Il padre Cornelio Fabro, friulano e italiano grande… e poco conosciuto
Voglio ricordare qui un friulano, un prete colto e silenzioso, un filosofo grande, umile e non falso modesto come altri presbiteri, e mai arrogante come talora si manifestava anche il padre David M. Turoldo: il padre Cornelio Fabro, che ho avuto l’onore di ricordare durante le celebrazioni del centenario della sua nascita, nel 2011, a Talmassons, suo comune di nascita.
Di seguito la mia prefazione alla biografia scritta dal prof. Roberto Tirelli.
“L’anima che ha l’esse (l’essere, ndr) indipendente dal corpo (immortalità), ha anche l’agire indipendente dal corpo (libertà).”
(Cornelio Fabro)
Cornelio Fabro, uomo di questo nostro piccolo mondo. Nato a Flumignano di Talmassons, Friuli.
“[…] Eppure, nel 1911, proprio in Flumignano da una famiglia poverissima,forse ancor più delle altre, ha i suoi natali Cornelio Fabro, che sarà fra i più grandi pensatori del Novecento […]”, così narra la sua venuta al mondo Roberto Tirelli, con toni quasi increduli che la poverissima terra dell’estremo nordest italiano potesse dare i natali a un tal uomo.
Sacerdote per vocazione e filosofo per amore della verità, il Nostro.
“Nel caso di Cornelio non sarà il fisico debole a dettarne il destino, ma lo spirito più forte”, chiosa Tirelli all’inizio del suo racconto, spiegando come il piccolissimo Cornelio abbia rischiato di non sopravvivere, colpito da più malanni, che allora lasciavano poche speranze ai bambini.
Professore e parroco insieme, sempre umilmente dedito allo studio, come all’insegnamento, come anche alle partite di pallone con i ragazzi dell’Oratorio di Santa Croce al quartiere Flaminio di Roma.
Molto meno noto di altri presbiteri intellettuali, anche friulani, ma forse più fondamentale.
“Un bambino con gravi difficoltà, ed il caso non è raro ancora agli inizi del XX secolo, trova naturale e piena accoglienza nella famiglia friulana, ove la solidarietà del sangue si unisce alla dimensione religiosa di una convivenza fondata sul reciproco aiuto. E’ un intero paese ad integrare questo suo figlio nella propria vita ed a considerarlo come componente a pieno titolo della comunità senza discriminazioni. E’ questo il silenzioso, ma efficace sostegno che Flumignano dà al piccolo Cornelio facendolo partecipare alla vita quotidiana di un borgo rurale ove la gente di tutte le età si muove, lavora, parla, si incontra, offre amicizia, litiga e fa pace, gioca e canta, partecipa alle gioie ed ai dolori degli altri come se fossero propri […].”, così continua la narrazione di Tirelli.
Flumignano dà qualcosa, dà molto al piccolo Cornelio.
E, racconta ancora il biografo: “[…] povertà e freddo accompagnarono infatti gli anni della sua infanzia, soprattutto durante la guerra. A volte, raccontava, in casa non c’era niente per cena e allora la mamma andava in una delle vicine ‘sorgive’ della palude e con un panno da cucina raccoglieva un po’ di ‘pesce minuto’ e con un uovo faceva una frittata: era la cena che doveva bastare per tutti. Nelle lunghe buie e gelide sere d’inverno, per difendersi in qualche modo dal freddo, si rifugiavano insieme ai vicini nella calda povertà di una stalla e lì, a lume di una lanterna, si pregava e si narravano storie. E ricordava ancora come, a lui bambino, facessero piacere quel mormorare quieto di voci e quel tepore, così che pian piano scivolava nel sonno e la mamma se lo riportava a casa, in braccio, addormentato.
Ma d’estate, nelle sere all’aperto, c’erano le profonde notti stellate, e il tremolio delle lucciole, e l’aria profumata dei campi piena del canto dei grilli e del gracidare delle rane”.
Questo libro, curato da Roberto Tirelli e Laura Comuzzi, delinea con cura i tratti umani e la storia che contraddistinguono una personalità di prete e studioso schivo e alieno dalle luci e dai clamori della ribalta, che invece affascinano molti.
Cornelio Fabro, il filosofo.
La fede e il pensiero raziocinante sono stati le ali di Cornelio Fabro. Ho frequentato tardi il suo pensiero aperto e libero, non so se più stimolato da alcuni passi suoi che mi avevano incuriosito, o dal mio primo maestro di metafisica, il padre Giovanni Cavalcoli da Ravenna. Poi sono andato a Flumignano, più volte, incontrando chi l’ha conosciuto e anche il carissimo parroco don Pietro Salvador. Ricordo di aver scritto sul padre Cornelio un pezzo per un quotidiano locale che mi mise in contatto con chi un po’ timidamente -parlo di quasi dieci anni fa- cercava di tirar fuori dall’oblio il nome di questa grande figura.
Cornelio Fabro si colloca nella storia della filosofia italiana del ‘900 in una posizione nel contempo discosta e centrale. Discosta per il suo rifuggire dal baluginio della fama mediatica, cui sono più adatti altri spiriti pratici, ma centrale per la complessità del suo pensiero, che si è dipanato tra le dottrine classiche del tomismo più integrale, e le dottrine moderne dell’esistenzialismo kierkegardiano. Qualcuno può trovare strano che uno studioso [peraltro eclettico, perché Fabro era anche biologo] dedito per gran parte della propria vita ad un pensiero forte, il realismo essenziale di san Tommaso d’Aquino, sia poi approdato con grande curiosità intellettuale ai timori e tremori del romanticismo e dell’esistenzialismo filosofico di matrice protestante di un Kierkegaard, e perfino all’antropologia ateista di Marx.
