Del “male”
Caro lettore,
ti propongo un breve saggio sul tema del male alla luce della teologia cristiana classica, cioè quella informata essenzialmente al pensiero di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino, comunque diversa dall’etica sottesa in un post precedente, di solo qualche giorno fa, quello dedicato al tema del “valore” in Max Scheler e altri. Non è una lettura facile ma, se affrontata con un po’ di pazienza, forse può servire a rischiarare alcuni concetti al giorno d’oggi quando la banalizzazione concettuale e la pigrizia del pensiero sembrano farla da padroni. Mi pare quindi una lettura produttiva anche per un non-cristiano, se non altro come esercizio riflessivo che può essere utile, in generale, anche a qualche rischiaramento della logica e dell’argomentazione dialettica sulle cose della vita.
il male, nella sua opposizione al bene, si definisce come ciò che è dannoso, inopportuno, contrario alla giustizia, alla morale o all’onestà, ovvero ciò che è considerato in qualche modo indesiderabile, come il male fisico di qualsiasi genere.
La filosofia analizza il male anche nella dimensione metafisica e morale, a livello teoretico.
Circa il male si sono spesi fiumi di inchiostro e su questo concetto si sono affaticati grandi intelletti nei millenni, a volte vanamente. Propongo dunque alcune considerazioni su ciò che (il male, appunto) viene considerato da evitarsi pressoché da ogni morale umana, salvo poi dimenticarsene nell’agire quotidiano dei singoli e talora dei gruppi.
In particolare, se innanzitutto il Bene coincide con il Fine dell’agire umano, là dove per “Fine” si intende ciò-che-è-buono, la privazione del fine è privazione del bene, si tratta di quello che intendiamo con la parola male.
Scrive il domenicano padre Sergio Parenti:
“L’agire è compiutezza, perfezione dell’agente. Infatti il raggiungimento del fine è perfezione dell’azione. L’azione poi è perfezione della capacità operativa: bene della vista è vedere. Ma le capacità di agire sono la conseguenza di un modo d’esistere che in esse trova la connaturale perfezione e compiutezza, altrimenti si avrebbe qualcosa che non viene attuato e per questo manca. Per rapporto alla natura dell’agente, dunque, parleremo propriamente di privazione: cioè essa è negazione in un determinato soggetto, non una qualsiasi negazione. E tale privazione, in quanto privazione di un bene connaturale diventa un male. Un sasso che non vede, non ha la vista, ma non lo diciamo “privo”. Un gatto, invece, se non è capace di vedere, è cieco. Se vi si riflette un poco, ci si accorge che queste denominazioni non sono affatto arbitrarie, ma corrispondono all’uso del linguaggio quotidiano.”[1]
Le privazioni dunque sono un “ente di ragione”, ma il male in quanto tale può essere definito in qualche modo, magari aiutati da sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino:[2]
– il male in sé e per sé non esiste, né è qualcosa nel senso comune di queste parole,
– il fine di ogni cosa o essere è il bene,
– non vi è alcun “sommo male”, o dio del male,
– nessuna azione, di per sé, tende al male. Anche in chi agisce deliberatamente, il male, di per sé, è “preterintenzionale” (cioè non è l’oggetto vero del tendere della volontà),
– il male è spiegato e causato da un bene,
– il male, di per sé, non causa nulla,
– un male suppone un bene nell’oggetto desiderato: “Malum in rebus incidit praeter intentionem agentium“, cioè, il male capita, nelle cose, indipendentemente dall’intenzione dell’agente. Questo è il senso della preteritenzionalità sopra richiamata, che non toglie, beninteso, la responsabilità del soggetto agente.:Malum, etsi non sit causa per se, est tamen causa per accidens”, cioè, il male, anche se di per sé non è una causa, è però una causa “per accidens“. Si intende che non è una causa propria, ma derivata, come da una goccia fredda deriva benessere al corpo umano nella calura. Ci aiuta in questo difficile e inusitato cammino sant’Agostino, con la sua dottrina del male morale.
Del male morale
Nell’agire morale sembra molto strano e quasi paradossale che si affermi che il male è preterintenzionale, dato che il male deve derivare da consapevolezza intellettuale e consenso volitivo. La preterintenzionalità, anche nel diritto penale corrente, rappresenta il riconoscimento del male non voluto,[6] ma qui siamo su un terreno diverso dal diritto. Siamo in filosofia morale, o in etica. Se un atto moralmente rilevante dipende da alcune condizioni.
