Strade del Nord o il racconto di Pietro, il viandante
(In vista di questa Pasqua, a trent’anni dalla sua morte, ricordo mio papà Pietro con questo racconto, che pubblicai anni fa ne La terra del confine)
Stavano ormai crescendo i due figli di Piêri e Gigie e una mattina di novembre, molto presto, alla fine di una nottata insonne, Piêri disse: “Tocca prendere una decisione, non si può andar avanti così. Devo partire“.
“Ho sentito che prendono su in miniera e in cava di pietra in Belgio e in Germania. Cosa ne pensi? “Come al solito, sua moglie pensò a lungo prima di rispondere e poi disse: “Viȏt tù” (Friulano: vedi tu).
Lui aveva una quarantina d’anni, lei poco più di trenta, si erano sposati da sei o sette e finora avevano sbarcato il lunario come tante famiglie (quasi tutte) del popolo del confine, mettendo vicino un po’ di salario, un po’ di orto e un po’ di servitù a ore.
Piêri aveva deciso per il Belgio. Preparò le carte e venne il giorno della visita medica di idoneità in una città grande, a duecento chilometri, fu un viaggio di due giorni. Piêri, nonostante fosse nel “flȏr da l’òn” (Friulano: fiore dell’uomo, cioè un uomo al suo massimo di forza) e molto robusto, fu scartato per una varice al polpaccio destro.
Centotrenta degli emigrati prescelti per quella miniera sarebbero morti per uno scoppio di grisoù a Marcinelle pochi mesi dopo.
Andò in Germania, in una piccola località dell’Assia, in cava di pietra. Vi andò per undici stagioni, da marzo a novembre, ma guadagnava tre volte tanto che qui in Italia. D’inverno continuava a far legna. Era riuscito in un paio d’anni a pagare tutti i debiti e a cominciare a mettere a posto la vecchia casa, a partire dal tetto.
La Germania era per lui la terra del riscatto, ma di una fatica indicibile. Lavorava a cottimo e produceva il massimo, trovando pure il tempo e la forza di dare una mano, di domenica, agli operai-contadini del posto, dove si tratteneva per il pranzo in famiglia. Dopo il secondo anno era stato incaricato di reclutare altri uomini e giovanotti della terra del confine e l’aveva fatto con scrupolo e attenzione. Lo fece per sei stagioni, organizzando il viaggio via via per trenta, cinquanta, novanta persone. A un certo punto, il primo marzo, dalla piazza del paese, partivano due pullman granturismo, destinazione quella piccola località fra le fitte abetaie chiamata Ramholtz. In Germania dormivano in baracche di legno come quelle di Dachau, e veniva tanta neve. Facevano le corvèe in cucina e per le pulizie. Vi erano ragazzi di vent’anni, che facevano tardi la sera nelle birrerie con le ragazze, e uomini fatti, anche più anziani di Piêri e con figli grandi.
Una sera un ragazzo non tornò. Lo cercarono, finché la polizia mandamentale li indirizzò all’obitorio dell’ospedale. Si era schiantato sotto un autocarro con due ragazze del posto. Doveva ancora compiere vent’anni e la macchina l’aveva comprata di seconda mano con le prime tre paghe. Glielo aveva detto più volte Piêri, di non correre, quando lo vedeva partire a tutto gas dai piazzali e lo osservava sollevare polvere sulla strada che con sette tornanti scendeva al paese. Il dolore fu grande tra i compagni di lavoro. Piêri, con altri due accompagnò il feretro in Italia, fin nel piccolo cimitero del paese. Salutò la Gigie e i due piccoli, e ripartì. Era ancora piena estate.
Lui aveva un profondo senso del dovere, non gli occorreva scrivere per sentirsi impegnato; aveva spesso spiegato al capoccia tedesco, ex ufficiale della Wehrmacht che era stato per due anni in Italia con Kesselring, che lui sarebbe venuto al lavoro anche senza contratto, Fu per questo suo modo di essere che quando scoppiò lo sciopero, improvviso, incontrollato, lui si sentì tradito. Era da tempo che sentiva mugugnare i compagni meno forti, quelli che raggiungevano solo i cottimi più bassi, li sentiva dire che bisognava chiedere un aumento del venti per cento per ogni carrello caricato. Piêri aveva raccomandato di pazientare ancora per quella stagione, ché ne avrebbe parlato in dicembre prima di tornare a casa, per aver l’aumento nel nuovo contratto.
A nulla valsero questi suoi impegni. Un lunedì mattina, lui che andava alla cava prima di tutti, alle sette, non vide arrivare nessuno. Aspettò le sette e mezza, poi le otto. Poi chiese all’assistente cosa fosse successo. La baracca distava dal cantiere quattro o cinquecento metri e non dava segni di vita. Pareva tutto addormentato e che la gente se ne fosse andata via. L’assistente gli rispose in modo evasivo e Piêri chiese il permesso di verificare di persona. Li trovò, tutti e cinquanta nella sala grande che fungeva da dopolavoro, in piedi, silenziosi. Chiese cosa fosse successo e uno di loro, già eletto portavoce gli rispose “sapevamo di dover rendere conto a te di questo sciopero. Abbiamo deciso tutto stamattina, e non riprendiamo il lavoro se non ci viene promesso l’aumento per iscritto. Un aumento del venti per cento”. Piêri sulle prime non rispose, rifletté qualche secondo, poi parlò con calma, anche se dentro di sé avvampava: “vi ho promesso che discuteremo e avremo l’aumento per la prossima stagione; per questa, ancora due mesi ci sono, teniamo duro così e andiamo a lavorare”.
