L’interpretazione inesauribile in Luigi Pareyson
Intuizione e sentimento nella comprensione dell’Altro. Ermeneutica idealista e ontologia personalista
Pareyson ricerca i lineamenti interpretativi del senso, a partire dal suo Grundfrage, il “fondamento” della domanda su ciò che è l’originario, e se esso stesso sia ciò-che-origina pure la domanda stessa: una prospettiva necessaria per esplorare brevemente la sua ermeneutica di accesso all’essere e ai significati della comunicazione umana. La stessa condizione di inesauribilità delle interpretazioni è data dalla infinitezza di ciò che viene interpretato e dalla varietà degli interpreti, per cui l’atto interpretativo costituisce il nesso unitivo della persona all’essere stesso; per contro, la verità, che per Pareyson non sarebbe accessibile alla mera riflessione discorsiva, è invece l’origine e la fonte del pensiero e del discorso umani. Ciò che genera lo stupore originario che pro-voca la domanda “che cos’è?”, e “perché?”, punto d’inizio di ogni riflessione filosofica [cf. in Leibniz la dizione “Ratio cur aliquid potius existat quam nihil”, o ”Pourquoy il y a plutôt qualche chose que rien”, o in Heidegger “Warum ist überhaupt Seiendes ind nicht vielmehr Nichts?”, cioè la ragione perché esista qualcosa piuttosto che il nulla; e letteraria, ad es. in Dostoevskij, e Leopardi, specialmente in Canto notturno d’un pastore errante nell’Asia: “…perché reggere in vita/ chi poi di quella consolar convenga?/ Se la vita è sventura/ perché da noi si dura? […] Dimmi: perché giacendo/ a bell’agio, ozioso/ s’appaga ogni animale;/ me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”, o nell’espressione μή φύναι, cioè meglio non essere nati, detto comune tra i lirici greci, e nel biblico libro di Giobbe].
L’interpretazione è l’unica forma di conoscenza capace di possedere un infinito, perché disposta ad accogliere ulteriorità. L’ermeneutica è lo strumento di ricerca della verità, ben oltre le tesi hegeliane circa la possibilità di una sua ottimistica esplicitazione e rischiaramento totale, ma al di qua della “rassegnazione”[1] heideggeriana circa l’ineffabilità e l’inafferrabilità dell’essere e del com-prenderlo mediante l’interpretazione, coerente con la gnoseologia del dialogo platonico. In questo ambiente la persona può scegliere tra le varie possibilità, così come nella vita ogni scelta è un de-cidere, un tagliare, sapendo che -nello scegliere- qualcosa andrà irrimediabilmente perduto. I due schemi, secondo Pareyson, quello hegeliano e quello heideggeriano, sono ambedue inadeguati, perché l’interpretazione non “scarta” nulla, procedendo sempre oltre, nel perenne dipanarsi del metodo maieutico proposto come strada maestra della conoscenza dal maestro ateniese. Infatti essa
“Rappresenta il tentativo di trovare un accesso al dire la verità che non si arresti all’alternativa, ugualmente paralizzante, di doverla contenere tutta o di incontrarla solo come assente, di esaurirla o di non poterla dire perché ineffabile.”[2]
Se la verità sfugge continuamente rinviando alla fatica dell’interpretazione, quest’ultima è, non solo inesauribile, ma anche rivelativa, poiché…
“Suppone un’inseparabilità di palesamento e latenza, perché da un’oscurità così fonda da non contenere nemmeno un presagio di barlume, non potrebbe prendere le mosse il processo d’illuminazione, e in un’evidenza così patente da non accogliere nemmeno il più esiguo segreto, andrebbe disperso il carattere sorgivo della verità come origine inesauribile.”[3]
L’opacità chiarisce bene la nostra posizione umana di medietà esistenziale, derivante da una sorta di antropologia della “sproporzione” tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere, per cui l’uomo non è né totalmente finito né infinito, ma un essere mediano e mediatore.
