L’amore vero non finisce, magari si trasforma, ma non ha fine
Ho trattato recentemente di questo sentimento che è molto più di un “sentimento” (i classici antichi e i Padri della chiesa lo chiamano, con intendimenti diversi, “passione”, una delle tredici codificate nello specifico elenco, la più potente, che contiene intrinsecamente l’etimologia di “patire”, di sofferenza), declinandone le varie modalità di esistere-in-diverse-essenze e modalità.
Le riassumo nuovamente con i tre termini greci fondamentali: l’amore di benevolenza, disinteressato (agàpe), cioè quello che ha a cuore il bene dell’altro; l’amore per le cose belle (philia), e l’amore erotico (eros). Qui parlo dell’amore nella coppia umana, tra un uomo e una donna, senza eccepire alcunché su altri tipi di amore.
In qualche modo, con questo pezzo onoro a modo mio anche Francesco Alberoni, che ha avuto il merito di studiare l’amore in tutta la sua vita, con particolare attenzione al suo “stato nascente”, al suo incipit, perché bisogna sempre chiedersi “dell’inizio”, di ogni cosa, per capire dove può “andare” nel corso del tempo umano.
Può avere inizio in qualsiasi modo, iniziando da eros e rivolgendosi a philia, oppure procedendo da philia verso eros, ovvero da agàpe a philia e infine a eros, o con qualsiasi altro intreccio tra i diversi modi dell’amore. Ciò che è vero è che non può darsi vero eros senza agàpe. Altrimenti è solo miseranda “fruizione di corpi”, ma non nel senso agostiniano del verbo “fruire”, che significa godere della bellezza del rapporto, condividendola, cosicché – nel caso di eros senza agàpe – si direbbe meglio con il verbo “usare”.
Nella mia esperienza non c’è mai stato solo eros senza qualcos’altro, anche se minimo, di agapico, di benevolente. Affinché eros sia vero e forte e duraturo deve essere supportato dall’amore di benevolenza, da agàpe.
L’esperienza insegna che si possono vivere anche due “amori” in contemporanea, ma non devono essere tutti e due completi di eros e agàpe: solo uno dei due lo può essere. Come è possibile? Si tratta di tradimento? Siamo fatti per essere assolutamente monogami noi umani?
Provo a rispondere alle tre domande:
a) che sia possibile vivere due storie, una solo di agàpe e l’altra con agàpe ed eros, è fuori questione, perché la risposta è sì, poiché si tratta di due rapporti affettivi profondamente differenti: in quello dove vi è l’eros accompagnato da agàpe, uomo e donna (non tratto di altre multiformi situazioni, che non disprezzo, ma neppure riesco a comprendere molto) hanno certamente trovato una dimensione particolare, unica, che non può essere “raddoppiata” per varie ragioni: per una specifica attrazione, per la misteriosità di eros, per rispetto dell’altra persona e dell’altra ancora, etc.;
b) che si tratti di “tradimento”… occorre prima riflettere sul termine: “tradimento” ha la stessa etimologia di “tradizione”, di trasmissione di un qualcosa; ebbene, nel “tradimento” c’è la trasmissione di qualcosa di reale; se poi lo intendiamo nell’accezione politico-giuridica, per cui può essere talmente grave da far meritare – in certe situazioni – perfino la pena di morte (tradimento della Patria in tempo di guerra), pena che nell’esempio posto tra parentesi potrei condividere, allora, nel caso dei rapporti affettivi si può dire che si tratta sì del “tradimento” della promessa di fedeltà in ambito matrimoniale, e anche di qualsiasi altro modo d’essere della coppia umana, ma, se eros è accompagnato da agàpe non può essere considerato tradimento-della-propria-umanità singolare ed unica.
Può essere che un uomo si possa innamorare di una donna anche se sta “ufficialmente” con un’altra, e viceversa, senza che ciò debba essere considerato, per la sola ragione del valore monogamico dei rapporti nella nostra cultura, un male morale inaccettabile. Può essere certamente fonte di sofferenza per la persona “tradita”, ma, se il “tradimento” viene comunicato e si crea una situazione di accettazione dello stato delle cose, la sofferenza può essere gestita, e il (supposto) “male morale” può essere perfino collocato accanto, e non in competizione, al maggiore bene del nuovo rapporto, nonostante la com-presenza del dolore; non dimentichiamo che la gioia può stare anche dentro il dolore, come il miglioramento della salute durante una grave malattia;
c) e infine, la domanda delle domande: noi esseri umani siamo fatti per essere monogamici? Innanzitutto, se interpelliamo la storia di popoli e nazioni, troviamo di tutto: matriarcato, laddove le donne decidono tutto o quasi, dove c’è la famiglia nelle sue varie forme, ma non il matrimonio esclusivo come nella cultura occidentale (alcuni esempi di terre e popoli diversi: i Bretoni dei tempi di Cesare, i nativi Irochesi, alcune civiltà dell’Indo, i Minangkabau di Sumatra, i Mosuo della Cina, i Lahu della Cina sud occidentale, la popolazione di Juchitán nel Messico meridionale, i Nair del Kerala, India meridionale, la poliandria presso le società tradizionali tibetane (in Tibet, Sikkim, Ladakh), la Polinesia Francese, le Isole Trobriand della Papuasia, gli Arapesh d’Oceania, etc., su cui raccomanderei gli studi degli antropologi Bronislaw Malinowski, Claude Levi-Strauss e Margaret Mead, tra altri) …); patriarcato, laddove gli uomini decidono tutto (e qui non occorrono esempi, perché si tratta della maggior parte delle situazioni socio-antropologiche, storiche ed etico-giuridiche); ovvero, infine, la condivisione di un altro partner, come nel caso della compresenza di una situazione agàpe + eros, ovvero di una situazione solo agapica.
Esco dal testo antropologico-filosofico per tornare semplicemente all’umano, al sentimentale, al solidale, a ciò-che-attrae una persona ad un’altra. Come è successo anche a… Una volta e per sempre. Posso parlarne con rispetto per tutte le persone coinvolte, in tutti e due gli “amori”, anche se non è facile.
Non ho la sensazione che vi sia del male, che si faccia-il-male, perché mi sembra che in quella situazione si stia certamente in un “posto faticoso”, ma in qualche modo “giusto”, quasi provvidenziale. Oso perfino dire che se “lo Spirito soffia dove vuole”, ebbene, nel caso citato ha soffiato nel senso di costruire questo “edificio affettivo” complesso.
Nella mia vita sono stato coinvolto da sensi di colpa, e poi mi sono talvolta accorto, riflettendo con più attenzione, che dietro il “senso” non c’era la colpa. Non sempre fare cose non coerenti con il costume vigente costituisce una colpa o un peccato, come sapientemente insegna Martin Buber.
L’eros nel tempo può declinare con dolce lentezza, ma non l’agàpe, che può invece crescere indefinitamente, perché questo tipo di amore non ha mai fine… e senza che alcuno si scandalizzi, caro lettore, è questo inno di san Paolo, che ti propongo, il modo migliore per dire nel modo più alto che cosa sia l’amore più alto, l’agàpe, l’amor benevolentiae, disinteressato e potente, che san Paolo chiama Carità, come sinonimo di agàpe o amor benevolentiae:
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. 4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. 12Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!“ (Prima lettera ai Corinzi, cap. 13, 1-13) |
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