Nostalghìa
il brano seguente è tratto dal “Il viaggio di Johann Rheinwald“, pubblicatomi dall’editrice Libra di Pordenone nel 2007. Lo propongo qui per onorare il vecchio partigiano che me lo narrò, mancato qualche giorno fa a novantadue anni. Il funerale laico ascolta il silenzio della campagna e mi fa ricordare le poche parole dell’uomo, sobrio nel raccontare vicende di guerra e guerriglia, di anni crudeli, di schifo e di sangue. Nell’ora che precede il crepuscolo e il sole taglia di sbieco l’orizzonte.
Tra il sonno e la veglia di quella lunghissima notte, Johann fece memoria di un racconto che aveva ascoltato in un caldo meriggio sulle colline, narratore il vecchio partigiano, che di solito stava silente, e si commuoveva per poco, consapevole di avere a lungo vissuto, e che la vita gli stava lasciando ulteriori frammenti in cui riporre i ricordi e i dubbi sul dopo. Intanto, però, fra un sospiro che gli faceva aggrottare le sopracciglia ancora folte, e un colpo di tosse che gli sollevava il torace, amava raccontare. Il caldo talvolta gli faceva rallentare il flusso delle parole, ma la narrazione intanto fluiva in tutta la sua distensione, con i dettagli e i sentimenti antichi ben collocati e perfino debordanti dalle parole stesse. Talvolta il vecchio partigiano veniva rimbrottato dalla moglie, che non amava l’affabulazione letteraria, lei che aveva dovuto occuparsi concretamente di come far quadrare le giornate, il cibo e i tre figli, qualche volta in solitudine, quasi animale da soma aggiogato sotto la calura di quelle immense estati.
“I quattro stavano bighellonando per le colline fin dalla prima mattina. Uno di loro aveva solo vent’anni e lo sguardo di chi cercava una sua verità nello smarrimento della guerra, delle deportazioni e della precarietà. Gli altri tre erano un po’ più grandi, ma sembravano meno consapevoli che molto del futuro si stava giocando in quelle settimane, in quei mesi pieni di soprassalti e di paura. Non avevano con sè fucili di precisione o pistole militari. Un paio di loro solamente, ben nascosti sotto la giacca, che pendeva da una parte, avevano dei vecchi revolver carichi, forse di fabbricazione austriaca. La prima domenica di settembre voleva dire ancora, da quelle parti, in mezzo alle verdi colline della terra del confine, le feste del patrono e le sagre di paese, immancabilmente celebrate da tempi immemorabili. Significava anche il primo, discreto, impercettibile rinfrescarsi dell’aria, quasi un’anticipazione delle giornate a venire di primo autunno, quando l’aria si fa più limpida dopo i piovaschi, e l’odore di stoppie e di terra bagnata sale forte alle narici del viandante. In quell’anno, era il penultimo dell’ultima grande guerra, osservava il più giovane dei quattro, le macchine erano ancora pochissime per le strade: era un evento quando la Balilla del medico condotto risaliva la china erta della Rìve di Gambìn verso San Daniele, dopo avere girovagato per le borgate. L’auto del dottore, quando c’era siccità, sollevava un gran polverone che saliva, e si rendeva visibile oltre i boschetti della ripa, ma s’infangava tutta se era piovuto. A volte si piantava sull’ orma carrareccia lasciata dai pesanti carri agricoli con le ruote ferrate, e allora il vecchio medico tornava indietro in paese in cerca di aiuto. Approfittava della passeggiata per guardarsi intorno. I rilievi dolci delle colline facevano da supporto alla cerchia azzurrina dei monti, che erano così vicini nelle serate d’inverno, e più lontani nelle interminabili giornate estive. Poi, secondo la stagione, ammirava i crochi e le forsizie, e poi i papaveri e i fiordalisi, che gli ricordavano un amore non dimenticato della sua gioventù, una signorina della città, che veniva a villeggiare a Spilimbergo, e lui la andava a trovare di nascosto dai suoi, in bicicletta, oltre il grande fiume che risplendeva nel brillìo delle acque, verso il crepuscolo. Erano soprattutto i tigli a confonderlo, con il forte profumo delle infiorescenze a corimbo, procurandogli un moto di antiche nostalgie. Non ricordava precisamente il perché, ma tutto gli sembrava una sequenza di lodi, uno splendore di gloria, pensava, per l’uomo, e forse (per Dio). Ma su Dio non indugiava a lungo. Talora, in questo suo peregrinare in cerca di soccorso, finiva quasi per dimenticarsene il motivo, e allora si fermava a parlare sulle aie con i mezzadri, del raccolto, dell’ultimo nato nella stalla, e dell’ultimo nato alla nuora giovane.
