Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il vento va e poi ritorna

Caro lettore,

il titolo poetico di questa narrazione potente di Wladimir Bukovskij mi ha sempre intrigato. Il vento va e poi ritorna, ma di qual vento si tratti bisogna leggere, immergersi nel racconto di quegli anni sovietici, quando l’utopia o la distopia “socialista” sembrava preludere all’homo novus, a una mutazione antropologica radicale, come auspicato da Saint Simon, da Fourier, da Babeuf, da Filippo Buonarroti, da Blanqui, da Eudes e dagli altri Comunardi del ’70, se non dallo stesso dottor Marx da Treviri. L’homo novus, nientemeno, non più egoista, egocentrico, egoico, strumentale verso gli altri. La convinzione soggettivista, cartesiana, e nello stesso tempo collettivista che l’uomo potesse essere riformato nella sua propria natura determinò l’illusione somma e ciò che ne conseguì. Ho conosciuto di persona militanti comunisti, rimasti allo stalinismo classico, ancora convinti, negli anni 2000 e rotti che ciò sia ragionevole, possibile, conseguibile. Eppure sarebbe bastato (basterebbe) una sana rilettura dell’antropologia classica, da Aristotele in poi, e della psicologia clinica moderna, per poterlo escludere radicalmente, se non in una prospettiva di lunghissime derive filogenetiche evolutive, peraltro condivisa solo da una parte -e forse non maggioritaria- di neuro-scienziati.

Come si fa a pensare che l’uomo possa essere reso razionalmente e certissimamente virtuoso tramite l’educazione o la rieducazione, peraltro a cura dello stato, anche se (si fa per dire) con gulag e lao-gai a disposizione, se ogni essere umano è unico, irripetibile, irriducibilmente soggetto, con le sue qualità e le sue tare, che possono essere anche biologiche, cerebro-mentali? Come si fa a escludere che nella mente degli assassini seriali, presenti non solo nelle cronache nere, ma anche in quelle delle grandi tragedie politiche di ogni tempo, ci sia qualcosa di malato, di sbagliato, di mancante?

E dunque? Proviamo a leggere un passo di una recensione del libro, presente sul web.

Nel novero delle grandi opere letterarie dei dissidenti sovietici, che hanno dato vita ad una stagione straordinaria inaugurata nel 1962 dall’indimenticato “Una giornata di Ivan Denisovic” dello storico e drammaturgo Alexander Solgenitzyn, s’inserisce a pieno diritto questo libro di Vladimir Bukovskij, “Il vento va e poi ritorna”, che non trova collocazione completa né nella saggistica né nella narrativa. Trattasi in realtà di documento politico-sociale, di guida alla sopravvivenza, possiamo definirla, per chi vive il dissenso nella società sovietica.
L’autore narra l’esperienza della cella di rigore, che ha sperimentato per lunghi anni della sua vita per non essersi voluto adeguare alle rigide direttive del regime. Una mosca bianca, che perseguiva i propri ideali di libertà, noncurante dello scherno di chi gli sta intorno, convinto della follia d’un simile comportamento. Non a caso, ai periodi di detenzione si alterneranno, per Bukovskij, i ricoveri coatti in ospedali psichiatrici. E un’esperienza tragicamente vera, che l’autore, forse proprio perché l’ha vissuta sulla propria pelle, rende con toni romanzeschi, poetici in alcuni punti“.

Il vento va e poi ritorna, come metafora, come allegoria di un qualcosa che non può passare, perché rimane con tutta la sua forza ineluttabile distruttiva e perfino devastante, in ragione della sua verità evidente. La violenza politica è stata a volte peggiore di quella militare, perché essenzialmente asimmetrica, e perciò profondamente ingiusta, iniqua, sbagliata, specialmente quando ha voluto rappresentare la perfezione illusoria della palingenesi, della rinascita integrale di un qualcosa, da radici diverse e opposte. Non si può accettare l’assolutezza di una verità, ma la verità di una assolutezza sì, come una bandiera piena di colori, l’ingenuità di un pianto vivo, la fede in qualcosa che non può morire e non deve.

Il vento va e poi ritorna, come a ogni cambio di stagione, ora che ottobre è terminato e il cielo si affida a novembre per accostarsi all’ennesimo inverno delle nostre vite. In attesa del risveglio che ineluttabilmente verrà, sì, verrà.

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