Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Livorno 1921, Teatro Goldoni, XVII Congresso del Partito Socialista, scissione a sinistra e nascita del Partito Comunista d’Italia guidata da Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini, tra altri. Nel PSI restano Filippo Turati e altri che ebbero ruoli successivamente fondamentali durante la lotta antifascista e nel Secondo dopoguerra. A 102 anni di distanza la segretaria del PD forse pensa di essere “un” Gramsci, ma è solo (forse) l’ombra di “un” Bordiga. Peccato che in giro non ci sia un Turati, né un Gramsci, né un Terracini, e la destra fa festa (notizie di prima mano dai vertici)

Nel 1921, dal 15 al 21 Gennaio a Livorno, viene convocato il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano.

I fascisti stanno già prendendo in mano le piazze, contendendole ai socialisti, ai repubblicani e agli anarchici e stanno per “marciare su Roma” (con una finta “presa del potere”) per avere l’incarico di formare un Governo di coalizione da Re Vittorio (il “re minimo”, epiteto mio, che mi sembra molto ben meritato, visti i seguenti ventidue anni di storia d’Italia e del suo ruolo istituzionale in quel tempo).

Al centro della foto si riconosce al centro Antonio Gramsci

I Socialisti sono già divisi in due e più fazioni, tra moderati-gradualisti e massimalisti. La Grande Guerra li ha visti su fronti separati, tra interventisti e neutralisti, e anche i reduci e i combattenti rimasti vivi, molti sono mutilati e i più senza lavoro, sono incazzati come bestie (mi si perdoni il lessico poco scientifico e per nulla accademico).

Tra Filippo Turati e Giacinto Menotti Serrati, fra Leonida Bissolati e Antonio Gramsci, Umberto Terracini e Amadeo Bordiga, oramai c’è un fossato insuperabile. Il Congresso lo dimostrerà, indebolendo di fatto tutte le istanze socialiste, sulla destra e sulla sinistra del Partito, che si spezza, lasciando spazio politico al fascismo, come sappiamo.

Nei primi decenni del ‘900 si registrava un generale contesto di scontro all’interno del movimento operaio, politico e sindacale internazionale tra la corrente riformista e gradualista e quella massimalista e rivoluzionaria.

L’Internazionale Comunista (il Comintern) dava indicazioni ovunque di espellere i gradualisti, socialisti riformisti, che qualche anno dopo sarebbero stati chiamati social-fascisti. E così avvenne, come vedremo.

Il Congresso non vide formalmente l’espulsione dei socialisti gradualisti di Filippo Turati, ma l’uscita dei comunisti guidati da Gramsci che fondò il Partito Comunista d’Italia.

Un anno prima il Comintern aveva dettato le conduzioni per essere considerati “socialisti”, la prima delle quali era il cambiamento di dizione: da socialista a comunista. Tutto un altro mondo politico-concettuale! Anche i riformisti gradualisti avrebbero dovuto chiamarsi “comunisti”, altrimenti sarebbero stati ritenuti controrivoluzionari. Sempre la solita storia: se non la pensi come me sei un nemico e devi andare via. Mi sembra che qui echeggi il discorso di Schlein in Direzione PD l’altro giorno: chi non è d’accordo lo dica, ma mi pare che diversi si siano espressi in disaccordo. E adesso, che fa la segretaria, li caccia? “che fai, mi cacci?” mi sembra di sentir echeggiare un furente Fini davanti a Berlusconi una ventina di anni fa. Analogie o… armocromie?

Anche la CGL del tempo era ritenuta nel Congresso responsabile del mancato sfruttamento rivoluzionario del biennio rosso del ’19/ ’20.

Il PSI aveva di fatto lasciato tutta l’iniziativa al sindacato, che aveva condotto una tattica moderata culminata nell’accordo del 15 settembre 1920 con gli imprenditori, mediatore il capo del Governo Giovanni Giolitti. I soli aumenti contrattuali erano un risultato indigesto per i comunisti, che rimarcavano la continuazione dell’egemonia della borghesia sul proletariato operaio italiano.

