi per una traccia di sentiero a lui solo nota.

Alberto mi racconta storie di dopo la guerra, nella sera che viene, da casa sua che dà verso Klinac, di armi nascoste nei granai e nei sottotetti, e di paure ancestrali, emergenti quasi dai cromosomi, a ricordo di antiche invasioni. Oggi le Valli aspettano che cambi qualcosa: se i giovani non fanno figli e i vecchi muoiono non c’è speranza, anche se resta la bellezza. La bellezza senza la speranza di vita umana è destinata a declinare, perché c’è sempre meno gente che si accorge di lei: ci vogliono occhi e cuori per capire la bellezza, anzi per sperare che ci sia.

Un’economia di sussistenza ha segnato secoli di vita nel tempo delle Valli, e le stagioni il volgere del lavoro, la cura del campo e del bosco, la tenuta delle bestie e il loro utilizzo. Il maiale, da dicembre a febbraio era il tempo per il suo diventare cibo fondamentale per le famiglie. La raccolta della frutta, le castagne, le patate del campo, la piccola vigna scoscesa.

La notte è silente nella valle e nel bosco, dormono animali e piante, e anche le donne selvatiche, appoggiate alla roccia. Si attende il primo luccicare dell’alba a oriente, per riprendere il cammino. Nulla disturba la notte, e l’alba sorprende con il suo lento apparire.

Il cammino nel bosco riprende verso il monte San Martino. Grovigli di piante cedue e sottobosco pieno di pioggia recente. Il verde è il colore della vita naturale, nel bosco e ovunque, squarci d’azzurro tra le fronde.

Scendo a Polava, l’antico borgo delle donne selvatiche, la intravedo dal torrente e poi le case inerpicate sul declivio del monte. Acciottolato duro che ricorda quando i vecchi andavano con le gerle a fieno per gli erti sentieri e le donne gli portavano la merenda, salame e pane e vino e fatica immane. Anche con i bambini e le bimbe andavano su le mamme e le nonne in montagna, che è la campagna di qui.

A Polava convegno buddista, donne intellettuali in tiro, ex sessantottine che hanno mollato il capello grigio, faticano a salutarmi, le stronze. Deluse dalla sinistra e dalla rivoluzione si sono buttate sulla meditazione esotica. Meglio, molto meglio la dura scorza dei valligiani, generalmente anti-titini, con qualche bestemmia tra i denti che resta lì. Non mi ero ancora fatto un’idea degli adepti al monastero di Polava, ora me la sono fatta. È chiaro che c’è bisogno di spiritualità, ma si preferisce lo snobismo, piuttosto che la ricerca nella tradizione cristiana mediterranea. Meglio andare a cercare lontano, fa-più-figo. Vinco la tentazione di interloquire, per chiedere che cosa facessero lì, ma facciano quel cazzo che vogliono.

Mi convinco sempre di più che l’intellettualità, se non si nutre della santa virtù benedettina dell’umile silenzio, diventa una moda, un darsi delle arie, un tenersi-su per non crollare giù. La gruppetta di femmine attorno alla storica fontana del borgo, già da me cantata anni fa, era tutta compresa del prossimo seminario di preghiera e meditazione, al punto che faticava a rispondere al mio saluto. La coppia che incontro camminando verso Cepletischis, per raggiungere l’auto lasciata al Passo San Martino mi incrocia in modo diverso: lui risponde al saluto cordiale, lei mi squadra, sessantenne figa e vestita in modo giusto, e poi degnandosi mi saluta. La stronza. Infinita stronza.

Io continuo il mio passo costeggiando il piccolo cimitero dove incrocio gli sguardi dei morti, per sempre vivi nella beatitudine generata dal loro lavoro, fatica, silenzio, e santificata dal tempo dedicato, dal dolore per la perdita, dalla gioia per la fioritura di gioventù curate e amate. Amo i cimiteri di montagna, sia quando sono pieni di neve, sia quando attendono l’autunno, che qui arriva prima, e non dopo, con i suoi colori indicibili.

Amo la terra consacrata dalla fatica, queste Valli favolose, come le mie terre di mezzo, risorgive d’acque e di prospettive fluviali, amo le grandi montagne bianche che si chiamano Dolomiti, che ho visitato e cercherò posdomani.

Amo i racconti della mina, delle visite mediche per andarvi, come dai racconti di mio padre che doveva essere a Marcinelle. Alberto è uscito dalla mina prima di finire lì, portandosi dietro gli attrezzi e i racconti di una lunga vita, dei camini che urlano e delle patate dell’orto, alla Casa delle Rondini a Duge.

Amo la discreta passione del narrare dei vecchi, e rispetto il volto scavato dagli anni. Il volto che faticosamente sta diventando il mio, quasi restio a lasciare che i giorni facciano il corso dovuto.

 

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