In questo 11 febbraio di pieno inverno Marco ci racconta (1, 40-45) una storia del Maestro, che consola
“Un giorno, in una città che stava visitando, un lebbroso gli si fece incontro lungo la via e, appena lo vide, gli si gettò ai piedi supplicandolo dicendo: “Signore, se tu lo vuoi, puoi guarirmi”. Gesù non vide colpa in lui, quindi, allungò la mano, lo toccò nella sua infermità, e gli disse: “Lo voglio, sìì guarito”.
Subito la lebbra sparì dall’uomo. Lo mandò in pace dicendogli di non dirlo a nessuno: “Recati, piuttosto, dal sacerdote e mostrati a lui perché ne dia testimonianza. Poi recati al Tempio e fa l’offerta del sacrificio, come ha stabilito Mosè, perché questa diventi per loro un’attestazione di guarigione”.
Il lebbroso non ascoltò quella raccomandazione tanta era la gioia per l’avvenuta guarigione. Infatti, appena Gesù fu partito da quel luogo, l’uomo si dette a divulgare il fatto a chiunque incontrasse. Così e anche per altri fatti la fama di Gesù si diffuse sempre di più nella regione.
Una folla numerosa accorreva a Lui da ogni parte dei villaggi e delle città. Si radunavano per ascoltarne la parola e per farsi guarire dalle malattie. Gesù, a sera, poi si ritirava in luoghi deserti a pregare e meditare ogni qualvolta vi riusciva.”
Il racconto si trova anche nei vangeli secondo san Matteo (8, 1-4) e secondo san Luca (5, 12-16) e, un po’ stranamente, vista la tendenza di san Marco a essere solitamente più sintetico degli altri evangelisti sinottici, questa volta, al contrario, indugia in un racconto più lungo, con dovizia di particolari che nei testi paralleli mancano, e mi riferisco soprattutto al dialogo tra il malato e Gesù. Si tratta del cuore del racconto ed è per questo che ho scelto la versione marciana. “Se tu vuoi, puoi“, dice il lebbroso, e Gesù decide e agisce, raccomandandogli di non fare propaganda all’evento straordinario, e piuttosto di andare dal sacerdote affinché questi attesti l’avvenuta guarigione.
Gesù tocca un immondo anche se la Legge di Mosè prescriveva la sua emarginazione. La visione arcaica, vetero-testamentaria considerava i lebbrosi reietti da Dio e dagli uomini, colpevoli sicuramente di gravi peccati, direttamente o indirettamente in ragione di peccati commessi dai genitori o dagli avi.
E’ chiaro che la medicina del tempo non aveva rimedi a quella grave e contagiosa malattia, e dunque la società si rivolgeva al diritto religioso per rimediare, inventando colpe immaginarie per giustificare la presenza della malattia e del dolore, quasi fosse una sorta di giustizia retributiva, che per il Maestro di Nazaret è manifestamente assurda, visto il suo intervento deciso.
Gesù viola la legge mosaica e diventa pure lui immondo, andando oltre la Scrittura e le regole ivi riportate, tranquillamente, e sapendo (Lui sa) di interpretare il volere divino. E anche il lebbroso ha capito la compassione del Maestro, che lui intuisce dicendogli “Se tu vuoi, puoi“, e Gesù, mosso fin nei visceri (rahumin) a compassione, vuole.
Ciò significa molto: che il dolore vissuto (dal lebbroso) e compreso (da Gesù) è più istruttivo della gioia, è a talora fonte di sapienza profonda, paradossalmente.
La guarigione del tempio avviene fuori dal Tempio, e nonostante le norme dettate dall’autorità religiosa, cosicché è qualcosa di straordinario per quel tempo, ma anche per noi. Anche noi abbiamo bisogno di cercare al di fuori della norma, della consuetudine, di ogni confort zone che siamo tentati di coltivare nella nostra vita e nel nostro lavoro.
La comodità attrae chiunque, ma affloscia lo spirito, così come la desuetudine all’impegno, alla fatica e, posso ben dirlo, al dolore, che non auguro a nessuno, e scongiuro ogni giorno curandomi e pregando, ma comprendendo, forse, le ragioni dell’imperfezione, del divenire, del cambiamento, della vita, come esercizio e come accettazione.
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