In ogni caso il PSI aveva aderito all’Internazionale Comunista fin dal XVI Congresso di Bologna dell’ottobre 1919, che aveva ratificato quanto deliberato già a marzo dalla Direzione, e segnato uno spostamento a sinistra delle posizioni del partito, con l’affermazione della corrente massimalista su quella riformista e la centralità assunta dai temi della conquista violenta del potere e della dittatura del proletariato.

Tuttavia la componente massimalista guidata da Giacinto Menotti Serrati non condivideva l’idea di cacciare esponenti riformisti come come Turati, Treves e D’Aragona, che avevano comunque una grossa presa nella classe operaia, come le regole del Comintern avrebbero preteso. Inoltre, i socialisti riformisti non avevano “colpe” soverchie, come quella di avere partecipato, ad esempio, a governi borghesi, o di essere stati interventisti nella Guerra mondiale come i socialisti tedeschi e francesi.

Terracini stesso, che era l’autore della mozione “di sinistra”, non era per il momento, all’inizio del Congresso, dell’idea di un distacco radicale dai riformisti, poiché era convinto che le “masse” non avrebbero colto la spaccatura. Eccoci al partito leader delle masse!

Oramai il Partito era in mano alla maggioranza comunista, anche se si confrontavano ancora diversi gruppi più o meno fedeli al Comintern. Persisteva una preoccupazione diffusa per la rottura dell’unità del Partito.

In ogni caso, i massimalisti, prossimi comunisti, sostenevano che la conquista del potere con la violenza fosse «una necessità transitoria imposta da speciali situazioni e non come un obbligo programmatico», e quindi si dovesse “fare come in Russia“, nonostante non si pensasse che anche negli altri paesi sviluppati si sarebbero realizzate a breve le condizioni per una rivoluzione socialista (peraltro in contrasto con le previsioni di Karl Marx, che ipotizzava, con Engels, che la rivoluzione sarebbe partita dai paesi più sviluppati industrialmente come la Germania e la Cecoslovacchia, avendo storicamente torto, perché la rivoluzione scoppiò nella Russia zarista, arretrata e contadina, la Russia dei mugiki e dei kulaki, non delle aristocrazie operaie del Centro e Nord Europa).

Serrati, capo della mozione massimalista, pur accettando praticamente in toto le indicazioni del Comintern, voleva mantenere (provvisoriamente) per il Partito la dizione socialista, affinché non ne abusassero «fuorusciti di ieri e di domani». La dizione come coperta di Linus!

L’ala sinistra dei massimalisti, però, era già “comunista”, come da manifesto-programma già diffuso qualche tempo prima a Milano a firma di Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini. E da Nicola Bombacci, socialista massimalista, che finì fucilato con quattordici gerarchi (il quindicesimo era un ufficiale d’aviazione sfortunatamente trovatosi in mezzo ai fucilandi) sul muro di Dongo il 28 Aprile 1945, gridando “viva il Socialismo”, dopo vent’anni passati con Mussolini, sempre irriducibile memore del passato di quest’ultimo. Per costoro il nome del Partito avrebbe dovuto essere e sarebbe stato Partito Comunista d’Italia (Sezione della III Internazionale Comunista)» con l’impegno di espellere tutti gli aderenti e iscritti che al Congresso avrebbero dato voto contrario alla completa osservanza delle 21 condizioni di ammissione al Comintern e al programma comunista del Partito.

Tale programma era parte integrante del documento presentato dalla frazione e si sviluppava in dieci punti, che evidenziavano, tra l’altro, il ruolo del partito politico di classe come organo indispensabile della lotta rivoluzionaria; la finalizzazione della lotta all’abbattimento violento del potere borghese e all’instaurazione della dittatura del proletariato; l’individuazione del «sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini)» come forma di rappresentanza nello Stato proletario; l’obiettivo della «gestione collettiva della produzione e della distribuzione» e infine dell’eliminazione della «necessità dello Stato politico», (progetti politico-sociali il cui fallimento totale in seguito la Storia si premurò di dimostrare!).

