“La vita, amico, è l’arte dell’incontro…”
Così cantava, verso la fine degli anni ’60, ma come stesse parlando piano, con toni delicatissimi da bossa nova, Vinicius de Moraes, poeta brasiliano amico di Sergio Endrigo, con cui e con Giuseppe Ungaretti fece un disco dal titolo omonimo.
Un disco e un testo molto bello che introduce poeticamente il tema della relazione tra umani, e dunque l’incontro, la relazione, la costruzione della società…
Facciamo insieme una carrellata su un etimo fondamentale per la vita umana, quello di socio, società, sociale, socialismo, etc..
La societas (cioè la “società”) è una nozione-concetto che significa -fin dalle norme del Diritto Romano- contratto consensuale, un’obbligazione consensu contractae. La sua messa in funzione iniziò probabilmente con l’incremento dei traffici commerciali nel mar Mediterraneo da parte di Roma. Poteva essere bilaterale o plurilaterale in cui i contraenti, in base al principio della buona fede, si obbligavano a compiere una data attività o a conferire dei beni in comune per raggiungere un fine comune, dividendo in seguito guadagni e perdite.
“Occorreva comunque un consenso durevole tra i soci, il conferimento di beni o il compimento di attività, uno scopo finale patrimoniale di interesse comune.
Se tutti i soci erano obbligati nel conferire beni o attività nella societas, contemporaneamente vi era anche l’obbligo degli stessi di ripartire guadagni e perdite derivanti dalla gestione della stessa. Fu pertanto fondamentale stabilire le quote di ogni singolo socio e se questo non fosse stato fatto si intendevano tutte uguali“. (dal web)
Vi era dunque la societas formata dai socii, dai soci. E la struttura diventava sociale, esprimendo quindi una socialità e un senso di coesione e di condivisione, quasi di con-vivenza. Infatti, anche oggi si dice che si sta in azienda più che in famiglia e l’azienda ha qualche analogia, oltre molte differenze, con la famiglia.
Il tema della socialità ha poi dettato immediatamente un altro tema o valore, quello della solidarietà, che è diventata virtù morale, fin dai tempi antichi, corroborata dall’antropologia cristiana, inizio e fomite di tutte le antropologie e di tutte le etiche umane successive, in Occidente, anche di quelle laiche, derivanti dalla temperie dell’Illuminismo, così come variamente declinato.
Da questo primo gruppo di termini, la storia e la politica hanno poi fatto derivare la nozione di socialismo, che è un amplissimo “luogo terminologico” significante scelte etiche, orientamenti politici, movimenti sociali, anche di carattere rivoluzionario, tesi a una trasformazione più o meno profonda della società nel senso innanzitutto di una tensione all’uguaglianza di tutte le persone o cittadini, sotto il profilo economico, giuridico e, appunto, sociale.
La visione socialista, soprattutto nella sua versione marx-engelsiana presuppone, però, anche una antropologia completamente rivisitata rispetto a quella precedente, che potremmo definire con un sintagma un poco azzardato illuministico-cristiana, consapevole degli irriducibili limiti psico-morali dell’uomo, peraltro confermati sostanzialmente dalle neuroscienze contemporanee.
Infatti, a differenza dei suoi predecessori del primo ‘800, denominati in genere socialisti utopisti, tra i quali possiamo ricordare Auguste Blanqui, Pierre-Joseph Proudhon, il conte di Saint-Simon e altri, che non ritenevano possibile un egualitarismo perfetto tra tutti se non in una prospettiva che si può forse definire, nella temperie di quei decenni, quasi romantica, Karl Marx riteneva che la realizzazione di una società socialista e poi comunista avrebbe modificato l’uomo alle sue radici più profonde, antropologiche, quasi ri-creandolo, facendolo meno egoista e più giusto, in una società di uguali. Si può dire che tale prospettiva aveva ed ha un che di messianico quasi si trattasse, e in qualche modo si può dire lo sia, di un’eresia cristiana.
Tutte queste dottrine e movimenti di matrice socialista tendevano comunque verso un certo superamento delle classi sociali e della proprietà privata, fino all’abolizione dello Stato stesso, come nella linea anarchico-rivoluzionaria (cf. M. Bakunin e P. Kropotkin) certamente con accenti e toni diversissimi tra la linea utopista e quella del socialismo “scientifico” di matrice marxiana. La data discrimine tra le due linee teoriche e politiche si può ritenere il 1848, con la pubblicazione, da parte di Marx e Engels, del Manifesto del Partito Comunista.
In ogni caso i termini socialismo e comunismo non possono essere trattati, utilizzati e ritenuti come sinonimi, poiché il socialismo, nel tempo e soprattutto nelle sue più recenti declinazioni pratiche si è connotato sempre di più come socialdemocrazia, cioè un modello che accetta l’economia di mercato e la proprietà privata all’interno di istituzioni democratico-liberali. Il socialismo democratico, nelle sue varie versioni, latine, e anche italiane, e nordeuropee si colloca tra la prospettiva marxista e quella borghese-capitalista, cercando una via mediana nella prassi socio-politica.
In Italia questa linea si può far risalire soprattutto alla lezione di leader come Turati, Pietro Nenni e fino a Bettino Craxi.
Nelle fasi più dure della storia del Novecento, il conflitto tra prospettiva comunista, diventata oramai stalinista, e visione socialista, giunse al punto che i comunisti chiamarono i socialisti social-traditori e social-fascisti, per poi, dopo la caduta del Muro di Berlino, dover ammettere che la prospettiva socialista era quella più razionale e plausibile, salvo ulteriori incomprensibili resipiscenze, come quelle italiane di questi anni e mesi.
La socialdemocrazia, corroborata peraltro dal pensiero cristiano–sociale, dalla metà del XX secolo ha costituito il nerbo del riformismo sociale, allargando la base del benessere delle persone con le politiche di welfare e di una migliore divisione delle risorse. Restano comunque problemi ciclopici, che non possono essere risolti con scorciatoie rivoluzionarie anche armate, come la storia degli ultimi quarant’anni ha mostrato.
Accanto a queste affascinanti storie di politica, e per tornare al nostro titolo, possiamo rinforzare queste riflessioni citando il pensiero di filosofi nostri contemporanei come Martin Buber ed Emanuel Lévinas, i quali declinarono le loro teorie guardando all’imprescindibile esigenza di considerare la vita delle persone singole, nelle varie società, come un continuo dialogo per la costruzione di una relazione, nel riconoscimento del pari valore di ogni soggetto umano. L’Io–come-Tu di Buber e il Volto dell’Altro di Lévinas, sono la simbolica immagine di quello che Vinicius de Moraes e Sergio Endrigo chiamarono la vita come “arte dell’incontro”.
Post correlati
0 Comments