Il Quadernaccio (storia di un assassinio al Regio Liceo Ginnasio Jacopo Stellini)
Nando Ceschia, uomo probo e gerundio contratto da Ferdinando e Fernando, ovvero gerundivo, beninteso al caso ablativo, atto a comporre solenni perifrastiche passive, ambo modi verbali infinitivi, con alti e bassi di frequentazione reciproca è presente affettivamente nella mia vita da mezzo secolo abbondante, oddio come siamo signori in età, (eufemismo edulcorato). Frequentammo insieme, e con una venticinquina di altri eroici giovini e giovinette la squola che a Rivignano era chiamata “dai siòrs” [friul., in it. dei ricchi], proprio come me, figlio di Pietro operaio emigrante cavatore di pietra, cioè lo “Stellini”, il classico, nientemeno. Simone, ora ti chiamerai Kefàs, cioè Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa. Mi scusi, il gentil lettore, la citazione gesuana.
Nando ha creatività iconografico-narrativa degna di un genius loci antropologicamente complesso: è un centramerican-napoletan-furlano. Forse è questa varietà genomica che lo rende così com’è, ricco di un’ironia unica e un umorismo mai strafalcione, sempre richiedente un po’ di sana attività cognitiva, inaccessibile ai dimaio e ai salvini che imperversano.
Eccoti, mio paziente lettor, quel che mi ha inviato su un vero e proprio assassinio dell’intelligenza accaduto, appunto, più o meno mezzo secolo or è, proprio al nobile istituto citato, di cui vanto orgogliosa frequentazione, peraltro iterata dalla mia forte figliuola.
“L’idea, se proprio vogliamo azzardare un termine estremo, si era venuta imponendo quasi naturalmente, figlia di una condizione che poche congiunzioni astrali offrono agli studi, almeno in maniera così brillante. Mi trovavo, desolatamente e senza possibilità di remissione alcuna, in una gabbia di matti autentici. Da qualunque parte volgessi lo sguardo, coglievo anomale condense protoplasmatiche che dell’intelletto e del decoro sembravano fare orgogliosamente a meno. Le prime vertiginose minigonne che nulla lasciavano all’immaginazione di adolescenti strapieni di appetito (a costo della sospensione dalle lezioni), c’erano. L’assiro-pordenonese, figlio di un farmacista, che veniva a scuola vestito da Hitler con i regolari baffini a spazzola e la divisa, candidandosi a fare da mocjo Vileda dentro e fuori la classe, c’era. La valchiria dalle orecchie a salsiccia che scagliava il vocabolario Rocci contro il professore dottamente scurrile [difettando purtroppo nella mira], c’era. I templari dello spontaneismo duro e puro, che facevano singhiozzare mandrie di supplenti, accusandoli crudamente e marxianamente di “deviazionismo facocerista”, certo non mancavano all’appello. C’era pure il lanciatore di banane mature, l’atleta macho che aveva, oltre al bicipite ed al tricipide, anche l’eptacipite in zone francamente impensabili, la figlia del primario che aveva da molto tempo smarrito la retta via, la sesta misura davvero abbondante e l’interprete carnico della “S di sappa”. C’era poi il martire, tramortito dalla chiave della canonica che dopo il colpo in testa ricevuto dal bellicoso Don Annibale , balbettava frasi in sanscrito, e la collega Leonzia per la quale i gemelli Gentile e Marx, secondo fugaci letture del “Cirannini” non esprimevano pensieri filosofici granchè diversi da quelli del Pomponazzi. “Ma quando mai mi capiterà una fortuna del genere? – arrivai faticosamente ad abbozzare – Qui bisogna cogliere l’attimo, trovare un sistema che catturi tutto questo squilibrato caravan-serrail calamitandone le tracce preziose, combattendo la spinta normalizzatrice di un Potere che intendeva fare della Sezione F un’altra Verdun. Superando se possibile il primato della densità di morti per metro quadrato che la cittadina francese aveva tristemente conquistato nel 1916. In uno dei non rari momenti di pausa che mi venivano concessi dalle autorità del Regio istituto, il professor Cernecca, convinto che stessi intrattenendo con il collega Massimo Frizzi una discussione tanto accesa quanto di scarso profilo culturale, mi aveva spostato di banco, relegandomi a fianco dell’abbronzatissima Carmen, che fingeva di seguire rapita ed a bocca aperta la lezione, senza peraltro cogliere granchè dell’argomento in questione. Au contraire, sapendo che si trattava di matematica e desideroso di entrare a pieno nelle pieghe della materia, cominciai a contare gli elegantissimi nei che la non reticente collega mi permetteva di visionare. “Ceschia, la prego davvero, si accomodi in cortile sino alla fine della lezione”. Seguii naturalmente quell’invito non nuovo, secondo i dettami di una educazione spartanamente essenziale, giusto in tempo per assistere ad una partita di calcio di Roberto Peloi & Co. Nel disadorno quadrato al centro dell’edificio, sei ardimentosi, servendosi di un pallone da pallavolo [era questa una regola non scritta ma rispettata da tutti] segnavano uno sproposito di reti [anche grazie a dei portieri disattenti], ma nessuno teneva aggiornato il punteggio. “Eh no! – pensai – Così la tenzone ne esce falsata. Bisogna che qualcuno certifichi questi prodigi su un pezzo di carta”. Ecco… CHE QUALCUNO CERTIFICHI SU UN PEZZO DI CARTA. La cosa più semplice del mondo, come non averci pensato prima! Il pomeriggio mi recai in cartoleria e scelsi all’uopo un massiccio quadernone a quadretti con una copertina psichedelica originale, che ritenni, per marcato senso internazionalista, furoreggiasse assai nell’area sud