25 anni fa… dieci giorni in America
tra le carte di lavoro che sto mettendo in ordine, un racconto di viaggio della mia vita precedente…
“L’immenso Shea Stadium è il primo monumento che ti viene incontro lungo l’autostrada che dall’aeroporto Kennedy, traversando il Queens, porta a Manhattan. Colorato d’azzurro e di rosso come quasi tutto in America. Poi, d’improvviso vedi stagliarsi l’acrocoro scuro dei grattacieli contro il crepuscolo, l’ascendere improvviso del World Trade Center, geometrie potenti dall’Hudson al ponte di Brooklin, le guglie dell’Empire e Chrisler. Proprio la città di Batman. Di cui trovo traccia nella Gotham city bank sulla Quinta Strada.
L’incipit dell’America è per me la prima sera a New York, due passi sulla Broadway (si alloggia al Wilford Plaza sull’8a Avenue), un filetto alla Steak house da Charlie’s con una pinta di birra bevuta in tre. Quella notte non dormo: si somma al cambio dei bioritmi il respiro possente, e anche angosciante, che viene dai visceri della metropoli, il miagolio delle auto della polizia, guardo la miriade di luci nell’oscurità.
Di giorno constaterò che la luce vince per poche ore a Manhattan, sopraffatta dalle quinte di vetro cemento che si sfidano in altezza da ogni lato. Solo in fondo alle streets e alle avenues si vede un chiarore, perché, salvo la Broadway, tra di loro ortogonali. E meno male, mi dicono, che siamo a ottobre, ché se fosse luglio la cappa di calore e di smog sarebbe una tragedia. Però è bellissima. Nei suoi contrasti violenti, esteticamente, meno bella se il giudizio è etico: vedi dormire i senzacasa nell’androne Trump, o sulla porta di Elizabeth Arden, vedi quel sanguemisto indefinibile che trascina un carrello pieno di rifiuti alimentari che sfiora il frettoloso e giovanissimo manager in fuga dalla N.Y. City Bank. Vestito all’italiana e con un paio di Reebock ai piedi. Specchio della moda e del potere, la Grande Mela.
La prima mattina di lavoro andiamo all’Afl-Cio (i sindacati americani), dove c’è una sezione italiana guidata da Santo Pernicone, vecchio compagno di Italo Viglianesi e di Giulio Pastore. Santo ci porta a Brooklin, alla sede del patronato, in piena Italy. Beviamo un caffè nei pressi della Santa Rosalia Society.
Con Rudy Magnan dobbiamo vederci a cena. Si va da Marchi sull’88a Street, un oriundo spilimberghese che ci offre un menù friulano, ma fortemente contaminato d’America. Non glielo diciamo. L’indomani c’è la presentazione del progetto-rete. Per loro lo chiamiamo network e dovrà servire a mantenere in collegamento negli Stati Uniti e poi in tutta l’America i nostri emigranti. Ci si trova in una sede “italiana”, al Monte dei Paschi, dove ci accoglie il primo vice presidente Ed Giacomelli.
Ci sono il sen. John Marchi, Vincent Maroldo, Ernesto Maggi, Christina e Sergio Maddalena, Tullio Ferasin, Othello Desiderato, Gabriella Didonopulos (una veneziana sposata a un greco), Amerigo Andreon, Paul Alessandrini, ma soprattutto padre Mircea Clinet, prete cattolico di rito greco, nato a Cormons, culto e simpatico, e i due fratelli Del Bianco, da Meduno, Cesare e Vincent, figli di quel Luigi che scolpì sul Monte Rushmore nel South Dakota le effigi dei presidenti Washington, Jefferson, Lincoln e T. Roosevelt. Non lo sapevamo. Siamo emozionati. Chissà quanti in Italia e in Friuli ne sono a conoscenza! (A stretto giro, ricordo che sul Gazzettino dove fu pubblicato integralmente questo reportage, mi rispose un saccentone dicendomi che la cosa era notissima, e che solo gente incolta lo ignorava, forse era tale Clavora).
Vincent è molto loquace e vuole venire a trovarci. Bisognerà che il Friuli lo festeggi quando arriverà.
Un passaggio della relazione di Rudy Magnan: “(…) lo sforzo commerciale della Regione Friuli Venezia Giulia, il Made in Friuli, tutto quello che costituisce un’identità del popolo friulano e della sua peculiare qualità va mantenuto, sviluppato. Il network, la rete è una auto-organizzazione dei friulani e degli italiani in America per organizzare iniziative di mutuo interesse, della Madrepatria e dell’emigrazione, che non è più quella della valigia di cartone, ma è fatta anche di imprenditori, di professionisti, di intellettuali, iniziative sia nel campo economico, sia dell’educazione e formazione, della ricerca scientifica, della cultura e delle arti (…)”
Nel pomeriggio andiamo a Ellis Island, dove venivano tenuti in quarantena gli emigranti prima di essere accettati in America. Nei pressi c’è la statua della Libertà rivolta verso Est, come a dire “welcome” a chi arriva dall’oceano. Oggi il “welcome” è meno aspro di un tempo, quasi gentile.
