Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Dopo la morte di Berlusconi e dei 600 annegati nel Mar Egeo a Pylos, occorre tornare a Martin Heidegger e a Jean-Paul Sartre, prima di parlare di bene e di male, interpellando anche, in qualche modo, Aristotele, Tommaso d’Aquino e Kant

Proprio la morte di Berlusconi e il naufragio dell’isola di Pylos mi hanno ispirato quanto nel titolo. Non sembri strano, questi due grandi filosofi del ‘900 possono aiutarci a comprendere qualcosa di più di quest’uomo appena mancato e come andare oltre, e anche del valore di quelle vite umane perdute.

Martin Heidegger

Da qualsiasi parte li si osservi, si tratta di grandi fatti. Gli anti-berlusconiani di professione (a proposito ho letto un articolo quintessenza di anti-berlusconismo, al livello di un Barbacetto a cura del “teologo” Mancuso) rendono Berlusconi sempre più importante, ad esempio. Ed è ciò che voleva lui: il paradosso ossimorico dell’odio nei suoi confronti, anche se alla memoria.

Martin Heidegger è nato nel 1889 a Messkirch in Germania ed è morto a Freiburg im Brisgau nel 1976. In generale si può dire che il suo pensiero è stato influenzato da Kant e dal suo maestro Edmund Husserl.

Il suo pensiero si incardina su una metafisica tardo-platonica mediata dal fenomenologismo di Husserl, per riconoscere la verità delle cose del mondo e dei soggetti di coscienza. Gli esseri umani, da cui bisogna partire per conoscere anche il resto delle cose-del-mondo. Se la dimensione ontologica più importante è quella relativa agli esseri umani, sono da considerare altre logiche “regionali”, che si occupano delle scienze come la matematica e la logica, come saperi a priori. Se Husserl ha cercato di attribuire concretezza al soggetto trascendentale, secondo Heidegger bisogna tenere conto della sua finitezza e del dramma di ogni esistenza che si dipana nella storia. In questa prospettiva, la vita di B. e una vita che – nella morte – sostanzialmente “assomiglia” alle vite di ognuno dei morti di Pylos.

Paradossale, ma non scandaloso, da un punto di vista dell’esistenza. L’uno e gli altri sono-per-la-morte che ognuno e tutti equipara, come insegnava il vecchio Epicuro. E questo lo farei osservare immediatamente a quei teologi (Mancuso) o filosofi (Montanari, ad e.) che confondono ontologia ed etica, esistenza e politica. Verrà il tempo e il modo, anche in questa sede, di provare a declinare eticamente le vite diverse, di B. e dei morti di Pylos. I peccati di B. e la mancanza di politiche generali sull’immigrazione.

Nell’edificare la sua scienza-dell’essere, la sua ontologia, Heidegger propone di partire dallo stesso soggetto che si pone la domanda sulla propria esistenza, precedente l’essenza di una vita, che può essere “fortunata” o “disgraziata”.

L’ontologia classica platonico-aristotelica ha concepito l’essere come oggettività o presenza-di-un-qualcosa, cui è sotteso, in latino un ob-jectum,

L’essere, però, per consistere in qualcosa di esistente (ex-sistens, di uno stare-fuori) ha bisogno di un esser-ci (da-sein, come indica Heidegger), vale a dire un trascendere l’essere stesso avendone (avuto) coscienza. Questo esser-ci è progetto, un-qualcosa-di-gettato-in-avanti, oltre il momento presente e vivo e il suo suono di vita. Nell’inestricabile stare dentro la vita e le circostanze.

L’essere nell’esser-ci è un progettare che richiede cura e impegno per un obiettivo, che è un oggetto. Ma, secondo il Tedesco, è il soggetto che fa vivere l’oggetto, e in questo egli si distanzia dalla metafisica classica e si reinnesta sul kantismo e sul cartesianesimo. E’ l’uomo che fa-venire-all’essere-ciò-che-è-nel-mondo. Continuo a non concordare del tutto. Se il mondo ex-siste solo se me ne rendo conto, in me, esso non esiste per me, come invece Sartre riconoscerà, ma esiste e basta. Si può riconoscere che l’essere sì può dare nell’esser-ci, ma non in assoluto. Chi sono io per dire che il mondo esiste solo se me ne accorgo io stesso? Questa è la presunzione dell’idealismo moderno.

Interessante e a mio avviso condivisibile è il concetto per il quale il soggetto è anche oggetto-gettato (Geworfenheit) nell’esistenza, il soggetto-oggetto che Sartre definirà come obbligatoriamente libero.

