Perché Edson Arantes do Nascimento è il più grande calciatore di ogni tempo
“Edson, Edson, vieni a casa, su“, gli gridò dalla soglia della povera casa di Bauru la mamma Celesta… e il piccolo Edson, nerissimo afroamericano, rispose “Sì, mamma, subito, finisco di pulire questa scarpa e vengo…” Dialogo immaginario, ma verisimile.
Era il 1945 o il ’46. Accadeva in Brasile, nella favela confinante con la foresta. Bauru, così simile a Lanùs, dove nacque quindici anni dopo il mezzo guaranì per un quarto italiano (cosa che pochi sanno) Diego Armando Maradona.
Perché Edson, a cinque o sei anni stava in strada a dare calci a un pallone di stracci con altri ragazzini scalzi, e a pulire scarpe. Sciuscià. Show shoes, il piccolo player, aiutava la famiglia impoverita. Il figlio di João Ramos do Nascimento, in arte calcistica Dondinho, centravanti di medie capacità, ritiratosi per un infortunio al ginocchio men che trentenne, era Pelé, Edson Arantes do Nascimento.
Il nomignolo “Pelé”, con il quale la sua notorietà divenne universale, gli era sgradito, non si sa bene chi glielo appioppò, ma se lo tenne, perché la società dell’immagine nasceva proprio negli anni della sua consacrazione sportiva nel gioco più diffuso al mondo.
A quindici anni lo provò il Santos di Rio de Janeiro, e lì rimase quasi per tutta la vita, rifiutando la corte della grandi europee, tra le quali anche il Milan, l’Inter e la Juventus. Sulle sue qualità di calciatore lascio la parola al più grande (con alcuni difettucci di narcisismo) cantore sportivo italiano, Gianni Brera: “Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l’iniziativa dell’attacco e, scattando a fior d’erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull’altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti“. Sì, perché Edson Arantes era anche un grande atleta, uno scattista resistente, scrisse di lui un esperto di scienze motorie di cui non ricordo il nome. Molto più completo dei due “dei” che gli sono succeduti nella visione mediatica dei decenni scorsi e fino a noi, Maradona e Messi. A Brera, mancato disgraziatamente troppo presto, avrei voluto dire che su altri campioni il suo giudizio è stato parziale e a volte ingiusto, come quello sul più grande calciatore italiano dell’ultimo mezzo secolo, Gianni Rivera, che lui definiva “abatino” e mezzo atleta. Si vedano i filmati che lo riguardano e si capisce perché Pelé, quando vide la lista dei giocatori che Valcareggi avrebbe schierato nella finale del Campionato del Mondo messicano del 1970, si meravigliò di non vedere il nome di Rivera, e subito dopo si compiacque, perché lui sapeva bene che la Nazionale italiana, con quel 10 in campo avrebbe potuto essere molto più pericolosa e imprevedibile. Non abbiamo la controprova di un tanto, e nemmeno di ciò che sarebbe potuto accadere se Burgnich non fosse scivolato sul cross di Rivelino che permise a Edson Arantes quel primo goal decisivo, in stacco imperioso (sintagma in puro stile breriano), di testa.
Tanto che, per puro divertimento, mi metto a fare il “tattico”, pensando all’attacco che quell’Italia avrebbe potuto schierare: a destra, come tornante, Sandrino Mazzola, Rivera subito dietro le punte Boninsegna e Riva. “Coperti” da due fortissimi mediani come Bertini e Trapattoni. Avrei voluto vedere…
Ma quel Brasile, che poteva permettersi di avere in attacco quattro numeri 10, per classe, cioè Pelé, Gerson, Tostao e Jairzinho era al tempo la più forte squadra del mondo e, forse, di ogni tempo.
Definito O Rei (in italiano Il Re), O Rei do Futebol (Il Re del Calcio) e Perla Nera (in portoghese Pérola Negra), non è il calciatore più vincente in assoluto, salvo che per le vittorie in tre campionati del mondo per nazioni, che nessuno ha eguagliato, ma in gare ufficiali ha messo a segno 757 reti in 816 incontri con una media realizzativa pari a 0,93 gol a partita. Come finora nessuno, oltre ad aver sfornato centinaia di assist-goal, come un trequartista (termine odierno delle cronache calcistiche) o una mezza punta o un falso nueve (falso centravanti, uomo di manovra).
E’ il mas grande, porque Edson-Pelé è stato un ragazzo e un uomo completo, che non ha avuto bisogno della “manita de Dios” o della “pierna que no existe” per vincere tre mondiali. Da ex calciatore ha accettato di fare il Ministro dello sport del Brasile, promulgando una legge importante contro la corruzione nel calcio. Come George Weah, che è diventato Presidente della Liberia, probabilmente il signor Edson Arantes do Nascimento avrebbe potuto diventare il buon Presidente del più grande Paese sudamericano.
Per questi fatti e per ragioni tecniche di calcio che altri, più di me competenti, hanno ben scritto, Edson Arantes do Nascimento, Pelé, è stato più grande di Diego Armando e di Lionel, che ha mostrato l’improba fatica del “saper-vincere”, e perché è stato esempio più limpido (anche e soprattutto per i ragazzini di strada e di palestra), di lealtà sorridente, senza la rabbiosa incapacità di non-vincere di altri calciatori, come ha fatto vedere il portiere dell’Argentina “Dibu” Martinez, all’immondo mondiale del Qatar.
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