A quel punto il rischio concreto, in considerazione dei numeri e dei voti congressuali, era quello dell’espulsione dell’ala moderata. In ogni caso vi era tensione tra quel PSI frantumato e l’Internazionale Socialista, che era diretta a quel tempo dal russo Grigorij Zinov’ev, che sosteneva chiaramente i comunisti duri e puri e accusava Serrati di ambiguità. Lenin pure, che apprezzava la storia trentennale del Partito Socialista Italiano, criticò Serrati. Anche il resto degli appartenenti al Comintern lo criticava duramente: «Serrati era involontariamente diventato una forza controrivoluzionaria internazionale», scriveva in una risoluzione.

Uno dei temi della seconda parte del Congresso fu la discussione delle differenze tra il termine di comunismo e il termine di socialismo, distinzione che ad esempio i Russi-Sovietici non apprezzavano. Per loro anche i socialisti erano rivoluzionari come i comunisti. Insomma: un casino! I Socialisti Italiani non riuscivano a dimostrare ai compagni Sovietici che il Socialismo italiano aveva già espulso i riformisti di destra à la Leonida Bissolati, e che quindi potevano esser considerati compagni affidabili.

Umberto Terracini era il più coerente con le 21 determinazioni del Comintern, per cui, a un certo punto, esortò il partito a conformarsi a tali indicazioni espellendo i riformisti, perché costoro ritenevano che si potesse «andare al potere attraverso il regime parlamentare» e perché i riformisti non riconoscevano la validità universale della rivoluzione bolscevica, con la conseguente dittatura del proletariato e socializzazione.

Quanto diverso fu invece il Terracini di venticinque anni dopo, Presidente della Costituente della Repubblica democratica e co-formatario della Costituzione con De Nicola e De Gasperi!

L’esponente della CGL Gino Baldesi, mostrando fin da allora il realismo politico e in non estremismo del mondo sindacale, dopo aver sostenuto che sarebbe stato meglio dedicare il congresso alla discussione nel merito dei 21 punti anziché al tema dell’espulsione dei riformisti, proclamò che i membri della sua frazione avrebbero accettato la disciplina della maggioranza in nome dell’unità del partito. Le cose si stavano mettendo molto male per l’unità del Partito.

Un episodio curioso: dopo che Vincenzo Vacirca, delegato siciliano aveva proposto di discutere e di cose concrete, come le problematiche del Mezzogiorno, Nicola Bombacci, infuriatosi, gli mostrò una pistola.

Il 19 gennaio la seduta fu aperta con la commemorazione del padre del movimento socialista italiano Andrea Costa, ma Amadeo Bordiga disprezzò l’intera storia de movimento socialista a cavallo dei due secoli e di prima della Guerra, accusandolo di essere stato conservatore e connivente con Giolitti e gli altri capi del governo liberal-borghesi succedutisi.

Per l’ingegnere compagno Bordiga bisognava osservare i famosi 21 punti del Comintern, poiché, sostenne, dove la socialdemocrazia era andata al potere non aveva portato a un avanzamento sociale, per cui occorreva fare proprio come i bolscevichi di Lenin e lottare con la violenza per instaurare la repubblica dei Soviet. Ora mi viene un po’ da ridere del mio titolo, laddove ho paragonato l’attuale segretaria del PD a Bordiga… ma vi figurate questa figuretta alla moda che guida le masse verso il Sol dell’Avvenire. O ha ragione (finalmente, dopo aver avuto tante volte torto), Bertinotti che la definisce una liberal (cui io aggiungo radical chic). Ed essere liberali non è per niente male, ma bisogna esserlo sempre e non solo con i propri, altrimenti sorge una contraddizione logica e morale.

Essere-liberali, come ho scritto qualche settimana fa, significa essere capaci di separare il proprio giudizio politico di appartenenza dal filtro ideologico-morale dell’appartenenza stessa! Niente da fare: per tanti sforzi che io produca con-chi-non-ce-la-fa, questi continua a non farcela. Probabilmente si tratta di un problema cognitivo.

