Para leer el Zibaldon verdadero y escribir con humildad un Zibaldon nuevo
I miei cari lettori sanno che a volte uso citazioni dirette di autori che stimo e ammiro, per introdurre temi da commentare nella situazione attuale. Questa volta invito a leggere quasi integralmente i capp. 103 e 104 dello Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, che sto ristudiando come testo filosofico di grandissima attualità, fonte di ispirazione per Nietzsche e per gli esistenzialisti nostri contemporanei, da Sartre a Heidegger. Chi fosse interessato a questo brillantissimo e profondo anche se a-sistematico testo filosofico, lo può trovare a prezzo calmierato negli Oscar Mondadori. Più avanti nell’estate proporrò anche una rilettura della penultima grande lirica del nostro “giovane favoloso”, La Ginestra, scritta da ospite nella casa del suo amico Antonio Ranieri, a Napoli.
“Ci sono tre maniere di veder le cose. L’una e la più beata, di quelli per li quali esse hanno anche più spirito che corpo; e voglio dire degli uomini di genio e sensibili, ai quali non c’é cosa che non parli all’immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo, e una vita indefinibile e vaga; in somma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell’animo loro.
L’altra, e la piú comune, di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito; e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell’immaginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, per esempio alla scienza, alla politica ec. ec.), che senza essere sublimati da nessuna cosa trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono e sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano. Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice, che senza condurre a nessuna grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell’esistenza, riempie però la vita di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e uniforme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circostanze dalla nascita al sepolcro.
La terza, e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno né spirito né corpo, ma son tutte vane e senza sostanza; e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo piú di sentimento, che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita, per modo che senza esse non è vita.
E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacché volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai, come si dice volgarmente, con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell’uso intero della ragione.
Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacché volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la piú ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai, come si dice volgarmente, con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia.”
L’intelligenza del grande pensatore e poeta nostro elabora un testo non facile, tra cui è invece facile perdersi. Non si pensi che, siccome lo dice esplicitamente, egli sposi senza riserva la terza visione del mondo, quella pessimistico radical-nihilista. Non è così. Il conte Leopardi accompagna il lettore a una riflessione più complessa. La sua onestà intellettuale lo porta a sostenere che la natura (Dilthey direbbe Naturwissenschaften, o scienze della natura) la vince sempre sulla ragion intellettuale (sempre Dilthey direbbe Geistwissenschaften, o scienze dello spirito), ma questo non deve scoraggiare l’uomo, per cui, se l’uomo vuole co-determinarsi insieme con la circostanze che costituiscono, insieme con le iniziative della volontà individuale, il suo proprio destino, deve avere il coraggio (prima opzione) di lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Ed è qui che il pessimismo leopardiano vien fuori, proprio per la sua onestà intellettuale, ed è in questo modo che il suo ragionamento si manifesta come attualissimo, in una fase storica, la nostra, che vede il deliquio del pensiero argomentante e della logica raziocinante. Leopardi è un romantico disilluso, non un disperato disperante, e la differenza tra i due profili ideal-tipici è radicale.
Vi è di più, come sempre, vi è un’ulteriorità negli scritti leopardiani, siano essi in forma di poesia, siano essi in forma di prosa filosofica. A me par di intravedere in Leopardi la penna e le intenzioni di un pedagogo eccelso, dello stesso livello di un Aristotele o di un sant’Agostino. Infatti, sia il filosofo di Stagira, sia il vescovo di Ippona pensano che l’uomo abbia le risorse interiori, psichiche e spirituali per emergere anche dalle peggiori situazioni, sia pure con modi e mezzi diversi: Aristotele confida nella potenza del pensiero logico, della necessità intrinseca, stringente della riflessione sillogistica, per cui l’uomo riesce a comprendere il flusso e la ragione degli eventi e a intervenire su di essi, con la sapienza maturata nell’esperienza esistenziale individuale; Agostino in qualche modo crede altrettanto e aggiunge, di suo, che se l’uomo chiede aiuto con umiltà a Dio, l’Incondizionato non può non ascoltarlo, dandogli l’acutezza intellettuale e le risorse energetiche necessarie alla propria vita.
E per concludere questo strano e commisto mio scriver domenicale, aggiungo un’antica poesia in quartine e versi ottonari, mia cugina Giuditta la custodì nel tempo interiore, che scrissi in onore di Catine, mia nonna materna, ottantenne da pochi giorni. Io ne avevo ventiquattro e studiavo allora Scienze Politiche e lavoravo in fabbrica con tuta da metalmeccanico, come da foto qui sopra a destra. lavoro, operaio, studio e scrittura, come proprio un ricercar mio proprio, in forma di Zibaldone, forse un poco arcimboldesco.
“L’occasione è un compleanno,/ ma l’intento è ricordare/ come fosse d’un sol anno/ della nonna il camminare.// Dopo che fu la campagna/ tra i vigneti e il patriarcato/ a forgiarla e a dar sostanza/ a ciò che noi siam risultato.// Ancor giovine e inesperta/ lei ben presto si sposò/ per portare al miglior fine/ ciò che in lei valor trovò.// Venner presto sette figli,/ due purtroppo se n’andorno/ ma dei cinque rimanenti/ lei fu fiera e loro attorno.// Era il tempo dei saluti,/ false glorie e miti affini,/ la miseria e gli starnuti/ solo vanto dei bambini.// E passarono i “vent’anni”,/ dura guerra poi passò,/ cominciarono a sposarsi/ i figli e lei pace trovò.// La rinascita: altro mondo,/ i primi soldi un po’ men scarsi,/ ma purtroppo ancora in fondo/ d’uopo è d’accontentarsi.// Che è che alfine noi vogliamo/ pianamente festeggiare,/ se non lei che solamente/ a noi del tempo può parlare?”
E che il sole di luglio non esageri, e il tempo giusto l’accompagni.
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