La coscienza: “actum habitusque, quid humana conscientia est?”
“Avere una coscienza“, “avere coscienza di…”, “essere di coscienza“, sono tre frasi dal significato diverso: la prima ha un significato morale, legato alla scelta, al discernimento di principi etici dati (intendo una delle “etiche” possibili, da quella utilitarista, a quella culturalista, a quella del fine, dove il fine è l’uomo stesso, tra altre); la seconda ha un significato analogo a “essere consapevoli, consci di…”, cioè sapere quello che succede; la terza la potresti sentire, caro lettor del sabato, come un’apostrofe a te rivolta, sulle tracce di sant’Agostino, da pensatori come Descartes, Bergson, Husserl, Piaget e qualche altro, e significa una specie di identificazione del tuo “essere” con la tua coscienza.
Un paio d’anni fa fui addirittura invitato a parlare di questo argumentum così importante a Berceto, sull’Appennino parmense, al Primo festival nazionale della Coscienza. Fu bello. C’erano anche -in diverse conferenze- relatori come Boncinelli e Galimberti, e io. Umilmente. Di questo e di altre cose molti non si ricordano e mi trattano come fossi uno così, forse qualsiasi, su questi temi, ma è perché non sanno nulla. E tra loro annovero anche, purtroppo, imprenditori, dirigenti e gente che fa politica a tempo pieno. Si arrangino, ché io mi arrangio con il mio e con la gente che sa apprezzare i miei sforzi e quello che so e che posso fare, per me certamente, ma anche per gli altri.
Dire che la coscienza quasi corrisponde alla persona è una visione antropologica ben precisa, che valorizza questa misteriosa dimensione interiore, sulla quale già scrissi non poche volte, anche in questo sito. Qui desidero richiamare alcuni concetti, vista la confusione che si fa un po’ ovunque su questo tema. Amplierò dunque i concetti proposti nell’incipit.
Ricordo innanzitutto -semplicemente- le due accezioni principali delle neuroscienze e della psicologia contemporanee che, per gli statuti epistemologici delle quali scienze, si danno solitamente in due modi:
a) un’accezione di coscienza come sinonimo di consapevolezza-del-sé, cioè sapere di esser-ci (Heidegger), di essere a questo mondo e,
b) un’accezione di coscienza come “luogo” spirituale dove si discernono i principi morali di bene e di male.
Ciò detto, se sopra ho ricordato in un breve elenco i filosofi che fanno quasi coincidere la persona con la coscienza, richiamo anche altri “classici”, antropologi-filosofi ed eticisti della grande Tradizione mediterranea, cioè greco-latina e cristiana, da Aristotele a Kant, passando per Plotino, Tommaso d’Aquino, Locke, Hume, Berkeley, etc..
Nel titolo scrivo il quesito an conscientia (sit) actum vel habitus. Cercherò di chiarire che cosa l’etica insieme con l’antropologia filosofica classiche e moderne intendano per actum e per habitus, ovvero per consapevolezza di sé, principi comportamentali mantenuti nel tempo, virtù, valori, etc..
Per Platone la coscienza umana è essenzialmente conoscitiva legata integralmente alla dottrina delle Idee, cardine della sua filosofia. Leggiamo questo brano:
“Le Idee, infatti, oltre ad essere realtà ontologiche a sé stanti, immutabili ed eterne, che fungono da modello al Demiurgo per plasmare il mondo, ovvero forme con le quali è strutturata la realtà empirica, sono altresì presenti nella coscienza umana, come forme intellettuali, mediante le quali l’uomo comprende la dimensione sensibile dell’esistenza. La coscienza, quindi, nella dottrina platonica, corrisponde, sotto l’aspetto del mito, all’anima, la quale, avendo vissuto nell’Iperuranio, conserva in sé il ricordo delle Idee. Da ciò, scaturisce la concezione platonica della conoscenza innata, proprio perché già presente nell’anima e, quindi, nella coscienza di ogni essere umano (Fedone, Critone, Repubblica). Anche Aristotele identifica la coscienza con l’anima ma, a differenza di Platone, non strettamente nell’ambito della conoscenza, quanto piuttosto riguardo al concetto di tempo. Il filosofo di Stagira indaga sul rapporto tra il tempo e il movimento per far assumere ai due concetti una connotazione concreta. Il movimento è nel tempo e il tempo non può esistere senza movimento. Per Aristotele, infatti, il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi”, intendendo per numero la funzione del contare, che non è possibile senza avere coscienza della successione numerica. Dato che l’esistenza del tempo è empiricamente ovvia e chiaramente riscontrabile, la sua percezione è un fatto di coscienza. Per coscienza, dunque, Aristotele intende l’anima, unico ente in grado di determinare un prima e un poi in relazione alla vita del singolo individuo (Fisica, De Anima).”
Plotino, di contro, ritiene che nella coscienza si manifestino le verità più alte e la loro stessa fonte, cioè Dio. Come Agostino che scrive nel trattato De vera Religione: “Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas“, vale a dire torna in te stesso, poiché nella tua coscienza abita la verità”, Plotino parla di “ritorno a se stesso”, “ritorno alla interiorità”, “riflessione su di sé”. In questo modo Plotino mette al centro la riflessione introspettiva, contro un privilegiare la mera conoscenza delle cose esterne (Enneadi).