Fabro non ha mai temuto di mostrare profonde convinzioni metafisiche sull’uomo e sul Divino, sull’Essere e sulla Libertà, e nel contempo di dare campo e spazio alle dolorose dubitazioni esistenziali del grande pensatore nordico. Il padre Cornelio, per accedere ai testi originali, si mise a studiare la lingua danese a oltre quaranta anni. Anche questo è l’uomo di cui parliamo.
L’approccio metafisico permise a Fabro di costituire una fortissima fibra teoretica di carattere antropologico, dove l’uomo si configura come soggetto capace di libertà, irriducibilmente unico nella propria soggettività, e inattingibile da ogni riduzionismo sociale [come teorizzato dal marxismo teorico]. La forza del suo pensiero sta appunto nel fatto di avere aperto la possibilità di pensare l’uomo e il suo “destino” come compresenza di una struttura profonda dell’essere e di una possibilità di agire con atti soggettivi di libertà, nei quali la condizionatezza è data solo dal limite che caratterizza la struttura dell’uomo stesso. Il “condizionato umano” rinvia, per Fabro, all’Incondizionato divino che tutto e totalmente pensa e vede.
In questo senso la ragione come facoltà dell’uomo, che Fabro studia come snodo centrale del pensiero di san Tommaso, non si scontra con la dimensione teologale e fideistica che egli studia in Tommaso stesso e in Kierkegaard. La ragione naturale non può non ammettere che vi sono dei limiti a lei posti da dimensioni incomprensibili al flusso logico-argomentativo della ricerca filosofica e scientifica: sono le dimensioni e il dispiegarsi interiore della fede, per nulla irrazionali, poiché appartengono a un sapere altro, eppure sempre umanissimo.
Il rapporto tra finito e infinito, tra tempo ed eternità, tra peccato e grazia, per Cornelio Fabro, stanno sempre in equilibrio nell’im-perfezione dello scorrere delle esistenze dei singoli uomini, che anelano alla libertà di essere completamente umani.
Dall’amarezza del limite, dell’imperfezione e del peccato, l’uomo, per il padre Cornelio, si eleva con la fede e la speranza, con il confidare di non ritrovarsi da solo nel pulviscolo interstellare, né di essere solo derivazione biologica di pulviscolo interstellare [M. Hack].
Per Fabro, sulle tracce di Agostino, Tommaso e Kierkegaard, l’uomo contemporaneo deve uscire dal “culto dell’io” debordante a vanaglorioso, immediato, culturale, egotico, nato dal cogito cartesiano, esaltato da Hegel e dal pensiero immanentistico successivo, per collocarsi nella riflessione radicale sul limite, sul senso e significato della propria vita, sulla natura del peccato come omissione alla propria umanità.
L’uomo, per Fabro, con Kierkegaard, è creatura e soggetto condizionato, ma capace di tendere oltre l’immanenza del proprio essere-nel-mondo, nel finito, per accedere -con l’atto di fede- all’infinito e all’Incondizionato.
“[…] quod primo intellectus intelligit est ens […] in quo omnia fundatur” (Tommaso d’Aquino), cioè “… ciò che l’intelletto coglie primariamente è l’ente … sul quale si fondano tutte le cose”. Per Fabro vi è -però- l’esigenza di fondamenti, su cui costruire ogni possibile sviluppo del pensiero umano, che non può campeggiare sul nulla del soggettivismo dell’io penso che …, opino, ritengo, mi pare che …, fallace simulacro di ciò che esiste indipendentemente dal pensiero stesso dell’uomo. L’ente, che -esistendo- partecipa in qualche modo dello stesso “Essere per sé sussistente”, cioè Dio, trova nell’uomo medesimo la sua più alta manifestazione. La sua ricerca si fida della ragione naturale, come strumento capace di accedere alla luce che illumina progressivamente la verità delle cose.
Vi è un rischio, parlando di un uomo come il Nostro: di piegare a proprio vantaggio il suo pensiero. Nei confronti del padre Cornelio sarebbe l’oltraggio più grande.
Filosofo della libertà e dell’essere come condizione per gli atti umani liberi, altro che campione del conservatorismo filosofico, e -tout court- politico, come taluni affermano, basandosi solo sull’apparenza del suo pensiero, e non sulla sua essenza! Costoro, “tirandolo per la tonaca”, rendono settario un pensiero libero, mentre coloro che lo accusano di conservatorismo sono -a loro volta- abbarbicati a modelli ermeneutici rigidi, che non possono incontrarlo sui sentieri della libertà, che il padre Cornelio percorse incurante delle critiche e delle mode imperanti.
Caro padre Cornelio, un saluto alla tua anima grande, con le tue stesse parole:
“La libertà è quella proprietà esclusiva, costitutiva dell’uomo, che fa dell’uomo quest’essere strano quanto si vuole, ma un essere impareggiabile qual è ciascuno di noi ed in cui dobbiamo ritrovarci con il volto autentico della nostra umanità.”
(Cornelio Fabro)
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