Il vento (lo spirito) soffia dove vuole
Giovanni 3, 8: “Il vento soffia dove vuole” sono parole misteriose dette da Gesù al fariseo Nicodemo, durante un colloquio durato probabilmente tutta la notte.
E’ forse lo spirito un po’ come il virus, che colpisce a casaccio? No, certo, e non per timore di essere blasfemi. Pare che il Covid-19 colpisca soprattutto “vecchi” e di già “malati”. Cosa significa oggi essere vecchi? Non certo la stessa cosa di solo mezzo secolo fa, quando se vedevo un collega di mio padre, a sua volta cinquantenne, mi sembrava vecchio. E io che di anni ne ho qualcuno più di cinquanta, mi dicono che non sembro, né sono vecchio, perfino le amiche di mia figlia, che hanno poco più di vent’anni e poi donne di trentacinque/ quaranta/ cinquanta anni. E nonostante la bestia che mi è venuta a trovare due anni e mezzo fa e che io, per il momento, ho fatto accomodare fuori stanza.
“Il vento soffia…” Grazie a Dio, E non cessa di soffiare, non si ferma, nonostante il comportamento degli umani sia spesso improvvido e scellerato.
Nella tradizione cristiana Dio è “Amore-creativo”, ovvero “Creatore”, e ciò potrebbe sembrare un termine sentimentaloide o sdolcinato, dove prevale la re-lazione. In altri loci e molte volte ho ricordato come “Dio” sia di difficile se non impossibile definizione. L’ineffabilità del dire-di-Dio è nota e studiata, e meditata, e pregata dal grande misticismo cristiano, islamico, buddista. A Meister Echkart pareva normale chiedersi come l’uomo potrebbe dire di comprendere Dio con le stesse facoltà che usa per comprendere se stesso e il mondo.
Come nella vicenda del profeta Elia, si può udire la voce di Dio (IRe 19), senza capire da dove provenga. Quello che si può comprendere è che Egli soffi, cioè sia dove vuole. A volte appare lontanissimo, e invece è lì vicino a te; a volte dubiti della Sua Essenza/ Presenza, e Lui si manifesta con forza, anche se silenziosamente. Basta che si rifletta un poco e si deve ammettere che non latita, poiché la sua attiva presenza appare nella tua vita con un atto di salvezza (quando scivolai per cinquecento metri sulla neve del Coglians e riuscii a frenare a trenta metri dal baratro, oppure nella vicenda sopra citata, oppure quando mi lasciarono aperta un’arteriola che sboccava sangue rosso, nella notte…). E ad Auschwitz, dov’era? E’ la parte inconoscibile dell’economia di Dio, perché il nostro sguardo è limitato, non abbiamo una visibilità sufficiente per dire qualcosa.
Ora, con questa perniciosa influenza, la domanda ritorna. Si potrebbe allora dire che il soffio dello Spirito sta nel sacrificio dei molti che si occupano a soccorrere chi si ammala, nei loro silenzi, nel loro sudore, nel loro anonimato. La voce, in greco si dice phoné, significa sia parola sia azione, è una idea/ azione, un agire razionale e responsabile che vince sugli egoismi e mette al centro la vita di ciascuno e di tutti, ponendo la sordina al resto, e istruendoci sul fatto che “il resto” contava abbastanza poco, e forse – in qualche caso – proprio nulla. Nulla.
Questo Dio-che-parla attraverso il silenzio e l’agire quotidiano… in silenzio, è più espressivo del dio-liturgico delle messe per abitudine e delle preghiere per attrizione: “Mi pento e mi dolgo, oh mio Dio, perché ho paura dell’inferno, non per averti offeso, offendendo il mio prossimo“. Ecco che la vicenda Covid si fa “teologia del silenzio” attivo e generoso.
Le religioni sono il contorno dell’amore divino/ umano che agisce nei momenti topici, come questo, dove nell’agire si comprende ciò che si deve fare, superando i contrasti e l’egoismo individuale. Siamo chiamati ad agire, nel nostro piccolo, come Abramo, che fu chiamato (gli fu ordinato) ad andare da Ur dei Caldei fino a… non lo seppe mai prima, perché morì durante il lungo, diuturno viaggio, durante il quale gli fu dato Isacco. Gli fu dato da una voce che proveniva da dove? Era forse la voce che avrebbe dato inizio alla storia del popolo ebreo?
Studiando i dati riferiti a quel tempo troviamo che vi è una corrispondenza filologica dei termini “Habiru” ed “Ebreo”, e l’esistenza di dati archeologici che confermano e attestano la presenza degli Habiru nella Mesopotamia meridionale nel II millennio a.C. Abramo (Genesi 11, 31), secondo diversi studi, era un Arameo o un Amorrita, un Habiru insomma, capostipite di un clan dal quale si originò la nazione ebrea, che aveva vissuto a Ur, e da qui era partito verso nord, prima in Siria poi in Palestina, verso il 2000 a.C. L’anacronismo contenuto nella Bibbia è facilmente spiegabile, se si pensa che nel II millennio Ur era una città sumera soggetta al potere della Dinastia elamita di Larsa. Solo verso il 1100 a.C. i Caldei, le genti di Khaldu, fanno la loro comparsa in Mesopotamia e la battezzarono Chaldea. I cronisti ebrei attribuirono alla città il nome che essi conoscevano, a loro contemporaneo e l’anacronismo ha quindi una valenza positiva: colloca definitivamente la Ur biblica, luogo natale di Abramo, nel sud della Mesopotamia, che un millennio dopo fu il territorio chiamato storicamente Chaldea. Lo Spirito / Vento divino, ha spinto Abramo verso la Palestina, verso Canaan, così come oggi sta silente accanto a ognuno di noi, se lo vuol stare a “sentire”. Non basta “ascoltare”, mai, così come non basta “guardare”, ché occorre “vedere”.
Possiamo dire che anche le nostre vite sono come il vento, forti, inarrestabili e anche fragili. Passiamo attraverso rami robusti d’albero e fra tronchi centenari, ma scivoliamo via come le foglie (Si sta come d’autunno…, canta il poeta).
Lo Spirito pone la radicale questione del poter-esser questo o quello, qui o là, insieme o da soli. La solitudine suggerita dalle norme odierne non è “solitudine”, ma solitarietà consapevole, nella quale si possono trovare (si debbono, dove il verbo “dovere” è kantiano) le ragioni di un senso ispirato dallo Spirito, che soffia dove vuole e dove necessita.
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