Il mio “Sessantotto”
Nando, o Ferdinando Ceschia è mio amico da oltre mezzo secolo. Frequentammo assieme il nobile Regio Liceo ginnasio Jacopo Stellini di Udine, scuola magnifica, che ci ha lasciato un ricordo, ma soprattutto un retaggio formativo e culturale incommensurabile. Pubblico questo suo racconto su quegli anni, “formidabili” come scrisse qualcuno, ma soprattutto indimenticabili, tali da farci ritenere di essere stati dei privilegiati, rispetto a prima e anche a dopo. I nostri ricordi sono parte di ciò che siamo diventati.
Negli anni sperimentammo altre esperienze in comune, come quando fummo, in tempi diversi, Segretari generali di un Sindacato forse un po’ strano ma libertario, nel quale ci succedemmo l’un l’altro.
Un suo pezzo…
“Ero con Enrico e Claudio nella sede udinese del “movimento studentesco” in Via Anton Lazzaro Moro. Trenta metri quadri arrendevolmente disadorni, ma nel cuore di Borgo Villalta, quello che era allora il quartiere più proletario di Udine. Dopo un anno di nomadismo cospirativo nelle salette dei bar, ci pareva una conquista di cui andare abbastanza orgogliosi. Intendevamo discutere di come tenere accesa la tradizione asimmetrica della Sezione F, l’ultima e la più raccogliticcia del Liceo Stellini, affidata ad un gruppo di professori di sana e robusta tradizione antidemocratica. Quel giorno non ci fu tempo per farlo, perché il gruppo friulano degli studenti dell’Università di Trento (quelli scafati e già leader) comunicò asciuttamente, a noi studenti medi : “Da domani ci chiameremo Lotta Continua”. Una scelta (era l’autunno del’69) che accettammo subito, senza riserve, come naturale e matura (“Ce n’est qu’un début, continuons le combat”…), in linea con il radicamento politico/ideologico tutto italiano del fenomeno “Sessantotto”.
Un fenomeno che ha cambiato profondamente i miei gusti, la mia vita personale, familiare e lavorativa attraverso scelte, valori e pratiche che vivo ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, come un nucleo formativo fondante, come il sapore di una originalità assoluta che ho avuto la fortuna ed il privilegio di cogliere.
Nessuna esaltazione enfatica nel ricondurre questa considerazione ad una oggettiva evidenza: il decennio di movimenti spontanei di opposizione al sistema, in Italia, ha registrato una complessità, una estensione sociale, e soprattutto una capacità interattiva straordinarie, ben più marcate che negli Stati Uniti, in Francia, in Germania od in Polonia. A settori ampi di classe operaia, si affiancarono aree del ceto medio (studenti, impiegati, tecnici, intellettuali, professionisti), segmenti sociali marginali (sottoproletari, disoccupati, carcerati), quote di rami dello Stato (magistrati, poliziotti, soldati di leva e di carriera) e movimenti di gruppi minoritari (minoranze etniche e linguistiche, religiose, sessuali). Nessun’altra nazione è in grado di esibire questa gamma e soprattutto questa rete di “contaminazioni”. Con la loro spontaneità, la loro irruenza, il loro entusiasmo gli studenti contagiarono la classe operaia, proponendo nuovi modelli di riferimento, sul piano dei contenuti come su quello della organizzazione delle forme di partecipazione. Le femministe non rimasero, come altrove, isolate in piccoli nuclei di avanguardia, ma influenzarono il movimento studentesco, influenzarono la politica ed i suoi equilibri. I soldati riportarono nelle caserme il vento dell’assemblearismo studentesco e della rivendicazione dei diritti, ed a loro volta influenzarono il movimento dei sottufficiali, i nuclei iniziali del sindacato interno di polizia e così via.
Anche sul versante delle culture politiche i contatti, le osmosi, gli scambi, furono frequenti e molto significativi. Marxisti, anarchici, cattolici, radicali, pur secondo impronte spesso esasperatamente gelose delle proprie peculiarità, entrarono a far parte di una pandemia a rapidissima diffusione, che coinvolse e non lasciò nulla di immutato.
Basterebbe un semplice raffronto tra il “prima” ed il “dopo”, per comprendere la portata e la qualità dei cambiamenti intervenuti per effetto dell’irrompere del “Sessantotto”.
