Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Martin Heidegger e l’ermeneutica ontologica, per la verità

MARTIN-HEIDEGGERCaro lettore, ancora un’anticipazione del volume prossimo, utile per riflettere sulla crisi del pensiero e della comunicazione odierni, la penultima…

 

1.   La questione della Verità come disvelamento

 

Il filosofo di Messkirch si colloca in un alveo fondamentale della filosofia del ‘900, sia per la sua rimeditazione sul pensiero antico a partire da Parmenide e Platone, sia per il superamento critico dell’idealismo di marca hegeliana. Questo suo “porsi a lato” delle grandi tradizioni filosofiche gli consente di iniziare un cammino nel quale la dimensione ermeneutica del linguaggio assume una sempre maggiore importanza gnoseologica ed esistenziale. Nonostante Heidegger critichi con forza la metafisica classica, egli si pone in una prospettiva comunque profondamente intrisa dell’antica metafisica. Se per Heidegger la verità è quasi sinonimizzata nel termine di svelamento, come si può dire che questa non sia, in fondo, una nozione ancora platonica, stante che per il maestro ateniese la verità si poteva manifestare essenzialmente nella dimensione maieutica del procedimento dialettico?[1] Infatti, sia nel suo commento al “mito della caverna” del libro VII della Repubblica,[2] dove gli uomini lentamente, e per gradi [orthòteros], accedono alla verità, partendo dal mondo delle ombre, fino alla chiarità dell’idea, sia nella Lettera sull’Umanismo,[3] il nostro rileva come Platone si sia spinto anche oltre la possibilità di un mero svelamento dell’essere, per accogliere l’altra dimensione, quella della possibilità da parte del soggetto di intuire l’essenza, cioè la verità dell’essere stesso. In Essere e tempo,[4] riprendendo da Husserl la nozione di fenomeno come “ciò che significa il manifestarsi”, vale a dire “ciò che si pone in chiaro”, l’illuminarsi, Heidegger propone il fondamento della verità come svelamento, come apparizione e non più solo come l’adaequatio intellectus et rei.[5] Per Heidegger il Verstehen,[6] il comprendere,

“[…] non è un comportamento tra i molti possibili dell’essere umano, ma è piuttosto il movimento fondamentale della sua esistenza, il progettarsi in vista delle sue possibilità. In questo senso il filosofo tedesco parla di una ermeneutica della fatticità, intendendo con ciò il compito di portare all’espressione la stessa esistenza, […] con la conseguenza di porre sempre più decisamente l’accento sull’evento della verità, che si presenta sempre come disvelamento e occultamento e nel quale risulta fondato ogni procedimento rivelativo, non escluso quello delle scienze”.[7]

 

Heidegger sostiene un superamento dell’eterna diatriba metafisica fra l’idealismo che individua nel Logos dato come pensiero concettuale o manifestazione esteriore della verità delle cose, e il realismo, che ritiene di individuare negli enti l’oggettiva verità delle cose-in-sé: questo superamento è la manifestazione eidetica della verità nel linguaggio stesso, non più solo “segno linguistico”, ma tout court res designata con dignità ontologica. Il segno rivela per Heidegger la struttura ontologica di ciò cui il segno stesso rimanda: tra il dire originario [Sagen] e il mostrare [Zeigen] si manifesta un’analogia con il pensare [Denken], il parlare [Sagen] e l’apparire [Erscheinen], capace di creare una sorta di circolo ermeneutico fra ciò che viene-detto e ciò che può-venir-detto: in questo contesto vi è un parlante/scrivente e un ascoltatore/lettore. L’ermeneutica è un’analitica dell’esistenza e una fenomenologia della comprensione esistenziale: il Dasein [l’esserci] è il modo di essere dell’uomo, quello della comprensione. È interpretazione [Auslegung, Erörterung] come disvelamento [Aufweisung], capacità di cogliere nelle e tra le parole le tracce dell’essere. Per Heidegger l’ermeneutica è il progetto esistenziale connesso alla vita e al suo poter-essere, anche se ricco di una congerie infinita di aporie, contraddizioni e dubbi, riguardanti la struttura stessa dell’essere. In questa prospettiva egli usa un linguaggio filosofico come nella tradizione presocratica,[8] cogliendo l’essere nel suo darsi immediato alla comprensione dell’uomo, in modo rigorosamente fenomenologico.