del Congo belga. A lungo ponderai sull’incipit, convenendo alfine con me stesso che un piccolo madrigale potesse risultare calzante. “I tuoi occhi per sorridere, le tue labbra per baciare, il tuo alito per uccidere mosche e zanzare”, accompagnato dalla sfrontatezza “Chi può fare di meglio ne dia prova”. Lasciai allora il “quadernaccio” sotto il banco, per chiunque intendesse raccogliere il guanto della sfida. Per diversi mesi quella raccolta di fogli circolò liberamente in classe, raccogliendo i contributi di colleghi e colleghe. Allegri, colorati, sbracati, ironici, seri. Espressi attraverso collage, disegni, vignette, racconti, storie. I canti montani di Matèo la bagarele….”Cheste no je l’ore di bandonà l’amor” [di Alberto Francois]…”I viaggi interminabili degli scalpitanti eredi Purillo” [di Massimo Frizzi]… “Ci sono più curve a Grado oppure a Lignano? [di Enrico Barberi]. “Il potere magnetico dei mascellopidi come Mal dei Primitives, conta qualcosa in questa società, oppure no ?” [di Maila Gori]. “Diciamolo una buona volta: l’uomo in fondo è solo un bambulto [sintesi abbozzata tra adulto e bambino]” [di Daniela Zaninotto]. “La struggente saga del filo per tagliare la polenta” oppure “Alberto di Slobbovia è lavabile o illavabile?” [del sottoscritto]. Non mancavano le liriche poesie a ritmo spesso baciato di Pilo [Renato Pilutt]) che maldestramente cercavo di imitare con stralci che ritenevo pulsanti come “Son piccin, cornuto e bruno, ma mi mangio un panattone”, che ancora mi fa sanguinare il cuore dalla commozione. “Se il professore Cepparo vuol sapere da me qualcosa sulla cellula, potrei discettare sulla cellula politica” [di Claudio Giachin]. Seppure dosati, per comprensibili ragioni legate al segreto industriale, non mancavano neppure i contenuti scientifici e le ricerche applicate, sempre nobilmente volte a migliorare la condizione umana. Se la conferenza del polpaccio delle more fosse maggiore di quella delle bionde, o se un budino Elah al cioccolato, sottoposto ad intensa frittura diventasse maleodorante mucillagine prima o dopo il creme caramel. Il fluire rapito e vorticoso di questi tocchi, sul pentagramma del quadernaccio, non lasciava intuire che l’irruente sinfonia avrebbe avuto un esito brusco e drammatico. A metà dell’anno scolastico ’68-’69 la nostra classe [detta anche la Cayenna] si era trovata ad ospitare l’ennesimo girovago, figlio di un colonnello dei carabinieri trasferito ad Udine per ragioni di servizio. Il ragazzo, alto e parecchio azzimato, usava tenere la testa bene inclinata di lato, inforcare sempre i Ray-Ban da sole e fare sfoggio di una accattivante erre moscia che aveva finito per attirare un ingenuo angelo biondo delle prime sezioni [quelle dell’alta borghesia in regola col ruolino di marcia], proditoriamente ribattezzata VOSANNA. Alla giovane lo spilungone raccontava di incomparabili successi scolastici, soprattutto nelle materie più ostiche. Cosa pesantemente fastidiosa. Non solo perché era priva di fondamento, ma perché minava alla base il profilo complessivo di una comunità che aveva faticato non poco a conquistare una posizione diciamo francamente invidiabile. Lo spunto per ristabilire le giuste distanze da quell’eretico mi venne osservando una foto di John Mayall in concerto. La piega tra il pollice e l’indice, nell’impugnare un’armonica a bocca, quando opportunamente delimitata da un cerchietto di carta, rendeva un’immagine che a me sembrava del tutto simile a quella del volto di Enzino. Questa “intuizione” mi premurai di consegnarla al quadernaccio, con una esplicativa didascalia atta a caricare il misterioso fascino quel devastante segreto. Sarebbe bastato sollevare il cerchietto per capire subito che si trattava di una mano e non di un irriguardoso deretano. Ma Enzino non sollevò mai quel cerchietto, caricando così di furore la sua vacua superficialità. Dopo giorni di affanno e di disperate ricerche, la colorata combriccola della Sezione F apprese che il figlio del milite aveva scagliato il quadernaccio nella roggia che costeggia lo Stellini, cancellando con spegio una irripetibile opera d’arte, uno spazio conquistato alla libertà di espressione. La tentazione di menarlo come un tamburo [a rispetto di Fedro la pelle d’asino era assicurata] fu forte, ma subito sostituita dalla scelta matura di adottare un comportamento non muscolare ma razionale, responsabile. Andai dalla creatura bionda e pacatamente riprecisai, con oggettivi dettagli, il profilo scolastico del suo moroso. Non senza un certo schiamazzo, chiaramente avvertito nei corridoi dell’istituto sempre affollati di entusiastici perdigiorno, ipso facto Vosanna piantò lo spilungone assassino. Nel ricordo dei miei vecchi amici, il quadernaccio conserva un posto di privilegio, per la sua straordinaria unicità. Solo tra le sue pagine vissute ad esempio, si sarebbe potuta apprendere la differenza strutturale tra le strisce pedonali ed i biscotti Pavesini. Un vero peccato, perché la roggia non lo restituirà più alla nostra spensieratezza, alla nostra gioventù.”
Nando Ceschia
Mi sono accorto che Daniela Z., mi ha tolto il primato della crasi neologistica con “bambulto”, poiché io, solo un decennio fa, creai i termine “bambazza” per dire una bambina che non era più tal ma non ancora ragazza. [Era mia figlia Bea in crescita, sulla spiaggia di Alimini]. Di tal trattatello esiste traccia in questo mio sito, basta sul web digitar “La bambazza”.
Post correlati
0 Comments