L’agire volontario libero è proprio dell’uomo. Ma perché sia così definibile e per determinarne la responsabilità, occorre fare un passo avanti. Dobbiamo cercare un difetto a monte dell’agire.
Possiamo dunque dedurre con certezza che il male non potrà mai distruggere totalmente il bene, ma che il bene, oltre gli ottimismi di maniera, ma anche evitando ogni pur sotterranea forma di nichilismo o di manicheismo, va perseguito con intelligenza acuta e costante, per orientare la volontà, affinché sia realizzato il fine vero e buono[5] di chi agisce.
Sant’Agostino così scrive:
“Così mi fu chiaro come le cose che vanno soggette a corruzione, sono buone: poiché, se fossero buone in grado sommo e assoluto, andrebbero esenti da corruzione, e se non fossero buone, non andrebbero soggette a corruzione (…). Giacché la corruzione nuoce, e non potrebbe nuocere se non diminuisse il bene (…). Che se verranno private totalmente del bene, cesseranno affatto di esistere, dacché, se continueranno ad esistere, saranno meglio di prima, perché rimarranno incorruttibili. Ora c’è asserzione più mostruosa del dire che le cose che sono state private totalmente del bene, sono migliori? Dunque se saranno private totalmente del bene, cesseranno di esistere; dunque, fintantoché esistono, sono buone; dunque, qualsiasi cosa che esiste, è buona. E il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza, perché, se fosse una sostanza, sarebbe un bene … Perciò vidi chiaramente come Tu facesti buone tutte le cose e come, d’altra parte, non esistono sostanze che Tu non abbia fatte“.[4]
“Omne malum est in aliquo bono fundatum”, cioè, ogni male si fonda in qualche bene. E’ di immediata intuizione, poiché ogni male, per esistere, deve interferire in un qualche bene.
“Malum non causatur nisi a bono“, cioè, il male non è causato se non dal bene. Diciamo anche “è colpa della cattiveria”, che , allora, causa deficiens, causa che deficita, insufficiente, causa-non-efficiente.
Qui è utile considerare alcuni concetti per approfondire le responsabilità soggettive dell’agire malo:[3]
– il bene conosciuto,
– la capacità di riconoscerlo,
– la capacità di tendere ad esso, o volontà,
– la capacità di conseguirlo effettivamente.
Il peccato ovvero una violazione dell’ordine come armonia
Usiamo questo termine teologico (peccato) anche in etica per capirci meglio. Potremmo anche parlare di violazione o di reato, ma ci collocheremmo nell’ambito, non distante ma sostanzialmente di altra natura, del diritto. Mentre i termini colpa e pena sono comuni, alla morale e al diritto.
Nell’ottica di una vita orientata al fine, il peccato si configura come una aversio a fine,[7] utilizzando il linguaggio agostiniano e tommasiano.[8]
Dobbiamo convenire che è necessario “purificare” il percorso conoscitivo cioè intellettuale fino a giungere all’azione della volontà. Ma anch’essa, come facoltà desiderante deve essere esaminata attentamente, al fine di escludere che vi siano condizionamenti tali da conculcarne il libero operare. Il punctum dolens è allora il suo rapporto con l’intelligenza. Chi la esercita veramente (l’intelligenza) deve saper discernere tra i beni, cioè se essi siano ordinati al fine, o meno, del soggetto agente (dell’uomo, in definitiva). Questo è il punto dirimente, e difficilissimo della morale.
Il male, il vizio, la colpa, il peccato
Secondo la comune accezione il male è il contrario del bene, cioè si oppone al bene come un qualche cosa che lo impedisce o lo contrasta, per un’immediata intuizione dell’atto umano come non buono. Si può dire che si tratta di un significato accettabile, anche se incompleto, perché del male, come dei correlati concetti filosofici, etici, religiosi e giuridici citati nel titolo, si possono e si debbono chiarire anche altre dimensioni. Più precisamente, vi è opposizione di contraddizione tra virtù e vizio, cioè gli habitus (disposizione stabile dell’animo umano orientata al bene o al male), che fondano le azioni umane rispettivamente buone o di malizia. Possiamo dire che l’idea del male è presente nella legge naturale che ogni uomo ha inscritto nel “cuore”,[9] così come è nozione ammessa in tutte le culture, filosofie e religioni. Nel manicheismo[10], filosofia religiosa proveniente dall’altopiano iranico e molto diffusa ai tempi del primo cristianesimo, insieme con lo zoroastrismo e il mazdeismo, vi è una concezione talmente dualistica della realtà, che prevede perfino l’esistenza, accanto a un Principio o Dio del Bene, di un Principio del male, che così condizionerebbe la volontà umana piegandola al male stesso.