La sua analisi esistenziale è una forma assoluta di ermeneutica,[9] poiché l’esistenza è un’autointerpretazione continua delle possibilità dell’individuo, un comprendersi dell’uomo oltre il “si” anonimo e impersonale della chiacchiera comune dell’inautentico. Il transito dell’uomo nella temporalità [Zeitlichkeit], cioè dal passato per il presente verso il futuro, pone la questione dell’interpretazione continua dell’uomo, che-è-ciò-che-passa dato nel tempo, tra un già e un non-ancora, tra un essere-attuale e un poter-essere. La sua ermeneutica, con il concetto di esser-ci [Dasein], travalica continuamente la semplice presenza di una vita davanti alle altre, o di un testo. L’ermeneutica esistenziale e l’ermeneutica del linguaggio si intersecano reciprocamente fino a fondare la dimensione ontologica e storica dell’intera esistenza.[10]

 

 

2. La comprensione dell’Esser-ci [Da-sein] come manifestazione della Parola e del Silenzio

 

Come il Dasein è dinamico, e l’interpretazione è sempre rivolta avanti-a-sé-essendo-già-in [nell’avvenire], così il linguaggio dell’espressione poetica e artistica è un “linguaggio ontologico”, perché esprime l’uomo nella sua totalità. Heidegger afferma che la verità dell’essere è, in greco, a-lètheia, cioè non-obliamento o disvelamento manifestato tramite il linguaggio umano: “Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora.”[11] La questione dell’essere [Seinfrage] come linguaggio [sapere ontologico] differenzia la questione dell’essere come esistere [sapere ontico o esistentivo], che va considerato nel tempo. Ancora Heidegger: “Ciò che determina ambedue, essere e tempo, in ciò che è loro proprio, cioè nella loro coappartenenza, noi lo chiamiamo Das Ereignis [l’evento]”.[12] Vale a dire che in-ciò-che-accade avviene la conoscenza della verità. E in ambito etico: “Se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno [terreno] dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere […] è già in sé l’etica originaria”.[13] Il filosofo tedesco vuol dire che l’uomo è valore-in-sé, non valore derivato, come vogliono altre prospettive. Infatti, secondo lui Genesi [1, 27] conferma ciò con più forza, presentando l’uomo come immagine del divino.

L’uomo deve porsi davanti all’essere rispettando e coltivando il linguaggio, rifuggendo la sciatteria e l’approssimazione, il pressapochismo e l’illazione, ponendosi in una situazione di ascesi [gr. àskesis, che vuol dire letteralmente “esercizio”], di raccoglimento-che-lascia-essere [Gelassenheit], ma avendo presente il rischio di un ottundimento che oggi può essere causato dalle tecnoscienze e dalla sottovalutazione della crisi cognitiva ed etica in atto. La filosofia, come la poesia, è un pensiero poetante mentre è pensiero pensante. La verità si manifesta attraverso il linguaggio e tutte le sue figure, a partire dalla metafora, che dà respiro al pensiero, come ossigeno spirituale, e in tutte le stratificazioni polisemiche della parola. Ogni parola interpella la totalità, ogni parola rinvia ad altro, come l’io al tu, simboleggiando[14] indefinitamente lo scivolamento dei significati e dei sensi nei contesti infiniti, e negli ambiti di ricezione del messaggio. Meta-linguaggio e linguaggio si intersecano e si aiutano, esigendo un rigore distintivo nella scelta dei termini, ma lasciando nel contempo una grande libertà all’ermeneuta, all’interprete, al lettore-ascoltatore. Occorre distinguere per unire, occorre separare per collegare. Il rapporto esistente fra pensiero e linguaggio si raccorda in una sorta di ontologia ermeneutica.          La poesia [Dichtung] è l’essenza di tutte le arti,[15] poiché creare, escogitare, inventare è un insieme di significati del verbo tedesco dichten:

