Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il “terzo paradigma” per una nuova vita

Continuo il pezzo precedente approfondendo, come oggi può essere possibile, per me.

Epidemie nel Medioevo

La grande storia racconta, tra battaglie, vittorie e sconfitte, tra conquiste e perdite, tra guerra e politica, economia e carestie, anche di epidemie, malattie, dolore e morte. Racconta di speranza e disperazione, di religiosità e fanatismo, di indifferenza e passione.

Peste, fame e guerra, a peste, fame et bello… libera nos, Domine, come recita l’antico tropo liturgico recitato nelle Rogazioni per i campi e i crocicchi delle grandi pianure o per i viottoli di montagna, per scongiurare le disgrazie, è un’invocazione tornata prepotentemente tra noi, non sappiamo ancora se del tutto fondatamente o se… null’altro dico, per ora.

Fino a una quarantina di anni fa, soprattutto nei borghi e nei villaggi, anch’io vi partecipavo da chierichetto, poiché era costume liturgico pre-pasquale, accompagnare il parroco (a Rivignano, antico prediale romano augusteo “Rivinius”, dal nome di un centurione veterano del princeps Ottaviano Augusto), o “prevosto” (dal titolo di origine militare di “preposito”) che cantava le Litanie dei Santi intervallate da quella invocazione, anche come vero e proprio scongiuro.

A me piaceva molto, perché dopo il lungo itinerario che partiva dal Duomo e si portava per le varie “braide” del paese per un’ora e mezza, nel frescolino di marzo o aprile (ciò dipendeva se la Pasqua fosse stata “alta” o “bassa”, e il mio gentil lettore sa che Pasqua, secondo la tradizione post-quattuordecimana, vale a dire da millesettecento anni, in ambito cristiano, cade la prima domenica dopo l’equinozio di primavera), ci si fermava in canonica dove don Aurelio ci faceva far colazione, due uova preparate da sua sorella, la “perpetua”, e pane fresco di forno.

Ora non ci sono più le Rogazioni, dette in latino, quando si camminava per le stradine interpoderali costeggiate da verdissimi boschetti di ripa, tra rogge iridescenti e fino al fiume Stella, a volte, con passo lento, ma deciso. Non ci sono più molte cose di un tempo. Ve ne sono altre, di negative e anche molte non negative.

Non è vero che oggi è peggio di un tempo, ma è vero il contrario. Ma soprattutto sotto il profilo materiale: sotto quello civile e morale, invece, il discorso è diverso. Diversi fatti accaduti negli ultimi tre o quattro decenni, soprattutto una globalizzazione disordinata e violenta, una finanziarizzazione dell’economia devastante, una velocizzazione delle azioni umane sempre più frenetica, una comunicazione in tempo reale, ma spessissimo inaffidabile, perché privata (a volte colpevolmente priva) delle fonti necessarie per attestarla nella sua veridicità o meno, una politica di disinvestimento nei servizi pubblici, sanità in testa, a favore del privato.

Ecco: è questo il “terreno” su cui il “terzo paradigma” figlio di Sars-Cov 2 o Covid-19 può agire, certamente come “eterogenesi del fine”, posto che a un virus possa attribuirsi un… fine. E’ chiaro che qui ragiono per paradosso, ma i paradossi, come insegna la logica classica, sono utili, a volte indispensabili.

Che cosa si sta imparando da questa drammatica vicenda? Innanzitutto si tratterà di capire, quando la drammaticità sarà diventata un “ambiente” spirituale e psichico controllabile, quanto sia stato razionale il modo con il quale il problema pandemia sia stato affrontato nel mondo e in Italia, in particolare, e quale eventualmente sia stato il ruolo di chi da una situazione come questa può aver pensato di trarre, ove non abbia effettivamente tratto, vantaggi economici e finanziari, politici e di mero potere: in altre parole, se e quanto questa vicenda sia dipesa, se non da precise volontà “untorali”, magari da cinici calcoli di convenienza. Per ora non me la sento di dire altro.

Ebbene: come ne usciremo, nel corpo e nello spirito? Avremo capito che, oltre all’innovazione di tutto, caratterizzata da una irrefrenabile frenesia, altro di importante c’è, di più importante, nella vita che ci è data? Che vale la pena di mettere al centro la vita umana nei fatti, non solo nelle auliche e retoriche dichiarazioni di principio, noiosamente ribadite da tutti, dico tutti, i politici?

Mi sento di sperare che questo accada, non senza contraddizioni, certo, ma con una progressione buona. Ora, caro lettore, ricordo un fatto, una condizione, che ho già citato in un pezzo precedente: per me la situazione attuale, in realtà, non ha cambiato molto la mia solita vita, storicamente sobria, esistenzialmente selettiva, non nel senso esclusivo, ma in quello qualitativo. Ho sempre cercato di non buttare via il tempo, bensì di qualificarlo, di rispettarlo, inchinandomi – quasi – davanti al dono immenso di esser-ci (proprio nel senso heideggeriano del termine): l’obbligo di starcene a casa, questo è il punto, non mi ha cambiato molto la vita. Per certi aspetti, lo confesso, ha facilitato alcune mie tendenze alla “solitarietà” che, lo riscrivo, non è misantropia, aristocraticismo, o ricerca della solitudine per superbia, ma ricerca del mio sé in quel silenzio che a volte la compagnia mi nega.

Quando sento qualcuno che loda lo stare-in-compagnia, purchessia e qualsiasi sia, mi inquieto e zittisco. Il mio stile di vita ovviamente non pretendo sia condiviso, ma è il mio. Forse farebbe bene pensare a questo modello, a molti.

Pensare, ascoltare, riflettere, a volte da soli e a volte con gli altri in un nuovo equilibrio: forse questo sarà il terzo paradigma.

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