Il “vento dorato” vola in un fruscìo senza tempo, o del perché il ciclismo è uno sport superiore al calcio
Infinite curve piene di bambini festanti e di persone che aspettano sul ciglio della strada che passi in un lampo il vento dorato, il fruscio delle trecento ruote del Giro. Stanno lì nel posto buono per ore, fin dal mattino, per quel fruscìo che dura venti secondi o trenta al massimo, del gruppo che vola a cinquanta all’ora in un barlumeggiar di ruote e di pedali. Più numerosi di tutti gli spettatori di tutti gli stadi del calcio, e gratis, sulla strada davanti a casa, gratis, a vedere la fatica e il coraggio. E la storia.
Dentro il gruppo ci sono mille storie, mille fatiche, mille modi di affrontare la corsa, ma soprattutto c’è una doppia visione del mondo: da capitani e da gregari. Tutti faticano ma i secondi di più, perché devono provvedere ai rifornimenti per sé stessi e per i capitani. E allora pedalano su è giù per la fila, in salita e in discesa, cercando qualche tratto di pianura quando possono, fino in fondo all’ammiraglia e poi riempirsi tutte le tasche di borracce, gel e paninetti energetici, infilati perfino nella maglietta dietro la nuca. Ho visto corridori con otto borracce tutte assieme, al punto che il tronco magro del ciclista aveva assunto un’altra forma corporea.
E il gruppo vola. Vola per i lunghi rettilinei di pianura, che però in Italia non sono moltissimi, oltre a quelli che si trovano nella pianura Padana. Più spesso i percorsi sono misti, fatti di salitelle e discese, dove si raggiungono i novanta all’ora, e ancora di più di erti “muri” (per dirla alla “fiamminga”) appenninici, per poi arrivare alle “grandi montagne”, come le chiamava mio papà Pietro, tifosissimo di Bartali che, secondo lui (e non solo lui), se non ci fosse stata la Seconda Guerra mondiale, si sarebbe diviso con Coppi una cinquina di Giri d’Italia e una cinquina di Tour de France, collocandosi – senza dubbio alcuno – al vertice dei più grandi, dove comunque tutti e due stanno.
Quando arrivano le salite alpine, di solito dopo metà Giro e verso la terza settimana di gara, tutti nel gruppo sono stanchissimi, smagriti, quasi smunti, abbronzati “a pezzi”, perché nel corpo si disegnano grandi ombrature, sulle braccia in corrispondenza delle maniche delle magliette, mentre nelle gambe si notano netti i segni del pantaloncino.
E il gruppo vola, il vento dorato vola.
Dai tempi di Bottecchia, il bersagliere friulo-veneto, che correva per soldi fuori dalla miseria, che batteva Henri Pelissier in due Tour primordiali, di Girardengo con le sue trenta tappe vinte al Giro, il Gran Premio Wolber di 360 km, e poi Binda, cinque giri e tre mondiali, i citati Coppi e Bartali, Louison Bobet, Jacques Anquetil il più elegante cronoman di sempre, Hinault incredibile con la sua stazza ridotta, per me il terzo ciclista più forte di ogni tempo, al pari di Bartali e del giovinetto belga formidabile di oggi, Remko Evenepoel.
Come dimenticare Ercole Baldini e Gastone Nencini, assonanti nei nomi e quasi coetanei, capaci di vincere tutto, Giro, Tour, Mondiale su strada, Olimpiadi? E Michele Dancelli, razzente come pochi, il bresciano capace di vincere in volata con chiunque e di staccare chiunque, il coraggio fatto corridore? O Gianni Motta, di classe inarrivabile, in grado di competere dal ’64 al ’70 con Merckx, Gimondi, Adorni, Anquetil, Poulidor e di batterli spesso? Chiappucci Claudio un memore sguardo se lo merita? Dimanda retorica.