La verità, come illuminazione e nascondimento dell’ente, accade in quanto gedichtet, poetata.”[16]

L’opera d’arte linguistica, la poesia in senso stretto, ha una posizione peculiare nell’insieme delle arti.”[17]

 

Il linguaggio rende manifesta la stessa struttura della mondità [cioè dell’essere del mondo]. La precomprensione dell’essere stesso, per Heidegger si concreta di fatto nel linguaggio,

Dove non c’è linguaggio non c’è nessun aprimento dell’ente […]. Il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accadere alla parola e all’apparire.”[18]

 

Il linguaggio è essenzialmente poesia, ed è sempre inesauribilmente simbolico, anche se non ogni parlare è creazione. L’uomo è Gesprach [dialogo], poiché se l’uomo dispone del linguaggio, a sua volta quest’ultimo dispone dell’uomo, perché egli “vi nasce dentro”. L’uomo è così un messaggero, un “Hermes” del linguaggio.    L’apertura alla verità è sempre di carattere linguistico:

La presenza [l’essere delle cose] è, come presenza, un presentarsi di volta in volta all’essere dell’uomo, in quanto è un appello [Geheiss] che di volta in volta chiama l’uomo. L’essere dell’uomo è, come tale, ascoltante, perché è sottoposto all’appello che lo chiama, alla presenza. Questo sempre identico, questa coappartenenza [Zusammengehören] di chiamata e ascolto, sarà dunque l’essere?.”[19]

 

L’ermeneutica è anche un pensiero dell’essere. Se l’evento [Ereignis] dell’essere si dà nell’unità di appello e risposta, allora nel linguaggio inteso assolutamente, e non come mero strumento della comunicazione, si intenderà il darsi dell’essere stesso. Heidegger giunge così ad un’ermeneutica ontologica o ad una ontologia ermeneutica. Le cose sono da comprendere nelle parole o nella Parola, in ragione della quale ad essa bisogna riferirsi: in quest’ambito la parola be-dingt, rende cosa la cosa [Ding].[20] Le cose, i fatti, ogni evento [Ereignis] appaiono dunque attraverso la parola, trascendendo ciò che si intende correntemente, e dunque risalendo a ritroso per le rive del significato originario, dell’etimo, fino al fonema fondante. Il pensiero è ermeneutica pura, perché è in ascolto del linguaggio. E lo è, almeno a partire dal significato che diede a questo termine Schleiermacher. L’interpretazione, in questo senso, altro non è che risalire dal segno al significato: l’ermeneutica permette di collegare gli spazi vuoti che si aprono fra l’essere e il nulla, o fra l’ente e il ni-ente, posti ai limiti delle possibilità della conoscenza.[21] Heidegger chiama questo tipo di interpretazione Er-örterung, cioè il “luogo-dove-la-Parola-risuona”.[22]

Che cos’altro è leggere se non raccogliere:[23] raccogliersi nel raccoglimento in ciò che, in quel che è detto, rimane non-detto?”[24]

 

Perché il totalmente esplicitato è chiuso nel Grund, nel fondamento, e non in altro. Accanto alla parola, per Heidegger così simbolicamente infinita, bisogna che trovi spazio il silenzio e l’ascolto del silenzio: i silenzi sono il luogo più profondo che risponde al parlare e allo scrivere dell’uomo.[25]

“Che il linguaggio diventi solo a questo punto oggetto del nostro esame deve far capire come il fenomeno linguaggio abbia le sue radici nella costituzione esistenziale dell’esserci.”[26]

Il discorso è articolazione ‘significante’ della struttura comprensibile dell’essere nel mondo.”[27]

 

