Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La forza e la determinazione di donne e di uomini, di una famiglia, di un’azienda friulana

Ogni tanto la vita ti presenta i suoi conti: può essere una malattia dolorosa, può essere un distacco, il venir meno di un proprio caro o anche una crisi di lavoro, un disastro ambientale, un incendio che interrompe  (per un momento!) l’attività di un’azienda brillante e innovativa. E’ quello che è successo a Meduno (Pordenone) venerdì scorso mattina. Nella fabbrica di pizze industriali surgelate più innovativa d’Italia e non solo, presente sul mercato internazionale con sempre maggiori successi, è scoppiato un incendio all’inizio del primo turno di lavoro. L’azienda , rilanciata dalla famiglia Roncadin nove anni fa (dopo che la famiglia stessa l’aveva aperta all’inizio degli anni ’90 e successivamente a seguito di alterne vicende era fallita a causa di male gestioni di successive proprietà), occupa quasi 550 persone, in stragrande maggioranza donne, che conciliano egregiamente i tempi di vita e i tempi di lavoro con turni da sei ore per cinque giorni alla settimana.

La proprietà fa capo a una grande famiglia imprenditoriale, che sulla spinta del signor Edoardo, emigrato giovanissimo in Germania, “imprenditore nella testa” a diciassette anni, è riuscito a mettere in piedi la brillantissima bofrost* (vendita a domicilio di specialità surgelate, di gran lunga primo player italiano del settore), migliorativa rispetto al modello teutonico (mia opinione del tutto personale), diverse piccole aziende e soprattutto questa “fabbricona” a Meduno, nella splendida ma un po’ isolata pedemontana pordenonese, dando lavoro a un ampio territorio, e soprattutto a uomini e donne e ragazze, madri di famiglia e anche… a nonne o aspiranti tali, ché la Roncadin non guarda all’anagrafe, ma al volto, all’atteggiamento, alla buona volontà di chi si presenta per chiedere lavoro, e chi seleziona queste persone cerca di guardare oltre le apparenze a una verità più profonda della persona stessa. Donne e uomini che si presentano per lavorare in produzione agli impasti, a preparare gli ingredienti, a farcire, a imballare, in magazzino, nella manutenzione, nel controllo della qualità, nella sicurezza del lavoro, nel commerciale, nell’amministrazione, nella logistica, nell’area delle risorse umane, nell’Information Technology, e quindi con competenze tecnico-scientifiche e normative come tecnologi alimentari, ingegneri, periti, economisti, informatici, eccetera.

L’incendio, improvviso, inopinato, ha messo alla prova tutta questa popolazione a partire dalla proprietà e dal giovane amministratore Dario. Ne parlo come facente parte di quel grande gruppo anche in qualità di presidente dell’Organismo di Vigilanza del Codice etico previsto dalla legge italiana. La paura, lo sconforto, lo sconcerto, proprio come il giorno dopo il terremoto friulano dl ’76, hanno lasciato immediatamente il campo a sentimenti diversi e opposti: la consapevolezza della gravità della situazione, ma anche la possibilità di intervenire subito al meglio, con l’aiuto esterno di strutture preposte, ma soprattutto con la immediata disponibilità di tutti a darsi da fare per circoscrivere i danni e verificare la possibilità di ripartire con la produzione, anche se parzialmente, al più presto. E allora la crisi estrema si è trasformata in un impeto pieno di forza e determinazione. Nel cuore, nelle menti, nelle competenze, nella disponibilità totale. Le donne piangevano la “loro fabbrica”, perché la chiamano così, a volte facendola “propria” anche oltre ciò che si intende con questo aggettivo, con un senso di partecipazione commovente, sincero, pieno, ma si sono subito “rimboccate le maniche” dicendosi a completa disposizione, anche per nuove modalità e regimi di orario e di lavoro, ancora più flessibili. La durezza antropologica di queste genti, in questi casi, come nell’esempio del terremoto, si fa forza coesa e irresistibile, si fa quasi romantica “capacità di guerra”. Le nonne di queste lavoratrici e anche alcune mamme la guerra l’hanno vista e anche vissuta, e quei genomi sono presenti negli sguardi, nelle mani, nei muscoli a volte dolenti di quei corpi operai. Io lo so, perché conosco le dolenzie dei corpi operai, a partire da quello di mio padre, cavatore di pietra in Germania.

E già tutti sono all’opera per ripartire con quella parte della fabbrica rimasta intatta tra qualche giorno, disponibili a fare di tutto per andare oltre, buttando il cuore oltre, come Enrico Toti (lasciatemi un po’ di patriottismo retorico oggi!) dalla trincea carsica della Grande Guerra.

Ne parlo a ragion veduta, nel mio ruolo legato alle Risorse umane oltre che al rispetto dell’Etica generale e del Lavoro. Questa azienda è un’intrapresa economica, che deve guadagnare con dura fatica per stare sui mercati del mondo, garantendo reddito sociale e occupazione, e perciò, poche volte come in questo caso, si può anche parlare di “fabbrica mia”, o “fabbrica nostra”, con un linguaggio che a volte accomuna il presidente Edoardo e le operaie. “Mia”, “nostra” nel senso di un’appartenenza profonda e sentita come “bene comune”, come bene sociale condiviso e fortemente voluto e da difendere a ogni costo.

Ho scritto qui un pezzo non di encomio o di lode o di piaggeria per alcuno, ma di verità naturale.

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3 Comments

  1. La solidarietà ricevuta dall’esterno e il rimboccarsi le maniche di tutti rendono ancora più orgogliosi di far parte di questa grande famiglia.

  2. “E allora la crisi estrema si è trasformata in un impeto pieno di forza e determinazione!!!”

    Verissimo!

    Forza Roncadin!!!

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