L’essereper-la morte rappresenta per Heidegger una funzione di senso della vita stessa, all’esser-ci, come limitazione assoluta della libertà, cui siamo “obbligati” (Sartre), ma con dei limiti oggettivi, fisici e razionali.

Ecco che qui si può innestare una riflessione filosofica più generale sulla libertà, riferita proprio alle persone decedute sopra citate nel titolo: a) avrebbero potuto liberamente non partire dalla Cirenaica Tobruk quei settecento migranti per poi naufragare in vista della Grecia, dell’Europa? Lascio al lettore una o più ipotesi di risposta. Mi limito a citare un libro di poesie bellissimo di Leonardo Zannier, friulo-carnico emigrante in Svizzera: il titolo di quel libro, in friulano, era ed è “Libers di scugni là“, vale a dire Liberi di dover andare, riferendosi all’obbligo di emigrare per i Friulani che in Patria non trovavano lavoro (pater meus Petrus docuit docetque); 2) che nozione di libertà “viveva” Berlusconi? Certamente quella classica-liberale stuart-millana del non-disturbare-chiunque-si-muove in economia e nella società, ma anche quella libertina di un fare-ciò-che-si-vuole (se si può)… ma la libertà vera, quella che interpella correttamente un’etica del fine, dove il fine è l’uomo tutto e totalmente, a mio avviso, recita l’incontrario della frase, in questo modo “La libertà non è fare-ciò-che-si-vuole, ma è volere-ciò-che-si-fa“, là dove la volontà è innervata e irrorata dalla scelta razionale.

La morte è come mancanza, deprivata di ogni essere, nell’esistere al limite di ogni vita, dunque, come poeticamente e ironicamente cantava Antonio de Curtis ne “A livella”, dichiarandone la giustizia assoluta verso tutti e ogni essere umano, poveri e ricchi, belli e brutti, buoni e malvagi. Tutti muoiono, secondo Totò, e anche secondo Heidegger, e trovano nella morte l’unica e suprema condizione di possibilità di valutare il senso della propria stessa vita, da un punto di vista del valore di un esser-ci in mezzo a tutto, e anche di una crescita che deve essere continua, eraclitea, dai primi anni, passando per le varie fasi dell’adolescenza e della giovinezza, fino alla maturità. Mi chiedo: chissà che educazione alla presenza-della-morte ha avuto B. nei primi anni del suo sviluppo affettivo e mentale… E ciascuno di noi, io che scrivo qui e tu, caro lettore, che leggi, se lo ritieni utile.

Riprendo e sintetizzo Heidegger: scegliendo di vivere una possibilità particolare come fondamentale e ineludibile (ad esempio dedicandosi totalmente alla famiglia, o al guadagno, o ad un mestiere specifico), l’uomo sviluppa un’esistenza inautentica. Questa è connotata da un’uniformità di tipo circolare, per la quale egli tende a ricadere in futuro nei modi di essere del passato, o in situazioni già vissute, conducendo un’esistenza quotidiana sostanzialmente insignificante e anonima, dove prevale l’adeguamento a modelli impersonali dettati dal termine «si» (man in tedesco) ossia alle convenzioni dei vari «si dice» o «si fa».

L'”autenticità” (con Kierkegaard) dell’esistenza è possibile, per il tedesco solo se si considera la morte come punto di riferimento delle proprie possibilità di scelta, senza pessimismo, ma per collocare ogni cosa nella giusta prospettiva, che non è mai assoluta, cioè slegata dal resto, perché è sempre – nell’ambito delle decisioni libere – circonstanziale, come se ogni atto dovesse essere sottoposto a un giudizio analitico.

Echeggiando ancora Kierkegaard, il tedesco Heidegger pone l’angoscia (angst) nella platea delle emozioni, ma non come timore o terrore (sempre Kierkegaard), ma come consapevolezza dei propri limiti, dello stesso nulla, e fonte della virtù di umiltà (mia personale interpretazione, che forse non era molto nelle corde tedesche di Heidegger). L’essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode) non deve essere fonte di disperazione, ma di consapevolezza, facendo prendere coscienza all’uomo del significato profondo della storia, e quindi anche del suo personale progetto di vita (cf. Sein un Zeit, Essere e Tempo, 1927).

Nei nostri tempi, spesso sconvolti dall’iperventilazione comunicativa, potrebbe essere una buona lettura il testo sopra indicato, o almeno il capitolo nel quale Heidegger si pone filosoficamente contro la vanità della chiacchiera, futile e perfino pericolosa.

