Racconti perduti… e ritrovati
…se si ha la voglia dell’ascolto. Racconti davanti a un taj di vin, nella quiete di un sabato tranquillo di mezza primavera. Eccoli…
Più o meno cinquanta anni fa il paesone è immerso nella calura. Il silenzio meridiano avvolge le case e i cortili. La gente è nascosta nelle case in attesa che rinfreschi per tornare ai campi. C’è chi è andato in fabbrica nella città di Pordenone o dove si fabbricano sedie a Est: gli uni e gli altri sono partiti prestissimo, verso le sei di mattina, con torpedoni blu verso la Rex e con pulmini da sette posti o automobili private (era già un car sharing ma si chiamava, grazie a Dio in italiano, “una settimana a testa”) verso Manzano e dintorni. Esperienze mie quando da operaio studiavo scienze politiche.
Le botteghe artigiane sono chiuse per la pausa pranzo. Riapriranno verso le quattro (in paese si usa il modo di contare le ore del giorno all’americana). Il calzolaio Sabatini, il fabbro Giona, il meccanico di biciclette Carlo e quello delle auto Bruno Cumar, il fabbricante di cisterne Rosario, il barbiere Mario e la parrucchiera siore Lise, i negozi di alimentari presenti in ogni quartiere, la rivendita di vino e olio di siôr Toni Grosso, hanno le serrande abbassate o i portoni chiusi. Stanno tutti sonnecchiando anche per un bicchiere di vino fresco bevuto con la pastasciutta.
Qua a là dagli scuri socchiusi delle finestre una radio trasmette canzoni; va di moda, a ora di pranzo, la trasmissione con le dediche di Radio Capodistria, che accoglie ogni tipo di richiesta di canzoni. Noto che dall’Emilia Romagna o dal “rovigotto” arrivano spesso calorose richieste di ascoltare Bandiera Rossa o l’Inno dei lavoratori. Tra i cantanti e le cantanti spopolano Claudio Villa con Granada, Morandi con il meraviglioso trittico degli anni ’60 Se non avessi più te, Non son degno di te, In ginocchio da te, il confidenziale Bongusto con Una rotonda sul mare, Gino Paoli e la sua Sapore di sale, la Berti con Tu sei quello, la potente voce di Iva con La riva bianca la riva nera; poi c’è anche la Vanoni con La musica è finita, Caterina Caselli e la sua hit più grande Perdòno, Mina Mazzini esuberante e tenera con la Banda e Se telefonando, e vi è anche Nico Fidenco con l’estiva Un granello di sabbia. E i complessi! I Rokes con C’è una strana espressione nei tuoi occhi, l’Equipe 84 con Bang Bang e 29 Settembre, mentre la roca voce del cantante de I Corvi spiega chi è Un ragazzo di strada. Il primo Battisti con Per una lira, e poi dei comprimari di successo, come Riky Maiocchi, che canta la struggente Uno in più, e il tenebroso Roby Crispiano con Un uomo nella notte. E molti altri…
Ogni tanto qualche cantante estero: un Sinatra d’antàn con Strangers in the night, oppure la greca Nanà Mouskouri con Rosso corallo; mi fermo ad ascoltare Françoise Hardy, che mi piace molto, con Parlami di te. E Caterina Valente, raffinata come poche, molto “americana”.
Dimenticavo Bobby Solo e Little Tony, in gara a chi rockeggiava di più, e l’immenso (per quei tempi) Adriano Celentano che sparava nell’aria tersa del primo pomeriggio la sua Azzurro, che però era di Paolo Conte.
Non era ancora il tempo dei cantautori, anche se Guccini e De Andrè già avevano pubblicato alcuni capolavori, ma “il paese” non era pronto ad accoglierli. Solo io e pochi altri giovani “intellettuali” cominciavamo a comprare qualche Long Playing, tra i quali si intrufolava anche Bob Dylan.
Quella era la vita del paese, in un’estate qualsiasi di mezzo secolo fa. I bar o caffé e le osterie erano invece tutte aperte: uno spaccato di sociologia paesana, perché le frequentazioni erano diversificate. Il popolo operaio e contadino, ad esempio, non andava da Fantini, in piazza, ma piuttosto Alla Campana o Alle Piramidi (lis Peramulis, dalla presenza delle due statue dei leggendari fondatori del Paese, Drin e Delaide, Sandrin e Adelaide, buttati giù dalla fascistaglia durante il regime e rimessi in sesto da un’amministrazione di centro-destra intelligente in tempi recenti).
Anche le sedie marcavano le differenze di classe nei vari “ambienti”. Se quasi ovunque le sedie degli ambienti erano di metallo, solo da Fantini erano di vimini, poltroncine sistemate all’esterno, comode, dove si assidevano i maggiorenti semper giudicanti con piglio severo chi passava in bicicletta, mentre lanciava uno sguardo tra l’intimorito, l’invidioso e il rassegnato verso i siôrs.
Anch’io sono stato spesso oggetto di sguardi e giudizi, anche perché, figlio di povera gente, avevo “osato” andare al Liceo classico e prendere qualche posizione politica un po’ di sinistra, come quando avevo cantato in chiesa l’Ave Maria di De André. Il mio “paese”, come peraltro il Friuli, è sempre stato un pochino “di destra”, salvo rari periodi, come quando fui eletto consigliere comunale, avevo ventidue anni, indipendente nella lista di Unione democratica, composta da PCI, PSI e PSDI. Sindaco PSDI, ovviamente, il più moderato. Io ero stato proposto unitariamente da tutti e tre i partiti per rappresentare “i giovani”, che mi avevano poi votato in massa.