Serrati, a quel punto, tentò una difesa del Partito dai violenti attacchi dell’Internazionale, ma forse non si accorgeva di essere stato anche lui uno di quelli che avevano aperto un’autostrada a chi voleva fare come in Russia. Serrati rivendicò un trattamento da parte del Comintern almeno simile a quello riservato ai socialisti francesi dello SFIO, più moderato, anche per evitare uno “scivolamento a destra”, sua espressione, come accaduto in Inghilterra dove il movimento operaio era stato fagocitato da un laburismo moderato e quasi corrivo nei confronti delle forze tory (anche se non era vero).

Commento mio: non si può fare l’occhiolino impunemente all’estremismo per poi pretendere di controllarlo una volta che abbia preso la maggioranza! Anche la storia italiana dell’ultimo mezzo secolo lo dimostra! Non occorre che qui specifichi e spieghi più di tanto quanto ho appena scritto. Basti pensare al concetto di “album di famiglia”, che attesta l’origine di sinistra delle Brigate rosse etc., dovuto all’onestà intellettuale di Rossana Rossanda, la “ragazza rossa”.

L’intervento pomeridiano del giorno 19 di Filippo Turati mostrò il profondo dissenso ideologico che lo separava dai comunisti: da esso emergeva infatti il netto rifiuto di ogni soluzione rivoluzionaria violenta e una strenua difesa del riformismo socialista e della sua «opera quotidiana di creazione della maturità delle cose e degli uomini» (frase che io sposo in toto or ora!), che sarebbe sopravvissuta al «mito russo» dietro cui, secondo il leader socialista, si celava il nazionalismo. Sempre redivivo, potremmo aggiungere, alla luce degli eventi degli ultimi decenni putiniani. Turati attaccò il principio del ricorso alla violenza, propria delle minoranze e del capitalismo, e sottolineò come la dittatura proletaria dovesse essere di maggioranza, e cioè democratica, per non trasformarsi in mera oppressione. Mi sarebbe piaciuto essere lì.

Turati fu molto applaudito, anche da parte dei massimalisti, ma non dai comunisti, come è ovvio. La sua compagna la dottoressa Anna Kuliscioff (nota a Milano e oltre come il medico dei poveri, e soprattutto delle povere donne del popolo di quel tempo, che la chiamavano “la dotòra“), orgogliosa e convinta ebbe a dire che «da accusato e quasi condannato» il suo Filippo fosse «diventato trionfatore del congresso»

Naturalmente, ma da ben altri interessi motivato, anche Mussolini lodò Turati dalle colonne de Il Popolo d’Italia, quasi attribuendo a sé stesso il merito di aver cercato di contrastare i massimalisti… ma lui, da socialista era stato un massimalista, un socialista rivoluzionario egocentrico e narcisista (un campione!), più attento a Georges Sorel che non a Eduard Bernstein!

Nicola Bombacci (eccolo qua che interveniva prima di partire per ben altri lidi che lo avrebbero ricongiunto in una tragica morte con Benito) parlò di una separazione dolorosa ma necessaria, alla luce del periodo rivoluzionario attraversato dal paese e del bisogno di chiarificazione — come stava avvenendo nel resto del mondo — in seno al movimento socialista e alle sue «due scuole».

Oramai si era di fronte a una flebile speranza di evitare la rottura, finché anche le ultime mediazioni di Serrati e del rappresentante del Comintern
Rákosi, che aveva telegrafato a Mosca per ottenere direttive ultime, non ebbero successo. Anche Mosca aveva confermato l’indicazione internazionalista di rompere.

Si giunse quindi alla sesta giornata del congresso, durante la quale erano in programma le operazioni di voto. Prima ci fu però spazio per altri interventi, che auspicavano si riuscisse a mantenere l’unità del Partito, ma prevalsero quelli che si richiamavano alle direttive del Comintern, e non fu possibile evitare che il compagno Misiano leggesse una dichiarazione congiunta di Kabakčiev e Rákosi, secondo la quale l’unica mozione accettabile era quella comunista.

A seguito del ritiro dei documenti della circolare e degli intransigenti, la votazione si svolse su tre mozioni: quella unitaria o “di Firenze” (sottoscritta da Baratono e Serrati), quella comunista o “di Imola” (Bordiga-Terracini) e quella concentrazionista o “di Reggio Emilia” (Baldesi-D’Aragona).

