Consentanietà ed empatia per la gestione sana delle relazioni interpersonali
Empatia è termine derivante da un glossario psicologico contemporaneo largamente in uso. Deriva dal greco en-pathos, cioè sentire (e anche soffrire, nel senso di sop-portare) dentro insieme. Oramai parlare di empatia, da quando la vulgata psicologistica (non psicologica) è diventata patrimonio televisivo e del web, di esperti, o sé putanti tali e con buon cachèt annesso, ma più spesso di pericolosi improvvisatori in materia, è quasi come parlare in Italia della pasta al ragù. Scontato, e perfin banale.
La consentaneità è invece un termine dal profilo più filosofico-giuridico-letterario, un poco desueto, che significa essere-d’accordo, contrattualizzare una convenzione, o meglio, creare le condizioni per stipulare un accordo. Si può dire che essa descrive la fase antecedente alla stesura e alla firma di un testo su cui si sia riusciti a trovare un minimo comun denominatore, tale da poter essere condiviso da due o più parti in causa.
I due termini non sono dunque strettamente sinonimi, sia pure in ambiti culturali e disciplinari diversi. Penso però che andrebbero collegati su un piano razionale, là dove l’empatia, dimensione emotiva per eccellenza, può fungere da approccio e primo “collante” del rapporto che si sta creando, ma senza esagerare ché, lo sappiamo, un eccesso di empatia può rivelarsi pericoloso, perché porta chi lo vive in questo modo a un’identificazione troppo forte con l’altra persona, interlocutore, cliente, fornitore o chiunque sia, e con i legittimi interessi di questi. In una trattativa di lavoro o commerciale, ma anche nella normale relazione inter-umana (inter-personale, inter-soggettiva), l’abbandonarsi all’empatia porta il dialogo su un binario unico, che ben presto si dirige verso un ponte sospeso sul nulla.
L’empatia deve essere commisurata alla situazione, e quindi vigilata con cura. A quel punto entra in campo la dimensione razionale della consentaneità, cioè del sentire-insieme, del con-sentire su un affare, su un progetto di lavoro… e magari anche di vita. Esagerare con l’empatia è ridurre il dialogo tra due persone, che sono due “interessi”, a mero colloquio buonista improduttivo, quantomeno per una delle due parti.
Come in ogni altra attività umana, sia di pensiero, sia d’azione (ah caro buon vecchio Mazzini!) si deve prevedere e attuare l’intervento di tutte e due le dimensioni spirituali e psichiche che denotano l’essere umano, quella del sentimento e quella della ragione (cf. J. Austen). Oggi molti studiosi parlano di intelligenza emotiva, e va bene lo stesso, perché si riassume nello stesso sintagma la doppia faccia della relazione, l’una delle quali non può prescindere dall’altra, pena, o la sua vanificazione pratica se si mette in campo la sola empatia, oppure l’incomprensione radicale se l’empatia manca.
Non possiamo mai pretendere di entrare in sintonia (syn-tònos, dal greco: con-lo-stesso-tono) con alcuno, se non ci spendiamo in qualche modo sul piano dell’energia emotiva, per poi passare all’analisi razionale delle cose da discutere e/ o da fare insieme. Nell’economia contemporanea la partnership e la comakership, richiedono questa lucidità di vedute, insieme con la pazienza e la perseveranza necessarie per la costruzione di una relazione di qualità, precondizione per ogni passo ulteriore nel segno della collaborazione di lavoro e anche nell’ambito degli affetti.
Un esempio pratico: in ragione di esperienze fatte e studi approfonditi sono ritenuto abbastanza esperto del fenomeno del mobbing, per cui vengo anche consultato da colleghi e uomini d’azienda, fenomeno presente da sempre in tutti gli ambiti e ora bene attestato e codificato anche negli ambiti lavorativi, aziendali e non (si riscontra anche nella scuola, nella sanità, nell’esercito, nella chiesa…). Ebbene, per cercare di capire le origini del fenomeno in un dato contesto, ho sempre applicato la “ricetta” congiunta di empatia e consentaneità. L’empatia mi è servita a creare fiducia e confidenza nelle persone che ritenevo indispensabile interpellare per indagare sul fenomeno e conoscerlo, e la consentaneità per condividere una soluzione razionale al problema che si sarebbe potuto porre, se non conosciuto, arginato e risolto.
Su questo tema e su altri di carattere relazionale non ci si può improvvisare, ma bisogna osservare le cose in maniera paziente, certosina, e perfin sofisticata, scoprendo i segnali più deboli, e poi studiare studiare studiare, fino a raggiungere una ragionevole certezza di conoscenza e quindi di intervento risolutivo.
Si potrebbero fare anche altri esempi, ma questo basti per dire ancora una volta come il bene dell’intelletto e le sue ragioni (cf. Pascal) vadano sempre coniugate con le ragioni del cuore.
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