Jean-Paul Sartre è nato nel 1905 a Parigi ed è mancato, sempre a Parigi, nel 1980

E’ da considerare principalmente, tra le sue opere, L’etre et le nèant, L’Essere e il Nulla, la libertà come obbligo paradossale, dove l’esistenza viene considerata antecedente all’essenza.

Jean-Paul Sartre

«L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa.» (da L’esistenzialismo è un umanismo)

Sartre è il vertice riflessivo dell’esistenzialismo del XX secolo capace di mettere in collegamento marxismo e perfino il comunismo reale con l’afflato umanistico alla libertà, e l’individualismo rispettoso della persona con i valori del socialismo collettivistico, di cui però aveva una nozione un po’ distorta, che poi riconobbe essere tale. In lui viveva il pensiero di Husserl e anche quello di Marx, che prima o poi non avrebbero potuto non confliggere. Un suo testo:

«Lungi dall’essere esaurito, il marxismo è ancora giovanissimo, quasi nell’infanzia: ha appena cominciato a svilupparsi. Esso rimane dunque la filosofia del nostro tempo: è insuperabile perché le circostanze che l’hanno generato non sono ancora superate

(Da Questions de méthode, in Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris, 1960, traduzione italiana di F. Ferniani, Milano, Il Saggiatore, 1976, pp. 92-96).

«Sartre detestava le routine e le gerarchie, le carriere, i focolari, i diritti e i doveri, tutto il serio della vita. Non si adattava all’idea di fare un mestiere, di avere dei colleghi, dei superiori, delle regole da osservare e da imporre; non sarebbe mai diventato un padre di famiglia e nemmeno un uomo sposato.» (Simone de Beauvoir)

Quello di Sartre era una specie di libertarismo anarchico impossibilitato ad accettare qualsiasi vincolo. Non sarebbe stato né un buon dipendente, né un buon imprenditore o manager. Un irregolare, era. Se B. avesse conosciuto il pensiero di Sartre (forse ne avrà letto qualche pagina perché era molto “francesizzante”), lo avrebbe forse apprezzato, ma solo fino a un certo punto.

Sartre era un marxista, però “eretico”, talché non ne sopportava le origini materialistico-spinoziane che conducevano al determinismo. Ecco, in questo senso, forse B. avrebbe potuto apprezzare il libero arbitrio in cui credeva Sartre, un libero arbitrio quasi agostinian-tommasiano e aristotelico. Costruire il proprio destino, a qualsiasi costo (ecco il punto!). Ma costruire il proprio destino definendo i confini delle “circostanze” (che sono ciò-che-sta-attorno al proprio agire, i cui vettori fisici né conosciamo né possiamo controllare), significa assumersi proporzionate responsabilità che costituiscono e costruiscono i confini della libertà.

L’essere e il nulla, opera pubblicata nel 1943, è la sua opera principale a testimonianza del suo esistenzialismo a-teo, ateo non nel senso di essere-contro-Dio, ma di prescindere da Dio. Sartre non è mai stato un militante dei senza-Dio o dei contro-Dio, consapevole di limiti di un uomo che senza Dio è un dio-uomo destinato necessariamente ma liberamente (contraddictio in adjecto?) alla morte. Un nulla, un nulla-di-Dio, essendo uomo. Nelle ultime pagine autobiografiche del volume Le Parole, Sartre descrive il percorso tutt’altro che indolore che lo ha condotto all’ateismo.

Sia nella fase iniziale, sia nel corso della sua vita, Sartre è certamente ispirato da Heidegger, da Nietzsche, da Jaspers, da Kierkegaard e anche da Camus (cf. Lo straniero) e da Céline. Abissi che si incontrano. Come esito forte di questi incontri è da considerare il romanzo La nausea, che attesta un senso di insensatezza sostanziale della vita umana  e un distacco dal resto della natura, che – per Sartre – è una bruta realtà priva di coscienza.

Il “Per Sé” (Pour Soi) è la coscienza, che è “nulla” (“neant”), in quanto è mancanza: è infatti pura possibilità. Essa è rivolta, come coscienza intenzionale, all'”essere in sé “(En soi). L'”essere”, come “essere in sé” è statico, monolitico e inerte, e costituisce il riferimento dell’intenzionalità della coscienza. Questa nella sua progettualità tende all'”essere in sé”, senza mai raggiungerlo. Sartre lamenta il fatto che la realtà non dia significato da sé, ma che sia la coscienza dell’uomo a doverglielo dare. Non esiste un essere necessario (cioè “Dio”) che possa dare significato dall’esterno a questa condizione esistenziale.

