Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

I pasciuti, gli affamati e la divisione del lavoro e del reddito nel mondo e, senza niun trascurare, né gli incliti né i sapienti

Vi sono in giro sportivi e giocatori, cantanti, attori strapagati, ma paradossalmente demotivati, forse -chissà- stanchi di gaudère.

Avere troppo riduce la qualità dell’essere, si potrebbe dire, filosoficamente.

Pasciuti, un altro nome di chi possiede tanto, troppo, ne troviamo ovunque, in ogni ambiente, in ogni dove. Non so se al mondo vi siano più pasciuti o più affamati. Penso, però, più affamati. Un personaggio come Tiger Woods, famosissimo golfista mi pare guadagnasse sotto i cento milioni di dollari all’anno nei suoi anni migliori, così come un pilota di Formula 1 alla Lewis Hamilton. Anche un Messi o un C. Ronaldo lucrano annualmente cifre attorno ai quaranta o cinquanta milioni di euro/ dollari.

Di contro, vi sono famiglie di otto/ dieci persone che vivono (cercano di sopravvivere) con milleduecento euro al mese, anche in Italia, specialmente nel Meridione, e in Asia/ Africa anche con un terzo di quella cifra. Abbondanza contro fame, dovizia smisurata di risorse contro miseria.

In molte situazioni e luoghi manca reddito e manca lavoro per molti, e a volte anche dove c’è il lavoro il reddito non è sufficiente per una vita dignitosa. Molti operai sono oggi chiamati workin’ poors, cioè poveri che lavorano, perché l’avere un lavoro non è più il discrimine tra chi ha i mezzi per vivere e chi non li possiede.

I pasciuti o “troppo ricchi” (ma questa è un’espressione legittima, mio caro lettore?, perché sotto un certo profilo mi stride, evangelicamente…) non si rendono conto di tutto ciò, specie, ecco l’esegesi teologica, se non sono “poveri in spirito” (cf. Matteo 5, 3)…

Molte sono le riflessioni in merito, e specialmente circa la divisione delle risorse e del lavoro nel mondo.

Tutti gli adulti dovrebbero fare un lavoro retribuito per un tempo da 12 a 30 ore in una settimana e al contempo 12-30 ore di lavori di cura non retribuiti”, ha sostenuto la filosofa canadese Jennifer Nedelsky…  o “lavoro part time per tutti, attività di cura per tutti”, durante convegni in cui è stata ospite nell’ottobre scorso alla LUMSA e successivamente alla Pontificia università San Tommaso d’Aquino (Angelicum) di Roma.

La studiosa ha sottolineato soprattutto “due problemi cruciali della società occidentale”, ossia “la pressione insostenibile esercitata dal lavoro sulla famiglia”, “la disuguaglianza ancora presente tra uomo e donna e verso chi si occupa dei lavori di cura”. Nedelsky ha ricordato anche la riduzione drastica -pure se progressiva- delle ore giornaliere lavorate negli ultimi cento anni, da 12/ 14 a 8 ore. Infatti le 8 ore giornaliere furono decretate dal Regno d’Italia nel 1923 con il Regio Decreto 692 a firma di re Vittorio Emanuele III (una delle poche cose buone fatte da questo Savoia, peraltro inetto e non poco vigliacco), e da Benito Mussolini. Altrove le 14 ore sono tutore in vigore.

Un tempo, ha ricordato Nedelsky, il non-lavorare, specie per i gentiluomini maschi era un segno di distinzione, non di esclusione sociale, ma questi gentiluomini maschi erano dei benestanti, di solito aristocratici o possidenti.

Oggi invece sono possibili i congedi parentali maschio-femmina per padre-madre in molti ordinamenti, senza che ciò metta a repentaglio la carriera di lavoro, ma c’è ancora molto da fare, soprattutto a livello culturale, in ordine al pensiero sociale di approvazione o di disapprovazione di certe scelte relative al rapporto tra vita e lavoro.

Il tempo parziale può cominciare a interessare anche i lavoratori maschi. Personalmente seguo (tra altre) una media-grande azienda dove si pratica sistemicamente e con successo un lavoro a tempo parziale a trenta ore alla settimana. L’azienda di cui parlo, a cui voglio molto bene, pur essendo strutturata come una fabbrica otto-novecentesca per il rapporto esistente tra operai e impiegati, ha già la testa nel futuro, sia per quanto riguarda la Proprietà, sia per quanto concerne i Collaboratori e i Lavoratori.