Il Cristianesimo, da San Paolo e dai Padri della Chiesa, il concetto di coscienza viene ricondotto a quello di morale. Si pensi all’uso comune del sintagma “voce della coscienza”, che parla quasi a suggerire le cose buone da fare e le cattive da evitare, come in latino si dice: “bonum faciendum, malum vitandum“. In sant’Agostino, correlata alla frase sopra riportata troviamo un altro concetto ad essa coerente: la coscienza dunque è Mens superior inhaerens Deo, cioè mente superiore insita in Dio, poiché Dio è per l’uomo Essere e Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. Ciò che Dio rivela, in quanto rivelato-da-Lui, non può essere falso, ma necessariamente è vero, e sulla verità delle cose illumina la mente-anima umana. Quanto di psicologico moderno in questa visione! (cf. Confessiones, De vera religione).
Anche fra’ Tommaso d’Aquino intende la coscienza sempre ed esclusivamente come coscienza morale. La sua stessa definizione (“scienza con l’altro”), spiega come l’agire umano buono, cioè la recta ratio agibilium, l’agire buono secondo ragione, fosse diverso dall’agire recta ratio factibilium, cioè un agire purchessia. Per Tommaso le azioni dell’uomo erano cosa diversa dalle azioni umane, poiché le seconde hanno una struttura morale di rispetto del fine dell’agire, che è il benessere fisico e spirituale (oggi diremmo psichico, ma basta intendersi, se è vero com’è vero che psychè in greco antico significa anima) dell’uomo stesso, mentre le prime appartengono all’uomo (sono dell’uomo) come semplice complemento di specificazione. La coscienza è dunque atto della persona che liberamente si muove nel mondo e nella sua vita propria, stando tra gli altri. La legge cui si riferisce, agendo, è la sinderesi, cioè un habitus che contiene la legge morale naturale. (cf. Summa Theologiae I e II secundae, e De Veritate). San Tommaso quindi afferma che la coscienza è atto nella singolarità dell’azione, ed è “abito“, cioè abitudine, virtù, principio, valore, nella adesione alla legge morale che la natura e Dio stesso ha instillato nel cuore dell’uomo.
La rivoluzione filosofica moderna, iniziata con Renè Descartes, porta la riflessione sulla coscienza dall’ambito strettamente teologico-morale, a quello delle dottrine cognitive e gnoseologiche. L’uomo, per Cartesio, innanzitutto possiede la capacità di ragionare, e la consapevolezza di possedere nella mente i propri contenuti mentali. La coscienza, dunque, è la consapevolezza soggettiva di sentire e ragionare, perché il pensare implica il sapere di stare pensando. Nella mente cosciente esistono le idee di cui si ha coscienza, idee che possono anche non corrispondere alla verità delle cose. Una sola è certamente, indefettibilmente e indubitabilmente vera, il sapere di stare pensando e quindi da ciò dedurre di essere un essere pensante: cogito ergo sum. San Tommaso avrebbe risposto rovesciando la frase così: sum ergo cogito, sono e perciò penso.
Partire dal cogito significa un pensare ciò che può essere… pensato. Il pensiero è sempre pensiero di qualcosa. Quando si risponde alla domanda “A che cosa pensi?” e si risponde “a nulla“, si dà una risposta errata, poiché il “nulla” è qualcosa, in logica, cioè un qualcosa che non si può definire se non in quel modo. Perfino Dio, nella teologia apofatica, può essere definito come “nulla”, in quanto la nozione del divino è inesprimibile. Si pensi alle tradizioni mistiche ebraiche, cristiane e musulmane.
Per Descartes la res cogitans, è nettamente distinta dal corpo, la res extensa, mentre per Gottfried Leibniz vi è una unità di coscienza e conoscenza nell’uomo, chiamata appercezione, che è è il fondamento ultimo della coscienza e dell’io (cf. Monadologia).
In tema l’empirismo inglese, con John Locke propose una nozione della coscienza come la percezione di ciò che passa nella mente di un uomo, o meglio, le sue idee. La coscienza, quindi, è l’io che possiede e sviluppa tutte le attività mentali (Saggio sull’intelletto umano). Il vescovo George Berkeley fu ancora più radicale di Locke, poiché era convinto che l’esistenza stessa delle cose si commisura solo in quanto queste sono percepite come esistenti (esse est percipi), ovvero se e quando si ha coscienza della loro esistenza: per questo pensatore purissimo idealista, le cose, le res extensae cartesiane sono solo proiezioni mentali senza importanza, mentre le sensazioni di esse sono la… verità.
Circa il tema della coscienza, un giorno alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, mentre passeggiavo nel chiostro del Convento di san Domenico, che è sepolto nella Basilica, ebbi un’incertezza quando il filosofo domenicano padre Giovanni Bertuzzi, ex abrupto, mi chiese se, secondo me, la coscienza fosse un “atto” o un “abito” (habitus). Rimasi incerto per un attimo e risposi “atto”, ma poi ci pensai ancora. Un tentativo di risposta, caro lettore, la trovi in questo brano.
Raccomando a chi mi legge, di ascoltare la voce della coscienza più di quella della convenienza personale, specialmente quando si è chiamati a decidere sulla vita degli altri, perché spesso, osservo, vince nel processo decisionale, che è complesso -di suo- una pericolosa frettolosità, che è figlia della superficialità e madre dell’ingiustizia.
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