“Tra Hegel e Heidegger sta l’interpretazione pareysoniana, come quella che è la felice sintesi ricuperatrice di entrambe le istanze espresse da quelle filosofie. Pareyson condivide di Hegel la coappartenenza del metodo della verità, ma ne rifiuta la sovrapposizione, e di Heidegger l’aver colto la profondità e l’abissalità della verità, rifiutandone però le conseguenze: l’inafferrabilità e il silenzio.”[4]
Sembra di poter rinvenire in Pareyson il tentativo di una riflessione sintetica di due orizzonti di pensiero, quello di una verità che comunque si deve dare, e quello di una verità che è sempre da ricercare: la verità non è che l’inizio e anche il fine di ogni ricerca della conoscenza umana, che mai si esaurisce. Egli scrive:
“Una manifestazione completa, che culminasse nel tutto detto e auspicasse per la verità un’evidenza definitiva, rinuncerebbe a quell’implicito ch’è la fonte del nuovo, e finirebbe per puntare sull’univocità oggettiva dell’enunciato. Da un lato un culto del mistero che perviene sino alla Schwärmerei, cioè ad abbandonarsi deliberatamente ad una fantastica mitologia, giacchè il silenzio abissale e la notte senza fondo sono una falsa ricchezza che ben diversamente dall’agostiniano canorum et facundum silentium veritatis, non si presta che alla fumosità di allusioni arbitrarie ed evanescenti; dall’altro un culto dell’evidenza che giunge sino alla superstizione, cioè a pregiare l’esplicito per se stesso, ciò ch’è schietta idolatria, giacché la Parola tutta detta, priva di spessore, ignara dell’implicito, è poverissima, e pregiarla come rivelativa, cioè come sede della verità, sarebbe come valutarla più del dovuto.”[5]
Pareyson sottolinea i due rischi estremi che divergono: il primo è il rischio di credere nella possibilità di accedere ad un’evidenza del senso e della sua verità come immediatamente detta dalla parola, che nega ogni possibile ulteriorità del senso stesso; il secondo è il rischio di restare indolentemente nella fumosità di un’interpretazione paga di esplorare indefinitamente, senza mai darsi conto di una verifica dello stato di avanzamento della ricerca. E ancora:
“Da una parte la profondità senza evidenza, e dall’altra l’evidenza senza profondità: degenerazioni entrambe, perché ignare della natura dell’interpretazione, e fiduciose nell’irrazionalismo dell’inafferrabilità assoluta e dell’arbitraria allusività della cifra, o nel razionalismo dell’enunciazione completa e della comunicabilità oggettiva dell’esplicito.”
Tra irrazionalismo e razionalismo come prospettive assolute, Pareyson sceglie una terza via, quella di una ricerca fiduciosa e paziente, declinata nel corso dell’esperienza esistenziale: la vita è il contesto nel quale si dipana il percorso di ricerca del senso. Occorre abbandonare la metafisica dell’ente, per abbracciare una metafisica personalistico-esistenziale, sola garanzia di poter accedere alla verità. L’ontologia pareysoniana è la base che conduce alla sua ermeneutica, configurata come ermeneutica ontologica o ontologia ermeneutica. La rivelazione della verità nei testi scritti si attua mediante l’inseparabilità di presenza e latenza, di familiarità ed estraneità impostici dal testo nel momento in cui lo interpretiamo, come sorgente e discorso che rigermina continuamente dalla propria fonte, riproblematizzando ininterrottamente le proprie domande.
L’interpretazione rispetta la verità come inesauribile proprio perché non cerca di esplicitarla e obbiettivarla completamente, ma la accoglie come fonte dalla quale muove e alla quale attinge, nella sua continua ricerca. La com-possibilità di infinite interpretazioni non attesta l’esigenza di essere integrata per costituire una totalità, ma piuttosto rivela la sovrabbondanza della verità di pressoché infinite interpretazioni, e si lascia cogliere da inauditi punti di vista rivelativi della sua interezza e totalità.
“Nell’interpretazione è sempre una persona che vede e guarda: e guarda e vede dal particolarissimo punto di vista in cui attualmente si trova o si pone, e col singolarissimo modo di vedere che s’è venuto via via formando o che intende di volta in volta adottare, sì che tutta intera la persona entra a costituirli dall’interno, a generarli, a infletterli e dirigerli e determinarli, tanto nel particolare modo di vedere quanto nel singolare punto di vista. D’altra parte nell’interpretazione è sempre una forma ch’è veduta e guardata.”[6]
L’interpretazione desidera scandagliare su tutti gli strati, livelli e punti di vista del discorso e dello scritto, ed esige un continuo e instancabile approfondimento. L’ermeneuta non si accontenta di avere colto un “aspetto della forma” o “la forma in uno dei suoi aspetti”, ma intende continuamente andare, procedendo lungo la strada della lettura o dell’ascolto fino alla comprensione, anche ritornando sui propri passi con ri-letture. Filosofare sull’interpretazione è filosofare sull’essere, e dunque sull’uomo stesso.[7] Ed è anche filosofare sull’angoscia dell’uomo, sul timore esistenziale, sulle sue paure, che derivano dall’impossibilità di conoscere i passi successivi a quelli già percorsi sul sentiero: esso non è un continuum di cui si riesca a discernere anche i successivi momenti, ma è un discretum, inesorabilmente legato a ciò che non è conosciuto, perché non è stato detto, o svelato. Questo “sconosciuto” potrà essere com-preso eventualmente solo successivamente al superamento dell’ostacolo, del dolore, dell’incertezza, dell’inquietudine, dell’indefinitezza, della precarietà, che sono insite nella condizione umana. Pareyson incontra qui il Kierkegaard osservatore dell’angoscia, come condizione della libertà data all’uomo, e viatico per la stessa verità. Timore e angoscia non sono sinonimi. Il timore, che può essere servile o filiale è un sentimento che rappresenta, sia ciò che si prova di fronte a un qualcosa di sconosciuto e potente, sia le conseguenze dell’incertezza esistenziale dell’uomo. Il timore si esprime in due modi: servilmente, per paura della pena che sarà comminata dopo che il reato [peccato] è stato scoperto e sanzionato, o si può temere, filialmente, per il dispiacere causato all’altro [uomo o Dio].