E gli inglesi, gli irlandesi? I tre baronetti Bradley Wiggins, Geraint Thomas e Chris Froome (in grado di vincere quattro Tour, una Vuelta e due Giri, diventando uno dei più grandi corridori di sempre), e poi Sean Kelly, quasi imbattibile nelle sue giornate, l’a me antipaticissimo Stephen Roche (Giro, Tour e mondiale in un anno, e poi più niente, perché, come dice il mio caro e sapiente di ciclismo frate Gigi da Lignano, mio consulente speciale per questo saggetto, era pieno come un uovo, quell’anno), e i due teutonici di trent’anni prima: Rudy Altig e Jan Janssen, entrambi campioni del mondo? Non dimentico l’elegante e facondo Vittorio Adorni, capace di vincere Giro e mondiale, e di diventare un empatico volto televisivo.
Come dimenticare Rik Van Looy, l’imperatore di Herentals, così lo cantavano aedi melodiosi del ciclismo come Dino Buzzati, Orio Vergani e Bruno Raschi, Merckx el mas fuerte, non el mas grande, que el mas grande es Fausto, fino a i nostri di questi anni quando battagliano sulle strade assolate del Tour de France Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard. La poesia pura di Marco Pantani. Non dimenticato. Non dimenticabile.
Come non avere memoria di chi è mancato cadendo sugli asfalti d’Europa, al Giro o al Tour o in corse di un giorno: Fabio Casartelli, Serse Coppi, Weilandt… e le cadute rovinose come quella di Tao Geoghen Hart in questo Giro 2023, che avrebbe potuto vincere. Quando cadono questi ragazzi magri, prima ancora di guardarsi abrasioni sanguinanti, cercano la bici per ripartire. Eroici? No, veri.
E i grandi ispanici? Da Federigo Martin Bahamontes, a Pedro Delgado, a Miguelon Indurain, grosso come un boscaiolo basco, fino al leggendario Contador, per me uno dei più grandi, e all’artista del pedale, el imbatido don Alejandro Valverde?
E Charly Gaul? Lussemburghese capace di vincere un Giro e un Tour, forse lo scalatore più puro di tutti i tempi, dopo Marco Pantani…
E le frecce di un giorno come il Saronni della “fucilata” di Goodwood, che ho ancora negli occhi, e come mister Roubaix, il lampeggiante Argentin delle quattro Liegi e del mondiale americano, e come “lo zingaro di Aeklo” Roger De Vlaeminck, che poteva battere Merckx quando le pietre di Roubaix si facevano cattive sotto le ruote, e come Paolo Bettini bicampeon del mundo e olimpionico sotto l’Acropoli, e come Fabian il calabrese che scelse la Svizzera e girava padelloni impossibili? E i due potentissimi svizzeri vincitori di Giro e Tour Hugo Koblet e Ferdy Kubler? Come dimenticare Fiorenzo Magni, capace di vincere ovunque, tre Giri d’Italia e tre Fiandre. E Gimondi, che a me non piaceva nell’eloquio, ma vinse su ogni terreno? E Francesco Moser, il plurivincitore italiano, a volte cattivo oltre il giusto, denominato alla moda western, lo sceriffo? E i due draghi di un giorno di questi tempi nostri, il grande Mathieu Van der Poel, sangue di Adri e di nonno Raymond (Poulidor) e Wout Van Aert, che non si chiedono mai perché scattano, scattano e basta e poi vincono (spesso) o perdono, non gli importa molto. Corrono corrono senza guardarsi indietro. Un’immagine: lo scatto di Mathieu sul Poggio della Sanremo quest’anno…
Non voglio lasciar perdere nemmeno Luis Ocaña, potenziale “grande di Spagna”, che un gravissimo infortunio spazzò via prima che potesse mostrare al mondo ciò che poteva, anche battere bene il grandissimo Merckx. Come di lui parlo di Gianni Bugno, che pareva poter vincere con chiunque (basti guardare come vinse due mondiali consecutivi e il suo unico Giro d’Italia), ma si fermò prima di farlo. Carattere?
Anche Nibali, vincitore di quattro grandi giri merita un cenno, e fors’anche Ivan Basso, due giri e un Tour virtuale. Così come non voglio dimenticare il gentile Laurent Fignon, che con gli occhiali vinse due Tour de France e un Giro d’Italia, e Jan Janssen, forse il più forte corridore d’Olanda di ogni tempo: vince una Vuelta, un Tour e un Campionato del mondo su strada.