Dopo Aristotele, che sarà recuperato prima da Boezio e successivamente da San Tommaso, l’analisi più approfondita sulla questione del male viene filosoficamente sviluppata da Sant’Agostino. Il Dottore d’Ippona, partendo dalle giovanili posizioni manichee, che forse nel substrato del suo pensiero conserverà a lungo, tratteggia un’analisi sul principio del male il quale costituirà in seguito la base, sia per il pensiero morale di Tommaso, sia per la riflessione moderna e contemporanea.[11]
Sant’Agostino concepisce il male secondo tre gradi o dimensioni: il male metafisico, il male morale e il male fisico, reciprocamente in qualche modo collegati e interdipendenti. Attenzione, però, al linguaggio, che è strettamente filosofico: il male metafisico è l'”imperfezione”, nel senso che ogni res umana, ogni atto umano, ogni modo dell'”essere” (nella duplice accezione di infinito sostantivo e di principio di analogia) umano, è limitato, defettibile, perfettibile, incompleto, o errato, colpevole, e via dicendo. E dunque, in questo senso il male è da intendersi come “non essere”, come deficienza di bene. Il male metafisico è quindi un “non essere” oggettivo, ineliminabile, appartenendo esso alla stessa natura delle cose umane.
Vi è poi il male morale, che è quello che più interessa le azioni umane. Il male morale è il non conformare l’agire pratico alla legge naturale, naturalmente conforme alla legge divina. Fin qui il filosofo africano. Più ancora San Tommaso, soprattutto nella Somma teologica, sviluppa la morale delle virtù, riprendendo Agostino nello schema delle Etiche aristoteliche (soprattutto la Nicomachea), e sostenendo che, se la volontà umana si conforma all’intelletto delle cose, non può non agire virtuosamente, guidata dalla prudenza[12], la quale sovrintende alle altre virtù (oggi diremmo valori o qualità). E’ una visione un po’ strana, forse, per la contemporaneità, dove si contendono il campo etico una morale dell’obbligo, della colpa e del peccato, e una morale, spesso amorale, del relativo e del contingente.[13] Il male morale, dunque, per Agostino suppone la colpa e il peccato, che è un “mancare” verso Dio e verso il prossimo. Suppone una responsabilità che è insita nell’umano libero arbitrio. In altre parole, Dio non impedisce il male, pur conoscendolo nella sua prescienza, perché all’uomo è data costitutivamente la libertà di scelta.[14]
Vi è infine il male fisico, la malattia, la sofferenza in tutti i suoi gradi, che appartengono al modo d’essere del vivente (le piante), sensibile (gli animali), sensibile e razionale (l’uomo), che sono imperfetti e mortali. Nell’uomo, il male fisico può essere anche inteso come conseguenza del male morale, ma senza che fra i due mali vi sia un rapporto di causa-effetto. Ciò è particolarmente evidente nei mali dello spirito, nelle sofferenze interiori, nelle somatizzazioni dei sensi di colpa (qui non intesi come mere nevrotizzazioni), che non sono semplicemente da rimuovere, ma bisogna verificarli alla luce della coscienza morale.
Per ciò che concerne il “peccato”, il quale presuppone la colpa derivante dal libero esercizio della volontà, si può dire che si tratta di un principio di valutazione morale, che lede la natura, la coscienza, e la “legge”, e che è presente in ambedue le Tradizioni cui fa riferimento la nostra cultura e la nostra scienza etica, sia quella greco-latina, sia quella giudaica. Nella Bibbia,[15] i cui principali significati si trovano nelle aree semantiche di infedeltà (mà’al), di “oltrepassamento” (àbar), e ingiustizia-violenza (àwel), vi è anche il concetto generale del peccato come di un senso di fallimento (àwòn, letteralmente: mancare il bersaglio). Nei Vangeli sinottici e di san Giovanni, e in san Paolo (specialmente nella Lettera ai Romani), i lessemi greci rinviano a concetti e significati analoghi, poiché, per ingiustizia troviamo adichìa – adikia (dalla radice di dikaiusìne – dikaiusyne, giustizia), e amartìa – amartìa per peccato di infedeltà.