“L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. E nessun grande inquisitore tien pronte torture cosí terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è piú debole, né sa preparare cosí bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare cosí a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte. Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la piú pesante di tutte le categorie.”[8]
L’angoscia è vertiginosa, secondo Kierkegaard, come un abisso. Certo è che chi vi si affaccia lo fa con la consapevolezza di guardare qualcosa di pauroso, impressionante, e dunque l’angoscia è nell’occhio dell’uomo che si rende consapevole della propria libertà. Chi si rende conto della profondità e del pericolo insito nella propria libertà, cerca appigli per non sprofondare nella paura. La libertà ha dunque dei limiti: la libertà è inscritta nei limiti dell’uomo che ne prende atto, temendo di precipitare in un vortice da cui sarebbe incapace di uscire. L’esistenza non è certezza, bensì costante dubbio, possibilità di ogni evento, senso di precarietà e debolezza. L’angoscia è la consapevolezza dell’esistenza. Se Kierkegaard costituisce un riferimento obbligato per Pareyson, sulle medesime tracce troviamo anche il padre Cornelio Fabro: nel 1983 declinava alcune Riflessioni sulla libertà che sembrano fatte apposta per chiosare il nostro discorso:
“La realtà della libertà, prima ancora del problema, è la prima esperienza che ha fatto l’uomo fin dall’antichità: eppure il problema della libertà pare non sia stato ancora risolto; più esattamente è stato il farne un problema, ovvero il subordinarlo al pensiero, cioè il rendere dipendente ciò che in sé deve per natura essere indipendente, che ha gettato la libertà, la realtà primaria appunto della liberà, alla mercé delle aporie. […] e la libertà -che Heidegger chiama aperità, apertura- precede e costituisce la verità. E la verità è la storia nel suo divenire.”[9]
In questo estremo e drammatico atto di fiducia nella libertà che, transitando per le porte dell’angoscia, porta alla verità, Pareyson istituisce l’ultimo corso del suo pensiero legato inscindibilmente all’impostazione filosofica iniziale e alla ricerca ermeneutica. Per il filosofo valdostano non si può dare una verità ontologicamente fondata, e dunque attingibile tramite l’inesauribile percorso interpretativo, se non nella libertà come necessario percorso del senso. Si tratta di una libertà del fondamento, iniziale, arbitraria, irrelativa e perciò stesso incondizionata dal successivo dipanarsi dell’esistenza. In Pareyson l’esistere è un darsi dell’essere alla coscienza, anzi l’unico suo darsi che non sia astrazione: questo esistere dell’uomo viene dopo l’essere su cui si basa. L’essere si dà nella libertà dell’inizio, scelta da Dio e da lui solo, come scelta “arbitrariamente” positiva sul non-essere e data per la libertà: con il rischio del male e del dolore, posti immediatamente a corollario della libertà dell’uomo, suo grund primigenio e inevitabile.
Luigi Pareyson constata così l’infinita possibilità produttiva di senso generale dell’ermeneutica per l’esistenza degli uomini.[10] Filosofare sulla verità delle cose [uomo, parola, discorso, mondo, etc.] non può che costituire un compito inesauribile, poiché la verità non può essere data una sola volta per tutte, ma solo in parte, a ciascuno, e per approssimazione, per scorci, attraverso pertugi e passaggi che sono essi stessi dei limiti, come condizione imprescindibile. Come i limiti denotanti l’uomo, le “cose dell’uomo” sono sempre da esplorare, e non si conoscono prima di avere concluso la ricerca, magari alla fine della propria esistenza. Nuovi stimoli suscitano l’esigenza di nuovi approfondimenti, nuovi “incontri”, dove l’ermeneuta e ciò che interpreta hanno bisogno di conoscersi e di “parlare”, cominciando da ciò che è semplice, e successivamente procedendo verso livelli sempre più complessi, con un
“costante sforzo di attenzione […] un continuo esercizio di congenialità, […] la conoscenza degli altri ha tutti i caratteri dell’interpretazione, […] e che lungi dall’essere unica e definitiva, non può presentarsi che come il risultato di un continuo sforzo di revisione e di approfondimento.”[11]
Nell’inesauribilità ermeneutica della ricerca del senso, l’unica forma di conoscenza è l’ermeneutica stessa, come porta d’accesso alla verità e al senso delle cose. Nell’interpretazione, l’aspetto storico delle vicende umane e l’aspetto rivelativo sono coessenziali, poiché in essa la soggettività deve piegarsi alla ricerca della verità, che non decade mai a pura opinione. L’ermeneutica non surroga ciò che è vero, ma ne trova le tracce e perennemente le segue, facendosi investire dalla verità che si rivela, perché ogni verità è innanzitutto coinvolta nel mistero e nella totalità. Tutti i pensieri e atti umani sono interpretazioni della verità dell’essere che trascende ogni situazione soggettiva.
