Hoc unum scio, nihil me scire
Già informai qualche tempo fa il mio gentil lettore che in questa fase della mia vita, tra altre attività di studio e ricerca, approfondisco con gusto il pensiero del filosofo-poeta nostro massimo, il conte Leopardi da Recanati. La riflessione espressamente “socratica” che qui riporto, tratta dallo Zibaldone di pensieri, scritto negli anni 1920/ 21 da lui giovanissimo, è particolarmente valida di questi tempi saccenti e superficiali, o meglio, popolati da molte persone saccenti e spesso superficiali. Il conte Leopardi è spietato, e ne godo, con queste categorie di persone. Leggiamo insieme una parte della sezione 449.
“(…) Ora è cosa dimostrata dalla continua esperienza, che l’uomo si determina al credere tanto più facilmente, prontamente, e certamente, quanto più è vicino allo stato naturale, come appunto accade negli animali, che non hanno né difficoltà né lentezza né dubbio intorno alle loro idee o credenze innate nel senso detto di sopra. E così il fanciullo, l’ignorante, ec. E per lo contrario, quanto più si è lontani dallo stato naturale, cioè quanto più si sa, tanto maggior difficoltà e lentezza si prova alla determinazione dell’intelletto e tanto minor forza, ossia certezza, ha questa determinazione o credenza. Così che la certezza degli uomini nel credere (e quindi la determinazione e forza nell’operare, ch’è in ragion diretta colla certezza del credere) è in ragione inversa del loro sapere. Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di quell’antico sapiente. E questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la mèta, la perfezione della sapienza. Laddove il fanciullo e l’ignorante si può dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo tutto quello che crede. E questa è la sommità dell’ignoranza (onde credendo quello ch’é conforme alla natura, e credendolo in questo modo, ne viene a esser felice perfetto). In maniera che, dove alla determinazione dell’uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la credenza; la cognizione, la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo, viene a esser nemica della credenza e però della determinazione. E invece che l’ignoranza tal qual è in natura, (non l’assoluta, cioè la negazione di ogni credenza o determinazione dell’intelletto, che in natura non si dà) conduca l’uomo o l’animale all’indifferenza, come pretendono; ve lo conduce anzi il sapere (e l’eterna esperienza lo prova). E l’uomo tanto meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente si determina, quanto più sa. Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore è il sapere. E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile coll’ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile coll’ignoranza che col sapere.” (G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 449)
Son consapevole del dolore e della sofferenza che genera il sapere (pur conscio, e soprattutto in quanto così conformato), rispetto all’ignoranza saccente che da tutt’intorno contempla il nulla pensando di contemplare il cosmo, ovverossia l’ordine delle cose. Quando guardo in volto l’ignorante saccente, specie se ricco e potente, mi vien come un’ombra di pietà, che non è neppur parente della pietas latino-cristiana, ma è proprio il sentimento della desolazione. E voglio specificare che questo sentimento è in essenza costituito di rabbia e di delusione, essendo la mia speranza mai doma di poter pensare a cose migliori, a menti e riflessioni più acute, curiose e capaci di relazioni buone e di alleanze intelligenti.
Ho a che fare spesso con soggetti umani di tal fatta, che dunque vanno evitati con cura -se possibile- (e talora possibile non è, perché s’ha pur da vivere), oppur vanno blanditi per impedir loro, a loro insaputa, di danneggiare il kòsmos, cioè l’ordine delle cose. In questi casi è proprio il caso di profittar di tali mancanze, utilizzando a fin di bene il presuntuoso ignaro, mentre’egli pensa di usare te, non accorgendosi il tapino che sei tu a usar lui, ma a fin di bene, un bene che lui / lei non capisce e neppure comprende, ma i maschi son più numerosi delle femmine in questa categoria di persone. Non serve schiantarsi contro un carro armato, è meglio agire come gli “assaltatori con le bombe a mano” della pazienza e di un’accortezza perfin sorridente. Non è facile sorridere davanti alla stupidità presumida, se dice en castellano, poiché il primo moto sarebbe quello di mandare in malora tutto e ritirarsi a vita privata. Ma non va bene, poiché sarebbe ingeneroso nei confronti di chi ancora pensa, riflette, lavora, spera, come insegnava il solitario di Kðnigsberg, il professore Immanuel.
E poi vi sono i permaleuses che temono ogni tua azione, paventando che sia diretta contro e dunque nutrono illegittime suspiciones y sentimientos infirmados.
Son persone che, se gli proponi un neologismo oppure un lemma desueto si scervellano per capire il fin secundo, come fosse necessitato per la tua malevolenza presunta. Se tu dici queste cose insolite “chissà che cosa ti passa per la capa“, a suo danno, su di te ei pensa e sospetta. Ecco un esempio.
Alba, prima luce del mattino, o dilucolo; all’alba voce dotta recuperata dal latino diluculum, da dilucère ‘essere luminoso, essere chiaro’, e significa i crepuscoli di alba e tramonto, luoghi in cui il dilucère. I pensieri non sono mai così chiari come quando si esce di casa al dilucolo, pare.
Ma certe persone si arrabbiano perché gli dà fastidio che tu conosca il dilucolo. Gelose, anche, sono. E a volte invidiose del bene altrui, ignorando di essere affette da un vizio, certamente il peggiore, dopo la superbia, il vizio dell’invidia, come insegnano papa san Gregorio Magno e frate san Tommaso d’Aquino.
L’invidia è un guardare-male l’altro, dal latino in–vidère, guardare di storto, di mal occhio.
Ecco, dunque, se così è, il tempo in cui viviamo pretende un rallentamento intelligente, un metodo, che significa trovare una via, un sistema, cioè un qualcosa che abbia struttura, capace di argomentare logicamente le scelte e i discorsi che si fanno.
Contro le deformazioni del vizio, occorre ancora, come sempre, filosofia.
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