Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La guerra e il racconto

I racconti di guerra sono un antico genere letterario, dai tempi degli storici greci Senofonte, Erodoto e Tucidide, e di quelli latini come Tito Livio, Svetonio, Giulio Cesare (che narrò le sue proprie imprese militari) e Tacito, per citare solo i maggiori e più studiati fin dal liceo. Mi viene qui solo da ricordare il grande romanzo di Lev Tolstoj Guerra e Pace, che ricorda il fallito tentativo di Napoleone di impadronirsi della Grande Madre Russia, come la chiamano da due secoli e oltre zaristi, sovietici, putiniani e cristiani ortodossi. La posizione del Patriarca Kirill si comprende (senza in alcun modo giustificarla) anche da questo aspetto storico-culturale.

Tralascio tutto ciò che sta in mezzo per duemila anni e vengo al XX secolo, quando, dopo le due Guerre mondiali, se ne raccontarono gli eventi e le sorti.

Per quanto attiene alle guerre successive, tutte sanguinosissime, tutte non dichiarate, tutte informali e asimmetriche, da quella di Corea negli anni ’50 a quella del Vietnam nel decennio successivo, a quelle africane, asiatiche e sudamericane, per finire con le invasioni in nazioni europee dell’Armata rossa negli anni ’50/ ’60, e gli interventi Usa e Nato in Afganistan (già attaccato precedentemente dall’Unione Sovietica) negli anni 2000, in Irak, in Siria e in Libia (dove si manifestò la tragica insipienza politico-militare di due leader come il francese Sarkozy e il presidente Obama), nei Balcani insanguinati nell’ultimo decennio del secondo millennio, vi è solo da dire che le guerre non hanno mai smesso di insanguinare il mondo. Per tacere di quelle dimenticate o mai poste con chiarezza e costanza sotto i riflettori dei media, come le guerre/ stragi del Ruanda, della Somalia, del Sudan o dello Yemen.

Ora, la domanda che mi faccio è: come viene raccontata questa guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, per volere di Putin e della sua cricca (uso un termine del periodo sovietico, non a caso)?

Sento in giro molte analisi raccogliticce e disinformate/ disinformanti chi ne sa ancora meno del parlante a vanvera.

Chi, dopo avere brevemente deplorato, quasi per un obbligo morale, l’attacco militare dei Russi all’Ucraina, sente il bisogno di affrettarsi a dire che… “comunque nel Donbass da molti anni i cittadini russi sono angariati dagli ucraini, etc.”, forse non ha la benché minima nozione di ciò che realmente sta accadendo, perché anche se fossero vere le angherie di cui si parla, non c’è proporzione alcuna con ciò che sta facendo la Russia putiniana in Ucraina.

E questo dovrebbe bastare per non usare i due piatti della bilancia con gli stessi pesi, o quasi. Io non riesco più a discutere con persone che hanno questa posizione.

Leggo e ascolto “titoli” di articoli e servizi noncuranti della precisione nel racconto dei fatti e soprattutto noncuranti dell’effetto psico-morale sulle menti delle persone di narrazioni piene di un uso spropositato di aggettivi terrorizzanti. Rendo onore – di contro – a inviati in loco di varie testate, come Ilario Piagnerelli e Laura Tangherlini, persone coraggiose.

Che la guerra, le bombe, gli scoppi, i ferimenti, il sangue, la fame, il freddo creino terrore è fuori discussione, ma è sbagliato e sadomasochista “infierire” sugli ascoltatori/ lettori con particolari inutilmente raccapriccianti. Non è moralmente ammissibile fare ciò, e non è neppure utile alla correttezza e alla completezza dell’informazione. E’ come girare una lama in una ferita, invece di lenirla, perché ferita è, e va raccontata e possibilmente curata e guarita.

Osservo i giovani venti/ trentenni che sono confusi: cresciuti nella società dove tutto accade o sembra accadere in tempo reale, non si sono ancora ripresi dal disastro cognitivo ed etico della pandemia, che si prendono addosso lo spaventoso scenario della guerra. E sto parlando dei nostri giovani, che non andranno a combattere. Ci si figuri che cosa accade nelle menti e nei cuori dei loro coetanei ucraini, e anche dei militari di leva russi che sono mandati a combattere senza saperlo. E a morire.

Il ruolo e la responsabilità morale dei giornalisti è enorme. Tanto di cappello agli inviati in loco che non mollano, come chi sta in questi giorni a Kijv, a Karkijv, a Mariupol, e a chi attende a Odessa e a Lviv (Lvov, Lemberg, Leopoli: quattro nomi per un crogiolo d’immensa cultura europea!).

Non altrettanta gratitudine a chi redige titoli schiamazzanti di guerre nucleari, di guerre mondiali, di rischio atomico incombente, di bombardamenti a tappeto (costoro non hanno presente le due atomiche americane, la distruzione di Dresda da parte degli Alleati, e quella di Coventry da parte dei nazisti, l’uso del napalm in Vietnam… studiare, amici miei, studiare, prima di usare espressioni erratissime!), e via spaventando.

Questi scenari sono implausibili, non fosse altro perché Putin (o chi per esso), non potranno non fermarsi prima, pena la loro distruzione, perché si sono inimicati l’Occidente intero, che è molto più forte e attrezzato della Russia da sola, sotto ogni profilo, a partire da quello economico, che resta il più importante. Vi è la variabile-Cina, ma l’Impero del Sol levante, sempre quello che è da millenni, confuciano e taoista, sa che cosa fare per non interrompere la sua ambiziosa marcia sul mondo.

Ora, l’Occidente deve trovare un modo per dare garanzie alla Russia di non schiacciarla sugli Urali, con una Nato alle porte di casa, il dittatore del Cremlino deve avere una resipiscenza nell’accontentarsi di questo: una Ucraina sul modello austriaco-svizzero, neutrale, una tutela dei cittadini russi nel Donbass con opportune autonomie amministrative e culturali e, se si ritiene, la Crimea, come accesso al Mare meridionale (Nero e Mediterraneo), cui la Russia ha strategicamente bisogno di avere accesso.

Ogni grande nazione (che sia grande per territorio o deterrenza militare come la Turchia, o sia grande per ragioni etnico-culturali e militari come Israele) può avere un ruolo positivo, grandi madri d’Europa comprese, come la Germania, la Francia e l’Italia. Sperando che gli Usa stiano fermi con le mani, cioè non estraendo la Colt 45.

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