Il suo è un pessimismo che talvolta traguarda nel nichilismo, ma Sartre non si ferma lì. Per lui l’uomo deve andare oltre (cf. Nietzsche) credendo nell’ineluttabilità e obbligatorietà della libertà umana che, pur con tutti suoi limiti oggettivi, è tale, ex-siste perché si vive nel divenire imprevedibile, se non in minima parte. Una domanda connessa: che cosa poteva prevedere Leonardo Zannier oppure mio padre Pietro quando sono partiti per necessità, quindi liberamente-per-necessità, rispettivamente per la Svizzera e per la Germania? E i settecento partiti da Tobruk per le coste europee, seicento dei quali sarebbero morti annegati a poche miglia dalla Grecia? E su questo Sartre si separa dal marxismo delle magnifiche sorti e progressive (cf. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia) del materialismo dialettico marxista, senza cadere mai del tutto nel pessimismo nichilista.

Sartre afferma che «l’esistenza precede l’essenza» e che “l’uomo è condannato a essere libero”, famose frasi de L’esistenzialismo è un umanismo. L’Esistenza – la forma sensibile, che per Sartre è il risultato pratico dell’azione del pensiero – è ritenuta superiore all’Essenza (il motivo per cui l’essere è così e non altro, come nell’Idea platonica e nell’Essere-Essenza aristotelico-tommasianoaverroista) che è identificata tradizionalmente con l’Essere (cioè, ciò-per-cui-l’Ente-è, mentre l’Essenza è-ciò-per-cui-l’Ente-è-ciò-che-è, reduplicativamente), e che si manifesta nel pensiero teorico. Per Sartre è quindi l’esistenza, cioè il fatto compiuto, quello che conta davvero, è l’uomo e la sua attività è la cosa più importante, più che la speculazione teorica astratta, se essa resta mero pensiero. Inoltre è l’esistenza nel presente, nell’azione, che conta, non ciò che si è stati in passato.

Come è noto a chi mi conosce, su questo non sono d’accordo, poiché resto aristotelico-tommasiano-averroista, cioè un realista. Anche perché è l’unica posizione filosofica su sé stessi e sul mondo che non paventa nemmeno l’ombra di mancanza di umiltà.

Sartre afferma che se l’esistenza viene prima dell’essenza, occorre partire dalla soggettività. L’uomo è costretto a inventare l’uomo e su di lui cade la responsabilità totale dell’esistenza; deve cercare uno scopo fuori di sé, e solo così si realizzerà. In questo senso posso essere anche d’accordo con lui, sempre che ciò non significhi sostituire, non tanto l’uomo a Dio (cf. Rinascimento, Descartes, Idealismo tedesco, etc.), ma l’uomo alla nozione di Dio, che non prevede l’atto di fede. Paradossale?

Durante la sua prigionia di guerra (1940-1941) Sartre aveva letto Essere e Tempo di Martin Heidegger, un testo condotto con la visione e il metodo della fenomenologia di Edmund Husserl (non dimentichiamo che questi fu il maestro di Heidegger). L’opera di Heidegger fu in effetti prodromica a L’essere e il nulla, il cui sottotitolo recita “Saggio fenomenologico sull’ontologia”.

Nella sua più cupa descrizione de L’essere e il nulla, l’uomo è una creatura ossessionata da una visione di “compiutezza”, che Sartre chiama ens causa sui, e che le religioni fanno coincidere con Dio. Venuti al mondo nella realtà materiale del proprio corpo, in un universo disperatamente materiale, ci si sente inseriti nell’essere (con la “e” minuscola). La coscienza è in uno stato di coabitazione con il suo corpo materiale, ma non ha alcuna realtà obiettiva; è nulla (nel senso etimologico di nulla res, cioè nessuna cosa). La coscienza ha l’attitudine di concettualizzare le possibilità, e di farle apparire, o di annichilirle.

Ed è a questo punto che sorge l’esigenza di un’Etica o Morale, e di una scelta per il Bene. Il Bene di chi? Ora si pone la linea di discrimine tra chi come Sartre crede nella e afferma la libertà, se pure non-absoluta, e chi la ritiene diritto assoluto, non tanto nella teoria (che non gli interessa), quanto nei fatti e nell’agire concreto, come B. Per quanto riguarda i 700 di Tobruk la libertà come scelta si pone (si è posta?) analogamente alla libertà di Zannier e di Pietro, mio padre.