Degli esiti, che rispettarono le previsioni riflettendo i dati registrati durante i congressi provinciali, diede conto il presidente Bacci la mattina del 21 gennaio: su 172 087 suffragi validi, i delegati avevano assegnato 98 028 voti agli unitari, 58 783 ai comunisti e 14 695 ai concentrazionisti, mentre le astensioni erano state 981. L’approvazione della mozione Baratono-Serrati fu seguita dall’intervento di Polano (la Federazione Giovanile «delibera di seguire le decisioni che prenderà la frazione comunista», con tipico afflato giovanilista) e dall’annuncio di Bordiga secondo cui la maggioranza del congresso si era posta fuori dalla Terza Internazionale, e pertanto i delegati della mozione comunista avrebbero abbandonato la sala. Subito dopo i comunisti uscirono dal Teatro Goldoni cantando L’Internazionale e si riunirono al Teatro San Marco.

Nella nuova sede, i delegati che avevano lasciato il congresso socialista tennero il I Congresso del Partito Comunista d’Italia e ratificarono la nascita del nuovo partito.

Vorrei qui esprimere un rammarico che inizia con un “se”: se a Livorno non vi fosse stata quella scissura e separazione, prima ideologica e poi politica, come sarebbero andate le cose nella sinistra italiana, anzi, nella storia dell’Italia? Ma la storia, così come la vita delle persone, di ciascuno di noi, non si fa con i “se”, con le concessive ipotetiche, perché la storia lavora con il modo indicativo della morfologia linguistico-espressiva. In italiano, almeno.

Riscontro una certa quale analogia, spero senza conseguenze, tra quella lontana vicenda e le attuali concernenti il Partito Democratico. Mi spiego subito: se la sinistra italiana sarà ancora capace di spaccarsi più di quanto non lo sia già, di questi tempi non c’è nessun pericolo che segua o arrivi un fascismo, ma certamente una forma di iattura cultural-politica sì, perché è già in corso e potrebbe aggravarsi.

Vedo che la destra si è tatticamente compiaciuta dell’elezione di Schlein (in tema io ho notizie di primissima mano). Mi chiedo chi sia andato a votare ai gazebo per Schlein. Nessun giornale della sinistra – a mia conoscenza – se lo è chiesto con un’inchiesta socio-politica, né la grande Repubblica, né il raffinato Manifesto, né il debenedettiano Domani, né L’Unità rediviva, né Il Fatto Quotidiano dell’odiatore Travaglio, né gli intellettuali televisivi più o meno organici. Ma neanche i giornali di destra se lo chiedono, mentre i 5S gongolano come il Gongolo disneyano. Chissà perché? Forse che molti in giro sanno chi erano quelli che hanno trasformato una vittoria certa di Bonaccini (il mio voto e di chi mi sta vicino lo ha avuto) con il voto interno, in una sconfitta dopo il voto esterno. Bonaccini, non certo un pericoloso estremista, ma un vecchio (abbastanza giovane) ex comunista di stampo socialdemocratico emilian-romagnolo; non un ri-fondatore del riformismo socialista, ma un amministratore ragionevole e razionale. Qualcuno ha scritto o detto che occorreva una scossa.

Eccola qua: radicalchicchismo, imitatio Alexandriae Ocasio Cortez et similia, american-scandinav-dirittismo a manetta, etc.! Un lib-lab dirittistico che nulla ha a che fare con la struttura portante dell’Italia, con le strutture marxiane dell’economia e della società, e nemmeno con la sua robustissima cultura classica, scientifica e tecnologica. Per la cultura politica perseguita dalla Segretaria conta più discutere e battagliare sui decreti delle Procure intorno alla trascrizione genitoriale di bimbi nati da G.p.a. (preferisco l’acronimo) che non del reddito reale e del potere d’acquisto delle famiglie dei cittadini italiani. Il nulla!

Il populismo confusivo e incomprensibile (sia nei concetti sia nel linguaggio) della Segretaria sta già facendo i suoi danni a sinistra, e di peggio arriverà, da qui alle elezioni europee del 2024, e soprattutto con quelle, se nel frattempo il Partito non rinsavirà (sarà rinsavito?).

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