Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il riconoscimento dell’altro

Caro lettor gentile,

il riconoscimento è il primo passo della relazione inter-umana, intersoggettiva, interpersonale, e della sua qualificazione e caratterizzazione etica.

Viene prima di ogni processo comunicazionale, viene prima di ogni pretesa di comunicazione, anticipa e prepara qualsiasi rapporto tra esseri autoconsapevoli, come gli umani.

Se io non riconosco nell’altro, oltre al fatto di essere per me un “tu”, anche un “io“, non si dà riconoscimento, ma solo strumentalità efficiente, o poco più: forse al massimo un rapporto d’uso e di scambio, direbbe Marx.

Non è un processo del tutto naturale, ma prevalentemente “culturale”, nel senso di una possibilità di co-costruzione, di ampliamento cognitivo e di progressiva intensificazione relazionale. In realtà il riconoscimento ha a che fare con l’eros, con l’amore umano, nientemeno, cioè con l’attività desiderante che muove il mondo, secondo Platone (cf. Fedro e Simposio).

Non che ci si debba porre il fine di “amare gli altri” come nel comandamento biblico-evangelico, ché questo eroismo è piuttosto arduo a praticarsi, ma occorre esser consapevoli che il riconoscimento è il primo scalino della relazione, e dunque del movimento empatico tra due soggetti. Il riconoscimento precede e in parte anche presuppone l’accettazione, l’accoglimento reciproco della/ nella sfera emotiva di un’altra persona.

Senza riconoscimento e accoglimento non vi può essere alcuna comunicazione sana, ché subito si ammalerebbe di una grave patologia: la tecnicalità, nuda e fredda come un ghiacciolo. Pensare di ritenere la comunicazione in senso stretto come il toccasana di ogni rapporto, significa mettere il carro davanti ai buoi, o scambiare la causa con l’effetto. Preciso meglio: non è detto che la comunicazione sana sia una mera conseguenza di una relazione vera, poiché anche la relazione ha bisogno di nutrirsi di comunicazione in un circolo virtuoso di buone prassi e di riconoscimento reciproco, ma… nulla funziona se non si tiene presente la complessità psico-antropologica dello stare-con-gli-altri, e l’esigenza di costruire nel quotidiano la verita di questo “stare”.

Se si vuole si può distinguere ancora più sottilmente. Abbiamo detto che la relazione inter-umana ha a che fare con l’eros, cioè con l’amore. In che senso? Non certo nel senso banalizzante della telenovela affettiva ed estetizzante declinata secondo il cliché binario “mi piace/ non mi piace”, emotivistico e superficiale, ma secondo la consapevolezza del valore della relazione, del suo investimento emotivo, del suo coinvolgente re-larsi con chi-sta-di-fronte, anche accettando di cambiare qualcosa di sé, senza rinunziare in alcun modo a sé. Stare nel tenersi-insieme è una sfida e un rischio, e a volte quasi un salto nel buio, che va fatto, se si vuole costituire una struttura di verità nel rapporto interpersonale.

Il riconoscimento è dunque il punto di partenza dell’accettazione dell’altro, così com’è, ma non nel senso che questi possa pretendere di essere com’è, anche se manifesta difetti emendabili, nella relazione, ché nessuno può permettersi di dire “sono fatto così”, anche se è “fatto male”, senza impegnarsi a modificare comportamenti inopportuni, inadeguati, maleducati e infine profondamente egoici, egocentrici o addirittura egolatrici.

Il senso dell’accettazione non consiste nel voler “convertire” l’altro ad usum sui, ad uso nostro, ma accettarlo chiedendo reciprocità.

Un altro aspetto necessario del riconoscimento è l’atteggiamento umile, è il rispetto, come un guardare dritto negli occhi, è la forza paziente dell’attenzione e della dedizione al rapporto. Se io non faccio capire all’altro (io) che mi interessa, che proprio lui/ lei mi interessa, tutto resta in superficie, in un noioso barcamenarsi per obbligo o per posizione.

Ecco perché tutto parte dal riconoscimento (Wittgenstein) e tutto torna al riconoscimento dell’altro come valore, producendo rispetto, reciprocità, comprensione, com-passione e relazione di verità.

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