Un altro fenomeno da osservare è quello della precarietà vera, cioè l’esigenza per molti di “mettere insieme” due o più lavori per un totale anche di 60 o 70 ore alla settimana, per sbarcare il lunario. Anch’io lavoro non meno di 50 ore alla settimana, ma io sviluppo attività straordinarie, complesse, motivanti, piene di quotidiane novità e pertanto non mi pesano.

Un’idea potrebbe essere quella di connettere con equilibrio il reddito da lavoro e il riconoscimento di vantaggi fiscali: si dovrebbe consentire ai singoli lavoratori e alle famiglie di potersi dedicare anche al lavoro gratuito, a partire da quello domestico, che dovrebbe essere riconosciuto in dignità ed effetti economici.

Probabilmente la via giusta potrebbe essere quella di suddividere possibilmente tra tutti, o quasi, le attività di produzione di beni e servizi che generano reddito, con le attività di cura attualmente non in grado di produrre un reddito diretto, ma potenzialmente in grado di produrlo. Faccio un esempio, seguendo il ragionamento della collega canadese: una giornata di degenza in uno dei nostri ottimi ospedali costa all’erario circa 600 euro, ecco: si potrebbe, da un lato perfezionare il modello del Day Hospital, concentrando le terapie, ove possibile, in degenze di poche ore o mezza giornata, o tuttalpiù di una giornata, dall’altro, prevedere che chi ha un reddito di un certo tipo, contribuisca alle spese di albergaggio in caso di degenza obbligata, magari post-operatoria. Si moltiplichi ad esempio la cifra di 20 euro per due pasti più 5 euro per la colazione per i giorni di degenza di chi ha un reddito familiare superiore a 45/ 55.000 euro/ anno, famiglia di quattro persone, e vediamo che somma vien fuori, che risparmio improntato al principio di equità si potrebbe realizzare. Un meccanismo a scalare fino alla gratuità completa.

La cura dovrebbe tornare a essere un’attività diffusa e riconosciuta, se non sul piano reddituale, almeno sotto il profilo di ben mirati vantaggi fiscali.

Torniamo al tema delle ore lavorate/ pro anno: in Italia sono una media di 1800, in Germania 1400 o poco più; in Italia vi è una disoccupazione, molto differenziata tra Nord e Sud, di circa l’11%, in Germania del 3,5%.

E’ chiaro che non basta una soluzione aritmetica della divisione del lavoro tra tutti coloro che potrebbero lavorare, anche perché bisogna vedere se vogliono lavorare, ma occorre anche curare il tema del riconoscimento del valore sociale ed economico della cura, abbiamo detto sopra, magari mediante la leva fiscale. In ogni caso chi non volesse lavorare potendolo fare, non dovrebbe percepire redditi di cittadinanza o di inclusione, se non per periodi brevissimi e in vista di un inizio rapidissimo dell’attività.

Anche Marx andrebbe riconsiderato, a duecent’anni dalla nascita, ma in senso socialdemocratico, come aveva provato a fare il nostro Antonio Labriola poco dopo metà ‘800, là dove il grande di Treviri non calcava la mano sulla profezia comunista, ma si limitava a criticare il capitalismo, apprezzando -però- il grande valore della lezione economica della borghesia.

Socialdemocrazia come mix di lavoro, gratuità e welfare, come recupero di una cultura umanistica fondata sulla storia e la grande tradizione greco-latina. Studiassero qualche pagina del dottor Karl, i genitori imbecilli della Scuola dell’Infanzia Chicco di Grano dell’Ardeatino, non chiederebbero di togliere le feste del Papà e della Mamma, come hanno appena fatto, suscitando una legittima e furibonda reazione, perché capirebbero che sono inclusive, anche di loro, non esclusive. Non si sono accorti i beoti che fare una richiesta del genere è come ammettere implicitamente che nel caso della genitorialità gay non vi è, perché non vi può essere -ontologicamente- la compresenza dei due genitori. O no?

E dunque, mi pare di poter dire che la crisi riguarda, nell’insieme, aspetti cognitivi, etici, economici, politici, istituzionali, costituzionali e chi ne ha può aggiungere ancora prospettive e dimensioni altre.

Troppo pasciuti a volte coincide e a volte no con il troppo imbecilli. Bene, proviamo a distinguere, discernere, ragionare, rivedere le cose, quando sono sbagliate, a partire dal buon senso e dalla conoscenza reale dei fenomeni esistenziali, comunicativi, relazionali e -in generale- umani.

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