pedalate di pensieri
Pedalando, per vincere il freddo intenso di questo gennaio, penso, mentre il paesaggio nitido dell’inverno mi circonda. Non ci sono auto, nulla si muove, se non le ruote della mia bicicletta sotto lo sforzo della pedalata regolare. Neppure un alito di vento, quel burian sarmatico che ho sentito nelle scorse uscite, freddissimo, grazie a Dio, ma stamattina sono meno 6 o 7 sotto zero. Verso le undici incontro anche altri ciclisti allegri, forse a zero gradi o meno uno.
La sensibilità degli altri è difficile da comprendere, perché solitamente siamo concentrati su noi stessi, scimmie ancestrali che difendono il proprio territorio, bonobo più alti e forti, e pericolosamente intelligenti. Capaci di soffrire per la meta da raggiungere, o anche, come stamane, solo per mostrare che si può fare, che si può pedalare nel freddo pungente, proprio perché nessuno te lo ordina. Soffrire in piena libertà. La libertà di soffrire. Che bello.
Oggi il sole fa fatica a spaccare le nuvole, ma poi ce la fa, mi scalda di lato e poi la schiena, quando vedo la mia ombra lunga precedermi, la sagoma rannicchiata del corpo, e avanti sull’asfalto durissimo e vecchio della provinciale. Penso a chi conosco, sul lavoro e fuori, penso al viaggio di domani verso Milano, anzi a Monza per vedere di quel mignolo che mi disturba, micrortopedia della mano, ancora. I miei disturbi da uomo in età, niente cose di cuore, niente altro di impegnativo, ma piccole cose periferiche che mi esercitano al limite, al dolore pedagogista insigne.
E poi di nuovo al lavoro, giornate piene da martedì fino a sabato, formazione, incontri, valutazioni del lavoro altrui, pareri da esprimere, sguardi sulle persone e sul mondo, caro lettor mio.
E il libro sui simboli biblici che aspetto di correggere per la pubblicazione, e le serate filosofiche, e i dialoghi sui massimi sistemi… e anche sui minimi, per cercare di capire se abbiamo un destino, o se siamo qui quasi per sbaglio. Ma io voglio credere che siamo al mondo per qualcosa, magari a noi ignoto, e così procediamo in parte ignari a vivere i giorni innumerevoli e nel contempo finiti, e rimanenti. Ogni giorno è un miracolo, è nuovo, mai vissuto prima e mai più ripetibile, come questo sole che mi arriva di traverso, mentre scrivo nel silenzio. Ho messo a posto le migliaia dei miei libri e presto mi siederò dove li ho sistemati, solingo come un pettirosso che viene in visita al suo eremo.
Anacoreta di questo tempo, sono sicuro che qualcosa resta, se non eterno, immortale, di quello che facciamo, e anche di quello che diciamo e pensiamo, nell’energia propagantesi nel kòsmos e nel kairòs, nel tempo fisico e nel tempo spirituale, quel tempo opportuno che dice di più delle nostre vite.
Profeta del dire qualcosa, sono, a chi mi sta di fronte udente e ascoltante, e io reciprocamente in ascolto della pro-fezia dettami lì, davanti, come intuizione sapienziale, precedente ogni scienza umana, ogni statuto accademico, ogni presunzione.
Viandante senza meta e nel contempo con una meta nascosta, a me sconosciuta, visibile solo agli occhi del Padre, che tutto ha pre-visto senza informare nessuno di noi, mandando il Figlio suo in avanscoperta, Angelo del Padre, Messaggero del Tempo-che-tempo-non-è, ma solo parvenza dell’Eterno. Un attimo vale l’eternità quando folgore pensata ti fa intravedere negli interstizi dell’Essere la tua Verità, che presto, però, scompare obnubilata dal tuo limite.
Silenzio infinito degli istanti e del sonno ristoratore, caro lettor mio paziente.
E penso alle persone che mi conoscono e mi conoscono veramente, che son poche, e sono nella mia vita per sempre, finché vivrò, e oltre.
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