Il barbe Toni , fratello minore di mame Gigje, o Luisa (come la chiamava mia cugina Lucilla Morlacchi di Milano, l’attrice: zia Luisa) era da Nando, un caffè pizzeria interclassista. Aveva bevuto un paio di Moretti Sans Souci bionde da terzo di litro, con l’etichetta del Mercurio d’Oro, e stava affrontando la terza, con un paio di vecchi amici che non aveva dimenticato, dopo la sua migrazione nel Canada del Nord, in British Columbia. Al servizio si affacendavano Lucio, il figlio del titolare e Silvestro, un abile cameriere veneto oramai friulanizzato da un decennio. Lui veniva da San Bonifacio di Verona e si era sistemato con Toscana e papà Vittorio ad Ariis, sul fiume Stella. Contadini. A un certo punto Toni sbotta: “sint tu, sêtu tu che tu morosis cun me gneze, la Marina?” (Mia sorella).
“Si, che soi jo“, risponde il giovanotto friulanizzato… “va ben, viôt che vignarai a cjase to par cognossiti“. Così funzionava al tempo, caro lettore. E il barbe Toni andò a trovare il futuro nipote, che gli parve un uomo serio e posato, visto che aveva diversi anni più di Marina. Un lavoratore, così come si confermò nel tempo.
Una volta Silvestro era andato a Udine, ma era stato “dimenticato” all’Ospedale Santa Maria della Misericordia da don Adolfo, il parroco di Ariis, che lo aveva portato su con la sua Fiat Cinquecento. Avevano l’appuntamento alle dodici davanti al nosocomio, ma don Adolfo era tornato a casa senza il suo amico. Allora Silvestro si era arrangiato prendendo il bus e poi la corriera per il paese.
A sera il piccolo parroco era passato di là dicendo che gli dispiaceva di averlo abbandonato a Udine. Se lo era ricordato celebrando la Messa serale. Finì tutto con un bicchiere di vino in compagnia e una fetta di salame con la polenta arrostita di Toscana.
Anni prima, quando Silvestro faceva il militare di leva, mentre i suoi si erano trasferiti dal veronese al borgo rurale friulano, un bel giorno torna in licenza da Bolzano, arriva a Udine ma non sa come andare nella sua nuova casa di Ariis. Si guarda in giro finché un signore in età, vedendolo in difficoltà, gli chiede se ha bisogno di aiuto. “Sì”, risponde Silvestro, e gli spiega di avere perso l’ultima corriera per il paese. Il signore, gentilissimo, gli dice che non c’è nessun problema, perché lui abita vicino e lo avrebbe portato a casa non appena fossero tornati dal cinema sua moglie, sua figlia e suo genero.
E così andò. Silvestro fu a casa sua, la nuova casa nel borgo rurale perso nelle umide campagna di risorgiva. Ma ci fu un sequel, perché, una volta che Silvestro ripartì per il periodo di leva, quel signore gentile aveva cominciato a frequentare casa sua, laddove ogni volta mamma Toscana lo riforniva di un coniglio, di una faraona, di un pollo. L’uomo si faceva pagare in natura il piccolo piacere di quella notte udinese. Quando Silvestro, che è un tipo puntiglioso, seppe della vicenda e andò a trovarlo al suo paese, l’uomo gentile fece finta di nulla, ma non si fece più vedere al borgo rurale, forse un pochino vergognoso.
Pietro si sveglia a Zagabria. Non aveva cambiato a Salisburgo, perché si era addormentato sul treno, stanchissimo, e aveva dormito fino a Zagabria. Pietro tornava dalla “stagione” in cava di pietra a fine novembre. Avrebbe passato un paio di mesi a casa e poi sarebbe ripartito per quel paesino in mezzo alle foreste dell’Assia, come faceva oramai da anni, assieme a diverse decine di altri uomini che aveva trovato disponibili alla grave trasferta annuale. Un lavoro durissimo, pericoloso. La cava di pietra era un luogo di lavoro terribile e faticoso, ma Pietro lo aveva accettato anni prima, perché in Italia non c’era lavoro. In quel luogo poté lavorare per mantenere la famiglia e farmi studiare fino al diploma di Liceo classico. E da lì mi involai sul suo sacrificio eroico.
Toni “macchia” era così apostrofato perché gli avevano visto qualche macchia ambigua sui pantaloni. Lavorava da apprendista da un fabbro, il primo fabbro del paese, perché era forte e robusto come un toro: un metro e ottantadue per novanta chili, per quei tempi era quasi un colosso. Non si è mai capito quale origine potessero avere quelle macchie: c’era perfino chi insinuava di incontri clandestini con una delle sue spasimanti nell’officina del mastro fabbro e maniscalco, o il residuo di qualche starnuto di cavallo o mulo (si ferravano anche i muli, allora).
Una volta Pietro e Silvestro litigarono (per modo di dire). Pietro voleva sempre aiutare Silvestro nell’orto, ma ognuno dei due aveva un modo di lavorare che a volte non coincideva con quello dell’altro. Una volta, vi fu una gara con due badili per seminare le patate: quando Pietro vide che non poteva star dietro al genero in velocità (lui nella vita aveva sempre battuto tutti in velocità sul lavoro), buttò a terra il suo badile e andò a casa borbottando. Non poteva ammettere di non farcela.
Lo sticâ (vangare) era un compito storico di Pietro. Una volta Silvestro gli aveva affidato il compito di mescolare le zolle attorno a ogni vite del vigneto, ma in modo delicato e non molto profondo, ma Piêri che voleva sempre far fatica (altrimenti non era neanche un lavoro) non ci stava e vangò troppo profondamente a rischio di scoprire le radici. Silvestro allora si inquietò e Pietro non la prese bene. Come nel caso precedente, se ne andò via brontolando. Pietro, mio papà.
Racconti di vita mai dimenticati.
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