L.g.b.t.q.i.a.k.+ per dire “essere umano”. Manca solo lo “yap yap” del Pippo disneyano. Se non seguissi (purtroppo necessariamente) anche queste insensatezze mediatico-politiche, potrei pensare che la serie di consonanti costituenti l’acronimo è l’onomatopea di un rumore corporeo obiettivamente sgradevole e ben studiato nei secoli dagli amanti del buon senso e del buon gusto… ma stamane mi sento un po’ “atarassico” (siccome un Zenone di Cizio nel presentarsi al Pireo quando volle raggiungere Atene dalla sua isola prossima alla Provincia di Turchia, Cipro) e persin “adiaforico” (a remota somiglianza di un Marco Aurelio a riposo nella sua rustica tenda dopo la battaglia coi Quadi e i Marcomanni). E questo “sentirmi” mattutino è anche merito di considerazioni di un paio di persone che mi vogliono bene e mi stimano, altrimenti avrei potuto dar spazio anche a stilemi scrittorii men vigilati
Il romor citato promuove barzellette irresistibili mentre si cerca di dissimularlo per educazione, a volte con effetti di grande comicità, ad esempio provando a mascherarlo con contemporanei colpi di tosse. Ma non funziona.
La buona educazione occidentale, che si può riassumere del trattato cinquecentesco di Mons. Giovanni Della Casa, non ammette che le persone educate si lascino scappare in pubblico tale espressione corporea, pur sapendo che il corpo non può trattenerla oltre un certo tempo, pena l’inizio di dolori addominali insopportabili. Giovanni Della Casa, più conosciuto come monsignor Della Casa o monsignor Dellacasa (1503-1556) è stato un letterato, scrittore e arcivescovo italiano, noto soprattutto come autore del manuale di belle maniere Galateo overo de’ costumi (scritto probabilmente dopo il 1551, ma pubblicato postumo nel 1558), che fin dalla pubblicazione godette di grande successo, come manuale di buone maniere per le corti, i castelli e le ville signorili.
E allora, tornando alla metafora di cui sopra, se non si può dissimulare il romore, lo sfortunato deve provare a fuggire dal contesto umano in cui si trova, rifugiandosi in qualche ambiente separato e/o riparato, magari dietro una porta ben chiusa, anche se negli ambienti abitativi contemporanei una paretina di cartongesso può non bastare.
Oppure, sempre quella congerie di consonanti insensate costituenti l’acronimo sopra riportato, un colpo di tosse.
Leggo che un politico milanese di sinistra, che non cito perché mi vergogno per il suo partito, che anch’io voto (ma chissà se in futuro…) interpellato da un collega di altra formazione politica su ciò che sia una/la donna, ha risposto che si tratta di una domanda provocatoria.
Il mio amico professor Giacometti, Presidente dei filosofi pratici italiani di Phronesis, commenta tal fatto in questo modo: “Ma i Lgbtqiak+ non si sentono ridicoli ad esistere in quanto tali? Tu mi insegni che basterebbe riconoscersi e pretendere di venire riconosciuti come “persone”. Il paradosso è che si etichettano da soli coloro che protestano per il fatto di venite etichettati.”
Infatti “persona”, da duemila anni, dice tutto sull’essere-umano: dignità, uguaglianza in valore, diritti (e doveri) di soggetti auto-consapevoli e responsabili, ciascuno nel suo ruolo e posizione.
Faccio oramai fatica a trovare parole adeguate per commentare il punto a cui siamo arrivati con quanto sopra e con gender, woke, politically correct, cancel culture et similia stupiditatis ignorantiaeque plena.
Riporta dalla carta stampata che il sopra citato politico, non poco imbarazzato, ha poi tentato una risposta del tipo “…la donna è una femmina umana, e anche una-uno-che-si-sente-tale“. Più o meno. Ok, allora io, maschio italiano adulto, eterosessuale, oggi mi sento un coniglio. E coniglio sia, io! Parbleu! Anzi no, un lemure.
Ma questo sentirsi… meglio domani, domani penso che mi sentirò un lemure. E ora un po’ di lessico.
Gender. Intanto dirò di questo di larghissimo uso lemma dei giorni nostri: non più distinzione tra i sessi maschile e femminile e anche trans, e neanche tra i generi, ma solo un sentirsi questo o quello, a seconda dell’umore e della giornata. In Australia mi pare che la legislazione preveda una ventina di sfumature genderiali (si può aggettivare il sostantivo in questo modo?)
Woke. Dal verbo to awake, svegliarsi… alle novità, s’intende, perché c’è il rischio di essere rimasti addormentati davanti alle grandi novità del presente e del futuribile. Tutte novità buone e giuste, tutte di diritto, tutte moralmente accettabili. Mi chiedo se la filosofia morale, o dottrina etica condanna l’infibulazione e la mutilazione dei genitali femminili non debba altrettanto condannare l’uso commerciale del grembo femminile come nella gravidanza per altri, già normata in paesi come il Canada, il cui premier ci insegna sempre a essere democratici e aperti.
Meno male che schiere di femministe VERE si stanno muovendo per contrastare questo orrore, che invece pare essere gradito ad alcuni capi/ cape della sinistra politica italiana, quando hanno il coraggio di esprimersi, poiché spesso non lo hanno.
Politically correct. Ecco qualche esempio: la scuola americana dove vi sono insegnanti capaci di considerare la statuaria classica, che prevede il nudo umano, diseducativa e inadatta alla crescita morale degli studenti; il saluto del relatore ai partecipanti a un convegno (pardòn le… pardòn ie… pardòn u… pardòn schwa).
Cancel culture: le statue di Colombo, che è stato, secondo la lettura politicamente corretta un prodromo del colonialismo più bieco; togliere dai racconti e dai romanzi di Dickens, Tolstoij, Manzoni, Verga, Balzac, Mann, Flaubert, Cervantes, ma anche Steinbeck, Ben Jelloun e perfino da Andersen, i fratelli Grimm e Walt Disney ogni cenno a differenze di livello sociale, vale a dire la morte di ogni creazione letteraria.
…et similia. Altro ho scritto in precedenza e qui mi fermo, esausto. Ma non rassegnato, anzi, come dice l’etimologia profonda di questo participio passato, “ri-segnato”, cioè deciso a battermi contro questa deriva di scarso intelletto e di pericolose pedagogie.
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