Il mio percorso soggettivo (studente al Liceo Jacopo Stellini, poi Movimento Studentesco, quindi militante di Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria), mi suggerisce di sottolineare due elementi connotativi specifici di questa realtà locale, due elementi sostanziali o forse soltanto due condizioni anomale:
- la massiccia presenza dell’esercito e delle conseguenti servitù militari, e
- la spinta popolare attorno alla richiesta di istituire l’Università a Udine, ricollegabile in buona parte ad un filone di cultura autonomista, tanto laico che clericale.
Nel “Sessantotto”, oltre 1/3 dell’esercito italiano era in Friuli, e nessuna delle sanguinose trame nere di quel periodo, a partire da quella di Piazza Fontana (“La strage di Stato” fu per la mia generazione una sorta di finestra sul baratro), mancò di coinvolgere le gerarchie militari in Friuli.
Tutto il fermento cresciuto nelle fabbriche, nelle università e nelle scuole del Paese, si ritrovava da noi, nelle caserme più sperdute, in grigioverde, a misurare la distanza tra un sogno di libertà ed una penosa ed inspiegabile costrizione. Quasi nessuno ricorda più che a Udine, centinaia di soldati in divisa, rischiando il carcere di Peschiera, sfilarono per le strade della città, chiedendo il rispetto dei diritti costituzionali, battendosi perchè ai giovani friulani colpiti dal terremoto del ’76 fosse riservato il servizio civile.
Ecco, è importante annotare che in Friuli, più di Bologna ’77, dei carri armati nella città felsinea, del pugno di ferro adoperato per liquidare tutta una generazione di contestatori e non solo le sue frange degenerate, quelle approdate alla lotta armata, sia stato proprio il terremoto, la capacità di reagire e lo sforzo per la ricostruzione delle aree disastrate che ne seguì, a segnare il confine tra la fine del “Sessantotto”, del “movimento” e l’inizio di un’altra fase, assai concreta, capace di impegnare i “figli del Maggio” in una sfida carica di significati collettivi stimolanti.
Porto ancora negli occhi, prima del ‘68, l’immagine di un fiume di giovani che canta, corre, si inginocchia e riparte. Che scandisce slogan per l’istituzione dell’Università a Udine, si stringe in fila e sorride, anticipando la convinzione che si può contestare il potere costituito, che si può essere protagonisti scendendo in piazza, alla luce del sole, mettendosi in primo piano. Rischiando.
Ho seguito spesso quest’ultimo spunto, pur conoscendo bene le composte valutazioni che si accompagnano a collaudate etichette di comodo come: ingenui, sognatori, guasconi… Eppure.
Ricordo benissimo di avere provato un brivido inquieto quando ho visto per la prima volta un autista in limousine accompagnare una ragazza ricca al terrapieno del MIO “Regio Liceo” (la scolarizzazione di massa aveva riempito il tempio di proletari irriguardosi e non soffrivo più di solitudine) ed ho partecipato volentieri alla occupazione dei suoi storici stanzoni. Ho vissuto l’espulsione da tutte le scuole d’Italia dei due amici e compagni di classe già citati, che stufi di essere repressi, di essere continuamente fatti oggetto di note sul registro e di sospensione dalle lezioni, avevano deciso fosse venuto il tempo di invertire i ruoli e di cominciare a vergare più fantasiose reprimende nei confronti degli insegnanti.
Ho distribuito volantini dei Proletari in Divisa, partecipato alle attività del Movimento Democratico dei Soldati, diretto la sede locale del “Circolo La Comune” di Dario Fo. Ho partecipato alla contestazione nella Facoltà di Medicina a Trieste nel ’70, cercando di capire le differenze ideologiche e comportamentali tra il Professor Quadrifoglio e lo studente Massimo B. . Ho sposato una femminista di AO, ed infine, dal ’77 sono stato sindacalista della ricostruzione post-terremoto. Io, io, io….coniugazioni in prima persona….solo per dire che il “Sessantotto” non è per me solo un ricordo lontano, più o meno nostalgico.
Mi è entrato dentro, mi scalda ancora, mi rallegra e non vuole finire in un cassetto. Testardo.”
(Ferdinando Ceschia)
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