Un augurio al forte e simpatico, sfortunatissimo colombiano Egan Bernal, che ha già vinto un Giro e un Tour, è caduto e sono spiritualmente con lui perché torni quello che era e che può essere ancora.
Mettiamoci pure tra i “già-grandi” Filippone Ganna, che a ventisei anni ha già vinto diversi mondiali di inseguimento su pista e su strada, ha vinto alle Olimpiadi, e ha “fatto” il record dell’ora, un “potenziale” grande vincitore di classiche. E tra i potenziali più forti abbiamo (noi Friulani e Italici) Jonathan Milan da Buia, Friuli, Italia, capace di vincere l’europeo dell’inseguimento su pista, socio di Ganna nel quartetto olimpico e velocista su strada, forse ora il più potente del mondo.
E, purtroppo, non posso fingere di dimenticare Lance Armstrong, 7 Tour toltigli perché reo confesso, e un mondiale. Greg Lemond lo ricordo volentieri, con i suoi tre Tour e un mondiale.
E infine, ma non perché siano meno importanti, anzi, che dire ora dei gregari, che prendono una RAL di 30.000/ 50.000€ all’anno, come un impiegato, mentre Messi ha un’offerta dagli emiri di 500 milioni per anno, mentre ne prende trenta dal Parigi? Cristiano da Madeira quasi uguale, percepisce. Pogba otto milioni per aver giocato due o trecento minuti in una stagione, Lukaku altrettanto per mezza stagione. Da vomito.
Il vento dorato vola, anche se, come mi ricorda sempre fra’ Gigi da Lignano, oramai tutti prendono qualcosa (mio papà mi diceva che anche Coppi…) e le strategie sono freddamente decise a tavolino dai direttori delle squadre, che hanno sponsor, e obiettivi commerciali da raggiungere. D’altra parte, come riconosceva lo stesso Cipollini, come si può correre tappe di oltre duecento chilometri a 48/ 50 all’ora di media se non (e ciò che segue).
Il calcio è peggio, specie quando vedo le foto di un volto fanatizzato dall’espressione insopportabile come quello di Lautaro Martinez, tanto per citare uno tra molti, e mi sovvien la miseria di questi milionari senza cultura, o penso a Donnarumma, il portiere della Nazionale italiana, che se ne va a Parigi per soldi (a ventidue anni passa da sei milioni a dieci all’anno), un senso di desolazione mi afferra. Che poveri di (non in) spirito: vale a dire, evangelicamente, poveri non della povertà interiore che può anche ammettere il benessere, ma una povertà intellettiva, il cui rimedio non si può comprare con i milioni.
Due immagini e un verso poetico-sportivo ho in testa, per chiudere: la prima è quella di Gino e Fausto al Tour sul Col de Galibier (dove portai Beatrice bambina di dieci anni, a piedi, salendo dal Col de Lautaret, nel 2005) che si passano una borraccia, e non dissero mai chi la passò a chi; la seconda è la figura agile di Marco Pantani che, rimasto indietro per un piccolo guasto meccanico, risale tutto il gruppo a velocità doppia verso il Santuario della Madonna di Oropa nel Giro del 1998, e l’ultimo a farsi superare in quella salita cattiva è Laurent Jalabert, francese leale, che lo guarda ammirato sfilargli accanto; il verso poetico appartiene a Orio Vergani che quando Fausto Coppi muore di malaria all’ospedale di Tortona nel gennaio del 1960 per insipienza e presunzione medica (i medici di Parigi avevano informato quelli di Tortona che si trattava di malaria, perché Raphael Geminiani che avevano in cura, era stato con Coppi in Alto Volta (paese ora noto con il nome storico di Burkina Faso) per una battuta di caccia e si era ammalato), scrive sulla Gazzetta dello Sport “il grande airone ha chiuso le ali“.
Ma il vento dorato vola in un fruscio senza tempo…
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