Per Heidegger occorre por fine a “una certa metafisica” che separa, per apprendere una metafisica nella quale l’essere e l’ente siano ricompresi nella realtà dell’esser-ci [Da-sein], di cui il linguaggio e l’applicazione ermeneutica dell’esegesi siano i mentori principali. Il senso-che-si-annuncia non è sempre plausibile, così come la verità non è più adaequatio intellectus et rei, bensì di-svelamento [α̉λήθεια], apparizione. Il linguaggio è l’orizzonte che accomuna, entro il quale opera l’essere: il linguaggio e l’interpretazione non si possono trattare in qualsiasi modo, perché costituiscono aperture o interstizi tra i quali passa la nostra esperienza, la nostra esistenza, e passiamo noi come enti-che-sono-lì, gettati nel mondo. Essere e linguaggio appartengono alla stessa verità [α̉λήθεια], alla medesima ontologia, poiché nel linguaggio troviamo libertà, pur se vincolati alle regole dell’etimologia, della sintassi e della grammatica, una libertà da custodire con cura. Heidegger ci lascia una sorta di consegna per cogliere la linea di avvicinamento all’obiettivo: il legame costituito fra essere [esser-ci] e linguaggio, tra l’uomo stesso e ciò che l’uomo produce, definisce e comunica. In quest’ambito il dialogo, la parola-che-attraversa-spazi, di stampo platonico, svolge il ruolo essenziale di strumento veritativo.

 

 

[1] Cf. Volpi F., Heidegger e i Greci, abstract dal sito dell’autore, 98.

[2] Platone, La Repubblica, Ed. Economica Laterza, Bari 1994.

[3] Cf. Heidegger M., Lettera sull’umanismo, coll. Segnavia, Adelphi, Milano 1987.

[4] Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1982, 175.

[5] Cf. Volpi F., Heidegger e i Greci, abstract dal sito dell’autore, 90-94.

[6] Capire, comprendere.

[7] Cf. Bianco F., voce Ermeneutica, 574, vol. VII, GDE Utet, Torino, 1992.

[8] Cf. Volpi F., Heidegger e i Greci, abstract dal sito dell’autore, 99.

[9] Cf. Turco D., Martin Heidegger, www.filosofia.it, 3, [28 ottobre 2011].

[10] Ibidem, 9.

[11] HEIDEGGER M., Sein und Zeit, Essere e Tempo, cit., 157.

[12] Ibidem, 198.

[13] Ibidem, 203.

[14] Sùmbolon, simbolo è ciò che unisce, ed è il contrario del diàbolos, che è ciò-che-divide, il separatore, l’avversario.

[15] Cf. MASSARENTI A., Il pensiero di Martin Heidegger. Opere scelte di grandi filosofi; testi a cura di G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Ed. Laterza&Figli Spa, Roma-Bari 1971, 175.

[16] Cf. HEIDEGGER M., Unterweges zur Sprachen, Pfüllingen, 1959, trad. it. di Chiodi P., 1971, a cura di Massarenti A., Il pensiero di Martin Heidegger. Opere scelte di grandi filosofi, ed. Il Sole 24 Ore Spa, Milano 2006, 56.

[17] Ibidem, 57.

[18] Ibidem.

[19] Cf. Heidegger M., Zur Seinfrage, pubblicato dapprima con il titolo Uber “Die Linie”, nel vol. Freundschaftliche Begenungen, in onore di E. Jünger, Frankfurt 1955, e poi, separatamente, ivi, 1956, trad. it. Chiodi P., 1971, a cura di Massarenti A., Il pensiero di Martin Heidegger. Opere scelte di grandi filosofi, 58.

[20] Cf. Heidegger M., Unterweges zur Sprachen, cit., 96.

[21] Sia essa di tipo analitico, o sintetico, o dialettico, o analogico.

[22] Cf. Heidegger M., Unterweges zur Sprachen, cit., 37; serve anche confrontare il termine Er-örterung, qui utilizzato dall’autore, con Erklärung, spiegazione, e Erläuterung, delucidazione, utilizzati altrove.

[23] Anche qui gioca l’etimo tedesco, il quale è analogo a quello latino, dove legere significa anche raccogliere.

[24] Cf. Ibidem, Unterweges zur Sprachen, cit., 48: è un passo di una lettera del 1950 a E. Staiger, riprodotta in E. Staiger, Die Kunst der Interpretation, Zürich 1955.

[25] Cf. Ibidem, 186.

[26] Cf. Heidegger M., Sein und Zeit, cit., 199.260.

[27] Ibidem, Sein und Zeit, cit., 200.261.

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