Nell’etica greca e latina (Platone, Aristotele, Seneca, Marco Varrone, Cicerone, Marco Aurelio) così ben studiata da Agostino e Tommaso, troviamo, sia pure senza la dimensione soprannaturale della rivelazione cristiana, un’impostazione che possiede ampie corrispondenze soprattutto nell’ambito morale connotato dall’azione delle virtù e degli opposti vizi. In ambito cristiano si mantiene dunque un’impostazione legata al valore della fedeltà a Dio, la cui negazione (aversio a Deo, conversio ad creaturas: allontanamento da Dio per scegliere i beni finiti, cioè le creature) porta al peccato, cioè all’atto umano malo, a tutti i peccati, sia contro se stessi sia contro gli altri.
Ricapitolando possiamo dire: il male di per sé non è come principio, ma esiste ed è conseguenza della responsabile e libera azione dell’uomo, che di sé decide, anche quando agisce verso gli altri, perché in fondo ogni “peccato” è di omissione alla propria umanità. Cioè di rifiuto della possibilità di essere intelligenti.
[1] Parenti S. o.p., Logica e decisione etica. Tra principi e concretezza, pro manuscripto, Convento san Domenico, Modena 2002, p. 21
[2] San Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III libro, capp. I – XVI; S. Agostino, Confessiones, lib. VII, cap. XII
[3] Cfr. San Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II
[4] Sant’Agostino, Confessiones, lib. VII, cap. XII
[5] Ancora una volta incontriamo i “trascendentali” che si convertono l’uno nell’altro: il bello nel vero e questi nel bene.
[6] Pensiamo agli incidenti stradali: viaggio ad una velocità adeguata rispetto al codice della strada, al mezzo che guido e alle condizioni del traffico e della strada, mi attraversa la strada all’improvviso un pedone, lo investo ed egli muore. Altro sarebbe il senso dell’esempio se, nella stessa situazione, io non avessi rispettato il limite di velocità: sarei stato imputabile almeno di omicidio colposo.
[7] Lat.: una digressione, una fuga, un rifiuto del fine (per cui si è a questo mondo)
[8] Cfr. San Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, q. 72, a. 5, c: “(…) quando anima deordinatur per peccatum usque ad aversionem ab ultimo fine, scilicet Deo, cui unimur per caritatem, tunc est peccatum mortale: quando vero fit deordinatio citra aversionem a Deo, tunc est peccatum veniale“, cioè, quando l’anima si disordina per mezzo del peccato fino a porsi in avversione al fine ultimo, cioè a Dio, vi è peccato mortale: quando invero non si tratta di una vera avversione a Dio, allora vi è peccato veniale; Cfr. anche ibidem, q. 74, a. 9, c.; q. 7, a. 8, c.; q. 87, a. 5, ad 1um.
[9]Cuore è qui inteso secondo il significato semitico di “centro della persona”.
[10] da Mani, sapiente e sacerdote iranico, III-IV sec. d. C.
[11] sia nella linea neo-tomista di un Maritain o di un padre Fabro, sia nella linea induzionista-riflessiva di Cartesio, Kant, Husserl, Heidegger, Edith Stein, ma anche dello stesso Sartre.
[12] come recta ratio agibilium, retta ragione delle cose da farsi
[13] Cfr. l’ impostazione neo-radicale, che è un po’ oggi, purtroppo, trasversale, nelle sinistre politiche e anche nella destra tecnocratica.
[14] Cfr. anche B. Ochino, Laberinti del libero arbitrio, a cura di M. Bracali, ed. Leo S. Olschki, Firenze 2004
[15] Cfr. ad esempio Esodo 23, 21 e Isaia 1, 2) il riferimento al peccato è verbalmente amplissimo, constando di oltre trenta etimi (ebraico – aramaici).
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