“Non che l’interpretazione sia parziale attingimento dell’essere, bensì ogni vera e autentica interpretazione è il darsi stesso dell’essere in essa: essere che non sta quindi come un oggetto intangibile al di là delle proprie interpretazioni, e che tuttavia non si riduce alle interpretazioni, non ne è esaurito, ma mantiene la propria differenza ontologica.”[12]
Pareyson non teme che il processo inesauribile dell’interpretazione metta in questione la possibilità di accedere alla verità, al contrario: è proprio questa apertura, questa disponibilità inesausta e inesauribile dell’interpretazione che permette all’essere di manifestare il suo senso.
“Qui sta lo specifico della posizione di Pareyson rispetto a gran parte delle restanti filosofie ermeneutiche: il mantenimento, anzi la sottolineatura della imprescindibilità della verità per una concezione interpretativa della realtà. L’ermeneutica non solo non mette in crisi, ma cerca di comprendere ed esige ancora più fortemente di ogni altra filosofia, la verità.”[13]
L’essere, la libertà, il male, il dolore, la morte, si pongono per Pareyson lungo il crinale veritativo della filosofia, che trova nell’ermeneutica esistenziale un viatico unificante e perfino rassicurante, nell’itinerario senza fine del cammino umano. La vita umana è un luogo ermeneutico, là dove richiede quotidianamente un’attenzione per il senso delle cose che si dicono e si compiono, nella libertà. Dio stesso si è fatto spazio[14] per dare spazio al mondo,[15] e in questa kènosis ha dato tempo e grazia all’uomo in un’unione ineludibile e abissale, il cui significato è posto sulla strada della libertà e della verità ivi inscritta. Questo è il senso vero e ultimo di ogni ricerca della verità, perché Dio ha dato senso alla vita umana nella libertà. Pareyson ci viene incontro accettando la difficoltà di una ricerca imperfetta ed anelante ad apprendere sempre, e nella speranza attiva di poter accedere alla verità del senso, attraverso un’esistenza che testimonia la verità stessa. Come si può non notare un riferimento forte all’epistème platonica, improntata alla perennità della ricerca, nel concetto di inesauribilità dell’interpretazione dei testi e dei fatti umani presente in Pareyson? Non vi sono solamente “echi” platonici in quest’ambito sconfinato, perché, come in Pareyson si dà la disponibilità umilissima all’interpretazione infinita, questa rimanda immeditamente alla centralità della dialettica dell’ateniese, come una delle strade maestre del pensiero occidentale.
[1] Da intendersi nell’accezione corrente del termine, non nel senso etimologico di “ri-segnazione”, riaffidamento.
[2] Perone U., Modernità e memoria, SEI, Torino 1987, 27.
[3] Ibidem, 21.
[4] Di Nino M.C., Verità, interpretazione, inesauribilità e approfondimento. La domanda originaria in Luigi Pareyson, 4, www.dialegesthai.it, [27 ottobre 2011].
[5] Pareyson L., Estetica. Teoria della formatività, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1954, poi Bompiani, Milano 1988, 56.
[6] Ibidem, 65.
[7] Cf. Pareyson L., Esistenza e persona, ed. Il Melangolo, Genova 1985, 243
[8] Kierkegaard S., Il concetto dell’angoscia, in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, 1253.
[9] Fabro C. Riflessioni sulla libertà, Edivi, Segni [Rm] 2004, 7.11-12.
[10] Pareyson L., Karl Jaspers, Marietti, Genova 1983, 7.
[11] Pareyson L., Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 1985, 211.
[12] Tomatis F., Luigi Pareyson filosofo della libertà, Università di Torino, www.pareyson.unito.it/Par_lib.html [29 Settembre 2009].
[13] Tomatis F., www.pareyson.unito.it/Par_lib.html [29 settembre 2009].
[14] La difficoltà di aderire con la Parola al concetto che si intende si fa a questo punto ardua.
[15] Mondo come mundus, come “mondo”, trasparente [cf. Barzaghi G., Lo sguardo di Dio. Sub specie aeternitatis, Cantagalli, Siena 2004].
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