Sartre, grande sostenitore della libertà, ci fornisce una sorta di etica della situazione. Il filosofo francese pensa infatti, a differenza di Heidegger (in cui l’etica è considerata inutile al cospetto della ontologia), che sia importante per l’uomo credere a valori. Questi, in ogni modo, sono costruiti dall’uomo medesimo e sono soggettivi. In questo modo egli rifiuta qualsiasi dottrina morale universalistica, criticando ogni etica fondata su principi oggettivi, come quella cristiana (fondata sulla Legge morale naturale) o quella kantiana (fondata sull’Imperativo categorico). Se infatti Dio non esiste, e Sartre, essendo ateo nega la sua esistenza, (perché se esistesse, l’uomo non sarebbe libero), non possono esistere norme assolute. Sia la morale cristiana, sia la morale kantiana, per il Francese, sono quindi ugualmente criticabili. In proposito Sartre prende in particolare l’esempio di un giovane che debba scegliere tra occuparsi di sua madre oppure raggiungere la Resistenza francese a Londra. In entrambi i casi, la massima della sua azione non è morale, poiché deve necessariamente sacrificare un “fine in sé” riducendolo al grado di “mezzo”: abbandonare sua madre è il mezzo per arrivare a Londra, abbandonare i combattenti è invece il mezzo per occuparsi di sua madre.

Sartre ritiene che il suo esistenzialismo sia sostanzialmente ottimista poiché ispira, secondo lui, una morale dell’azione e dell’impegno, che in sé è bene, se l’uomo decide e sceglie in onestà intellettuale. In questo modo l’uomo è responsabile per sé stesso e per tutti. In qualche modo, anche se forse nessun esegeta se ne è accorto (non è un atto di presunzione questa mia affermazione, ma una constatazione finora non smentita), Sartre, con questa sua visione positiva della scelta in buona fede per il Bene ricorda in qualche modo la sinderesi aristotelica, che è la scelta necessaria per il bene, e per il bene morale in particolare, quando la scelta volontaria libera (da Aristotele a Sartre!) è ispirata dall’intelletto che analizza e scevera valutando tutte le opportunità disponibili.

L’esistenzialismo è certamente una dottrina soggettivista e anche “relativista”, ma temperata e temprata dalla fiducia nella scelta morale per il bene.

La sua adesione al comunismo e quindi alla filosofia materialista, come intellettuale engagè (tipo il nostro Vittorini e molti altri). È in questa prospettiva che nasce il progetto della Critica della ragion dialettica (che uscirà nel 1960), la sua adesione al marxismo a partire da I comunisti e la pace (1951) e contemporaneamente la rottura con altri intellettuali. La Critica, però, non è per niente allineata alla dottrina comunista sovietica, ma propone una visione della società che lascia all’individualità larghi spazi di libertà e di affermazione, anche se in una prospettiva che coesiste anche con il determinismo. Nel perseguimento della “unità dialettica del soggettivo e dell’oggettivo” la soggettività è infatti dipendente dall’oggettività socio-ambientale come suo “campo delle possibilità”.

Sartre accetta il pensiero di Marx, di cui predilige il pensiero giovanile, presente in particolare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, e nelle Tesi su Feuerbach (1845), ma distinguendosi, soprattutto dalla posizioni del materialismo dialettico di Engels, per la misura di determinismo che essa inocula nel marxismo. Il filosofo francese critica questo costituirsi a priori come “sapere assoluto”, che l’esistenzialismo invece irrora di realismo e di capacità di libero intervento nella realtà fattuale degli uomini e del mondo.

Interessante e significativa sul tema è questa sua valutazione«In caso di invasione sovietica della Francia non mi sarei potuto aspettare, nel caso migliore, altro che una deportazione; in quell’epoca venivo definito come un essere spregevole dai giornali legati all’URSS.» (Sartre sul rapporto con la politica sovietica).

La sua ultima fase teoretico politica può forse essere delineata in termini di una sorta di terzomondismo distante e distinto da ciascuno dei due blocchi. Sartre dice che l’etica è la capacità dell’uomo di scegliere tra bene e male come intelligenza delle cose del mondo e delle vite umane, da quella di B. a quella di di ciascuno dei 700 di Tobruk, a quella di ciascuno di noi.

Per concludere, a che cosa dunque ci è servito richiamare e citare questi due grandi pensatori contemporanei, con rapidi accenni ad altri precedenti e più importanti, per trattare del tema della morte con riferimento a B. e ai naufraghi di Grecia?

Certamente ad allargare la prospettiva dialettica e teoretica che il tema richiede, prima di trattarlo da un punto di vista etico, come valore.

Volesse il cielo che (utinam!) gli interventi sulla carta stampata e sul web e in tv fossero corroborati da conoscenze adeguate. Ciò che non è, ed è per questo che ho ritenuto utile la presente fatica.

Post correlati

0 Comments

Leave a Reply

XHTML: You can use these tags: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>