I quattro, all’improvviso, avevano intravisto i mustacchi scuri di un cosacco, sul tram che viaggiava dalla città al borgo arroccato sulla collina, che allora attraversa la morena arrampicandosi per il viottoli e lungo i declivi, costeggiando boschetti e piccoli rivi. “Disarmiamolo”, aveva detto uno di loro. Salirono sveltamente anche loro sul tram e si prepararono all’azione. Si accorsero subito che con il cosacco intravisto ve n’erano altri tre, due seduti per terra, a modo loro, e uno sul sedile. Erano stati chiamati nella terra del confine con la promessa di una terra per loro. Echeggiò nei loro cuori quasi un pensiero biblico, erano buoni cristiani dell’ortodossia e i pope li avevano istruiti nelle lunghissime sere dell’inverno, leggendogli le storie di Gògol e le Storie Sacre: la Terra Promessa. Avevano abbandonato, armi, cavalli, masserizie e famiglie al seguito, le steppe infinite che si trovano oltre i grandi fiumi. Avevano lasciato gli odori forti dei falò di betulla e di pino, e i canti e le danze al suono dei violini, che duravano fino a notte fonda, quando anche i giovani più forti cadevano stremati di stanchezza e pur sorridenti. Si raccontavano allora, nell’antico dialetto dei padri, di immani scorrerie, di popoli che vivono oltre la grande taigà, dove domina l’orso e la grande tigre bianca, che compare nella notte come uno spirito, e soffia la sua forza dalle narici.
A questo pensava il più giovane dei quattro quando intimò il “mani in alto” ai cosacchi. Uno di loro, il più massiccio, quello con i mustacchi, era un calmucco della Siberia. Per un lungo attimo rimasero tutti interdetti, spaventati gli uni e gli altri. I cosacchi perché non sapevano quale potesse essere la loro sorte; i partigiani perché non sapevano più che farsene, di quei quattro omaccioni odorosi di stalla e di cavalli. In silenzio, in un silenzio irreale, che aveva coinvolto anche gli altri passeggeri, due o tre vecchi che andavano a trovare i parenti, giunsero alla stazione successiva. Dettero una rapida voce ai prigionieri per farli scendere e si interrogarono con gli sguardi sul da farsi. Decisero subito, senza una parola. Li accompagnarono all’osteria della stazione e gli offrirono da bere. Poi, agli increduli ordinarono di andarsene, dopo averli disarmati. Uno solo dei cosacchi aveva timidamente accennato un moto di resistenza, impugnando la sciabola ricurva. Ma per un attimo. Quella sciabola fa ancora mostra di sé in una bacheca casalinga, muta, intoccabile, come il passato.
Dove andrete ora, poveri diavoli, pensò il più giovane dei quattro partigiani, dove?”
E il pensiero gli corse alla primavera del ’45, quando si seppe che molti di quei tristi cavalieri erano fuggiti dalle grandi montagne, per i tornanti scoscesi, scivolando nei burroni e morendo tra i flutti ghiacciati della Drava.
Forse ancora un canto lontanissimo li ricorda attorno a un fuoco di rami di betulla, e un violino, dove inizia o dove finisce il mondo.
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