“Lavoro” e “posto di lavoro” sono la stessa cosa?
qualcuno pensa che i due virgolettati del titolo siano sinonimi, ma non lo sono. Il concetto di “lavoro” si riferisce espressamente all’operare dell’uomo per acquisire materie prime, trasformarle e creare tutte le attività di servizio e di ricerca che rendono il lavoro stesso vendibile per la vita umana in generale e per creare reddito aziendale; il concetto di “posto di lavoro”, invece, si riferisce alla struttura organizzativa di un’azienda o di un ente, che prevede posizioni, ruoli, mansioni abbastanza precise.
Secondo una logica elementare dovrebbe essere il “lavoro” a creare le condizioni di un “posto di lavoro”, ma questo è vero soprattutto dove l’economia d’impresa è di tipo privatistico, e fa i conti ogni giorno con costi e ricavi, essendo obbligata a fare sì che i ricavi siano sempre maggiori dei costi, pena la fine certa dell’impresa stessa che non può essere sovvenzionata in deficit, anche se a volte questo è accaduto per ragioni di carattere occupazionale, con costi ingenti per la collettività.
Anche il lessico, il glossario che caratterizza il mondo dell’economia privata è diverso da quello che caratterizza l’ente pubblico. Nell’azienda privata, quando si intende descrivere i “posti di lavoro” tenendo conto delle linee gerarchiche, si parla di “organigramma”, che viene anche definito, stampato e reso ufficiale all’interno e verso clienti e fornitori, nonché per il sistema di qualità e di sicurezza del lavoro. Ma “organigramma” non significa imbalsamazione della struttura operativa, bensì sua delineazione dinamica, sempre modificabile.
Nell’ente pubblico, invece, si parla ancora di “pianta organica”, fatta di caselle da riempire di nomi di persone assunte solitamente per concorso. Nel pubblico, se la “casella” resta vuota per pensionamento o dimissioni (rarissime), bisogna riempirla, altrimenti il lavoro assegnato a quella “casella” non si fa, almeno per un po’ di tempo. Invece nell’azienda privata, se viene anche improvvisamente a mancare un lavoratore in una mansione, si cerca immediatamente di rimediare, cercando una figura di backup (sostituto) tra i dipendenti, operazione non difficilissima, perché le aziende moderne hanno di solito una matrice delle poli-competenze di tutti i collaboratori, e quindi la possibilità di sostituire chi manca inopinatamente con risorse interne già abbastanza formate o, in ogni caso, è in grado di provvedere a una rapida riqualificazione di personale particolarmente duttile e flessibile.
Ecco che a questo punto comincia a delinearsi la differenza concettuale profonda tra “lavoro” e “posto di lavoro”, là dove il secondo presuppone sempre il primo, non viceversa. Il lavoro deve essere individuato come quantità e qualità del processo operativo, sia se si tratta di attività diretta (operaia, alla faccia di chi pensa che il lavoro manuale stia scomparendo), sia che si tratti di lavoro indiretto, impiegatizio, tecnico o di coordinamento di altre persone.
Quando i carabinieri negli anni ’80 scoprirono che nella sede centrale nazionale dell’Inps a Roma vi erano più cartellini, cedolini paga che posti di lavoro e quindi lavoro, si capì benissimo la non coincidenza dei tre concetti. Lì, con la complicità di direttori centrali e generali, si era creata una pastetta di connivenze che aveva portato la situazione ad essere così deforme, abnorme, truffaldina, sia nei confronti dello Stato, sia nei confronti dei cittadini utenti, lavoratori e pensionati. Si fece un repulisti, ma evidentemente non è bastato perché nei decenni successivi abbiamo assistito a fenomeni di tutti i colori, specialmente di assenteismo patologico e a imbrogli sguaiatamente evidenti, come la timbratura fasulla di cartellini presenza.
Chi pensa che il lavoro coincida con il posto di lavoro può essere tentato di imitare quei cattivi lavoratori del pubblico impiego che con il loro inqualificabile comportamento hanno rischiato di screditare la stragrande maggioranza dei tre milioni di colleghi che invece lavorano coscienziosamente.
In un’attività di direzione del personale nella più grande azienda friulana, la Danieli, dove ho operato a metà degli anni ’90, mi è capitato di porre fine a una vertenza onerosissima provocata da un dipendente infedele, che si assentava per gli affari suoi durante l’orario di lavoro, e l’aveva avuta vinta davanti al giudice, con un costo aziendale più che decennale che qui mi fa pena citare. Le prove della sua infedeltà non avevano convinto il giudice che aveva condannato l’azienda a retribuirlo comunque, non avendo l’azienda stessa accettato la reintegra del dipendente (7° livello metalmeccanico da 2 milioni e settecentomila lire nette al mese), ex art. 18 della Legge 300/70 Statuto dei diritti dei lavoratori. Posi fine a quella vergogna con una transazione tombale di non poco conto, dopo aver informato la Presidente dell’azienda. Mi turavo il naso mentre firmavo dall’avvocato il verbale di conciliazione. Mi vergognavo per l’imbroglio riuscito ai danni dell’azienda e di tutta la comunità di chi vi lavorava.
Due esempi che spiegano bene come il “posto di lavoro” deve sempre essere riferito a “lavoro” vero, non inventato, truffaldino o fasullo come in certi casi, perché allora non si tratta di un “posto di lavoro”, ma di inganno, infedeltà, slealtà verso gli altri e di tradimento dei più elementari sentimenti etici di giustizia.
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