Non ci fu una vera discussione. Qualcun’altro intervenne per dire che non accettava la proposta di aspettare. Dopo un quarto d’ora, vista l’irremovibilità dei compagni, Piêri non insistette, chiese di vedere il capocantiere per avvertirlo, poiché si sentiva responsabile di averli portati in Germania. Fu convocato subito e si trovò di fronte i due capi locali, quello produttivo e quello amministrativo, che avevano in linea al telefono il direttore centrale della ditta. Herr Sprueger gli disse seccamente: “gli italiani, come al solito, non mantengono i patti, possono andarsene tutti a casa subito. Saranno pagati fino a oggi, ma non torneranno più. Lei, se vuole, può restare”. Piêri rispose di no, disse solo che se ne tornava a casa anche lui con i connazionali. I capi della ditta lo salutarono con freddezza anche se gli dissero “aufwiederséhen”. Il fatto fu la cesura decisiva della vita di Piêri. Aveva quarantacinque anni, era fisicamente a posto e aveva una gran voglia di lavorare. Onorevolmente, sulla parola data.
Quello sciopero gli spezzò qualcosa dentro. Si sentiva responsabile perché li aveva contattati e, si può dire, scelti tutti lui. L’avevano ingannato. Sentiva quello sciopero come un tradimento della fiducia che lui aveva riposto in loro. Piêri aveva aderito ancora a scioperi, in Italia, ma quello lì, in emigrazione, loro non lo dovevano fare. E poi c’era il senso della dignità, dell’onore di italiano all’estero che andava a farsi friggere. C’era la vergogna. Aveva pur fatto lui stesso una proposta ragionevole. Non l’avevano accettata.
Tornò a casa e non fu più lui. Non fu più lo stesso marito, lo stesso padre. Lo curarono come poterono in quegli anni. Stette un anno in malattia. Poi tornò al nord, in un’altra cava di pietra della stessa ditta. Con lui partirono altri uomini della terra del confine. I tedeschi gli avevano comunque detto di cercare della gente.
Restò in emigrazione altre sei stagioni e poi tornò per sempre. Il suo tempo era passato nel lavoro, fuori da ogni malizia, pulito più di un bambino. Aveva visto crescere i figli con alterna fortuna. Lo conoscevano tutti. Nessuno poteva dire di aver litigato con lui. Mancò, senza aver “disturbato” molto, una sera di settembre.
Quella sera il profilo delle alte montagne fu accarezzato da un vento leggero che andava verso nord.
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Questo è un racconto che illustra quello che accadde in molte famiglie del nostro Friuli, in un periodo in cui questa terra non riusciva a dare il necessario ai suoi figli. E così, via: Germania, Francia, Lussemburgo, Canada,….. . Quanti nuovi territori, quanta sofferenza, quanta alienazione e separazione nella speranza di una Pasqua di risurrezione economica e sociale. Ma mi cade la curiosità sul “Viòt tù” di Gigie. Forse detto seduta al tavolo della cucina sotto una luce fioca, le mani appoggiate sulle ginocchia, lo sguardo abbassato. Pieri di fronte a lei. Il “Viòt tù” è un comunicare breve, potente, diretto. Gigie si affida alla volontà di Pieri, sà che lo fa per il bene della famiglia. Il costo emotivo, umano, psicologico sarà altissimo, ma lei è pronta. Soffrirà nell’attesa della rimessa estera e sarà costretta ad andare a comprare un uovo di zucchero, due uova di riso,…. . Con l’equivalenza matematica correlata alla generosità di quel giorno delle galline che razzolavano nel “curtil”.
Buona Pasqua
Caro Franco, anche tu hai respirato gli stessi climi in quegli anni! Anche i tuoi hanno vissuto vicende che echeggiano quelle che ho raccontato. Ne avevamo già parlato nel tempo, condividendo quei sentimenti. E’ importante per noi non dimenticare, ma ancora più importante recuperare queste memorie per i nostri figli, che hanno avuto una vita più facile dei nonni, e anche dei padri e madri, cioè delle nostre, caro Franco. Grazie, un abbraccio, amico mio!
Renato
Questa vicenda mi fa pensare che nella vita ci vuole un po’ di fortuna, che è sempre valido il detto “aiutati che Dio t’aiuta” , che senza sacrificio non si ottiene nulla e che l’onestà morale è vitale.
Cara Eliana, la “fortuna”, la greca tyche, o il fatum latino, necessitano dell’impegno quotidiano, perseverante di ognuno di noi, il mio, il tuo, quello dei tuoi Ermanno, Matilde e Lorenzo…, che tu spieghi bene, anche se in un altro modo rispetto al mio, ma altrettanto efficace, mandi