Gregari e capi
Guardando nei giorni scorsi i trentamila tifosi dell’Inter in piazza Duomo a Milano festeggianti il 19o scudetto della gran squadra, mi è venuta per l’ennesima volta in mente la campana di Gauss, la geniale disposizione matematico-statistica che ha aiutato da un paio di secoli o quasi molti ricercatori a inquadrare gruppi e classificazioni di tutti i generi e specie.
Altri generi di gregari sono gli spettatori dei concerti, che si esaltano per il divo, e vivono letteralmente di luce riflessa. Gli esempi potrebbero continuare, di queste vite riflesse. Non cito anche questa volta (lo ho fatto in molti casi) il grande Gustave Le Bon e il suo Psicologia delle folle, nel quale ha spiegato come la massa umana, quando si compone, contemporaneamente contribuisce alla riduzione della soglia critica delle singole persone, e quindi all’aumento della… stupidità individuale. Il gregariato, negli esempi di cui sopra, è proprio l’ambiente ideale dello stupidario.
La parte centrale della cosiddetta gaussiana è solitamente la parte più ampia di tutta la simmetrica curva, nella quale sono solito collocare i più della cosiddetta gggente. I gregari: quelli che vivono di luce riflessa, quelli che hanno bisogno di tifare per qualcuno o per qualcosa, i militanti a-critici di bocca buona, quelli che stanno sempre dalla parte-di-chi-vince, gli aiutanti dei vincitori per partito preso, i gregari.
Mai stato gregario, caro il mio lettore, che ben mi conosci. Ho sempre cercato di vivere-rischiando-di-perdere, ma trainando la sorte, senza subirla, se possibile. Con un certo coraggio evitando la sicumera. Ovviamente, ognuno di noi è causa generante solo di una parte della propria vita, in quanto molti altri vettori causali o circostanze non dipendono da noi… I gregari, di contro, preferiscono di solito una vita tranquilla.
Anche i gregari, però, sono indispensabili: Alcuni esempi: quelli delle squadre di ciclismo, che “tirano” alla morte la fila dei corridori per favorire il loro capitano in corsa per la classifica generale, e a volte capita che diventino dei campioni loro stessi. Un esempio: quello di Paolo Bettini, che iniziò da gregario e in seguito diventò bicampeon do mundo e campione olimpico ad Atene nel 2004 nella corsa in linea.
Anche nel gioco del calcio vi sono calciatori considerati gregari, che sono la struttura portante della squadra. Luciano Ligabue ha dedicato a uno dei più grandi mediani italiani, Gabriele Oriali, una bella ballata. Senza tipi come Oriali, l’Italia di Enzo Bearzot forse non avrebbe vinto il mundial ispanico del 1982, quello della famosa partita a scopone in aereo fra il Presidente Pertini che giocava con Dino Zoff contro Bearzot in coppia con Franco Causio. Ricordo un altro grande gregario calcistico: Giovanni Lodetti era un mediano di enorme efficacia su cui si basava il geniale gioco di Gianni Rivera, ambedue i mediani vincitori di tutto. Oriali e Lodetti. Gregari per sempre, ma grandissimi. Potrei citare anche Giuseppe Furino della Juventus plurivittoriosa, Nobby Stiles della Nazionale inglese, lo spagnolo Xabi Alonso, il tedesco Bernd Schuster, e decine di altri, senza i quali, i Bobby Charlton, gli Andres Iniesta e i Karl-Heinz Rummenigge, fuoriclasse conclamati, non avrebbero portato a casa nulla delle loro grandi vittorie con le rispettive nazionali.
Ma nella vita ordinaria vi sono gregari? Ebbene, se intendiamo il gregario come un lavoratore che è consapevole dei propri limiti, ma è volenteroso, costante e onesto, costoro sono utili, anzi indispensabili come i cosiddetti capi carismatici, come i numero 10 del lavoro, come i leader. Senza queste figure, manager e leader non possono mandare avanti i loro progetti: perciò essi devono rispettare i “gregari”, considerandoli importanti quanto loro nell’economia organizzativa e gestionale. Quello che serve in una organizzazione, così come nella costruzione di una squadra sportiva vincente (si pensi all’Italia mondiale di Lippi del 2006, che poteva contare certamente su Totti e Del Piero, ma anche su Gattuso, altro formidabile esempio di gregario auspice di vittorie!), non è una raccolta di “fuoriclasse”, ma l’integrazione tra figure diverse, di livello cognitivo, culturale e professionale differente, connotate da aspettative esistenziali e professionali ancora di varie qualità. Questo serve a una organizzazione che vuole eccellere.
Epperò qui serve una considerazione indispensabile: i leader, se vogliono essere tali, non devono avere paura dei “potenziali”, non devono schiacciarli ed emarginarli temendo che questi posseggano anche più talento di loro stessi, e quindi possano legittimamente aspirare a sostituirli, poiché ciò sarebbe sintomo di debolezza e di una leadership timorosa e incerta, solida solo perché blindata. Non serve blindare il proprio talento, se c’è! Se invece è un talento protetto, allora qualcosa non va.
Chi veramente vale non tema la concorrenza! Altra cosa, l’ultima: ogni “capo” deve ricordare sempre la lezione di Qoèlet 3, laddove lo scrittore biblico, probabilmente un sapiente ellenistico di scuola cinico-scettica, ricorda che tutto passa, e che vi è un tempo per ogni cosa, in quanto la vita dell’uomo cammina dalla sua “a” alla sua “zeta”.
Transit gloria mundi, e anche il potere finisce, come è logico e giusto che sia.
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