Perché New York resta una città dura, spietata con chi non la soggioga, eppur sirena attraente. Non c’è tempo per il Village e per Little Italy, se si deve scegliere. Andiamo a vedere un paio d’ore il Moma, tarpato un po’ delle sue opere dalla grande mostra di Matisse, ma ci guardiamo Magritte, Rembrandt e gli italiani al Metropolitan, che si trova in mezzo al Central Park.
Il lavoro non è finito. Ci aspettano dall’altra parte dell’America, a San Francisco, dove arriviamo affaticati e stanchi a tarda sera. L’albergo è bellissimo, il Sir Francis Drake, sulla Powell Street che dà verso i moli e la baia.
E’ proprio un luogo altro, un’altra frontiera San Francisco. E’ ispanica, cinese, italiana, europea, una “Stoccolma” piena di sanguemisto, ventosa, con gli homeless come totem Navajo e l’oceano che bussa al Golden Gate con lunghissima onda, lambendo l’isola memorabile d’Alcatraz di Al capone, Burt Lancaster e Clint Eastwood, e si perde poi per cento chilometri all’interno, verso la Sierra Nevada e il deserto.
San Francisco è come un’onda pietrificata percorsa da strade tenute in mano dal dio della faglia di sant’Andrea, sulle quali si arrampicano gioiosamente coleotteri giganti sferraglianti colorati, i cable cars, tram a cremagliera cui ci si appende fuori per sentire il salmastro che sale dalla penisola del Tiburon.
Il cielo è dorato quando usciamo dalla riunione che ci ha preparato Anna Marcon, nativa di Gemona e moglie dell’addetto scientifico del Consolato italiano; andiamo a piedi verso la Lombard Street meravigliati dai colori e per la leggera grazia dei cottages vittoriani. Frisco scherza sempre con il fuoco.
Si cena a Fisherman, quartiere di pescatori, ascoltando i latrati dei leoni marini che a decine sostano su grandi piattaforme di legno nel porto.
Il rientro a New York è piacevole. Si traversa il Nevada, le Rocky Mountains, il gran lago salato sulle cui rive sorge Salt Lake City. E’ già notte quando si sorvola il lago Erie e il Michigan, Chicago e Detroit e si atterra al Kennedy. Possiamo finalmente dedicare un paio di giorni a incontrare questa città tentacolare e multiforme. Leggiamo che Sofia Loren e Pavarotti hanno sfilato per la Quinta Strada con il sindaco Dinkins nel Columbus Day del cinquecentenario (1492-1992), ma anche che vi sono state manifestazioni di protesta degli indiani.
Va forte nei cinema il nuovo film di Ridley Scott, 1492, con Gerard Depardieu. Siamo tentati dalla prima newyorchese, ma soprassediamo. Il doppiaggio sarà certamente in slang, i cui miagolii non ci sono noti. Siamo tentati anche dal grande concerto al Madison Square Garden, dove si festeggia Bob Dylan, con Eric Clapton, George Harrison e Neil Young. Il biglietto costa seicento dollari. Neanche pensarci. l’indomani apprendiamo che è stata fischiata Sinead O’Connor. Alla televisione ci godiamo il confronto tra Clinton, Bush e Perot. Bush è in difficoltà. Vincerà Clinton, ci dicono gli amici italiani. Non stentiamo a crederlo dopo un decennio di politiche liberiste, che hanno sfasciato il welfare voluto dal dimenticato presidente Johnson.
In America se oggi si perde il lavoro si perde anche il diritto all’assistenza sanitaria, a meno che non la si paghi in proprio.
La disoccupazione riguarda almeno il quindici per cento della forza lavoro, lavoratori che hanno certo il vantaggio di una straordinaria flessibilità del mercato del lavoro e l’ausilio delle agenzie per l’impiego, che possono collocarti in ventiquattro ore, ma anche gli svantaggi di una legislazione e una normativa contrattuale ampiamente al di sotto degli standard italiani ed europei.
Ad esempio, in America è impensabile una legislazione di tutela come quella prevista in Italia dallo Statuto dei diritti del lavoratori, così come contratti nazionali di settore o di categoria. In America si contratta solo azienda per azienda o a livello di gruppo e vi è la possibilità più volte verificatasi, anche di ridurre salari e stipendi.
Una situazione molto diversa rispetto alla nostra. Su questo argomento è stato interessante il confronto con alcuni colleghi americani ai quali ho consegnato una scheda comparativa tra i due sistemi sociali e sindacali. Ci hanno proposto di rendere meno saltuari i contatti fra noi e loro.
Mi è venuto da pensare quanto lontani fossero i tempi in cui con il Piano Marshall arrivavano in Italia gli aiuti ai sindacati non comunisti (ché quelli avevano altre piste di rifornimento). Quasi un contrappasso. Nonostante la crisi italiana, nonostante l’esigenza di riformare lo stato sociale anche da noi, e di garantire il rispetto dei doveri accanto ai diritti.
Siamo ripartiti da New York abbastanza contenti, ma forse un po’ delusi per non aver incontrato Woody Allen all’imbocco della Sesta Avenue.
In compenso io ho intravisto Whoopy Goldberg che recita a Broadway nel musical “Oh Sarafina”, e ho fatto colazione a un tavolino del Celebrities Cafè vicino a Kevin Kline.”
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