Constato che “non viviamo, non siamo nello Spirito”, che siamo fuori dalla poesia-creazione-parola-incarnata del “divino” ebraico/ cristiano e platonico/ aristotelico, perché secondo qualche esimio intellettuale sarebbero “fuori tempo massimo”… mentre prendo atto dell’ennesima idiozia, la critica allo spot di Esselunga, leggo ciò che dice il prof. Galimberti (che è stato tra i fondatori dell’Associazione filosofica italiana che ho presieduto per un biennio io stesso, Phronesis) al festival della filosofia di Modena, e resto desolato…
Leggo che soprattutto a sinistra si sta criticando lo spot di Esselunga dove una bambina cerca, con la sua freschezza, di mostrare che mamma, anche se si sta separando da papà, ha ancora un pensiero tenero per lui, mentre gli porge una pesca dicendo: “E’ della mamma per te“.
Giuro che non capisco. Giuro. Che danni può fare uno spot del genere ai diritti civili, e in particolare al divorzio? E’ questo il pensiero di chi critica? Quella bambina fa tornare indietro la “cultura civile italiana?”
Non pensiamo stupidaggini, né tantomeno proferiamole. Non nego l’importanza di discutere di questi argomenti attraverso commenti a uno spot pubblicitario: dissento da chi ne fa uso di propaganda politica, come è “scappato di fare” a Meloni e a Salvini (peraltro cittadino italiano papà di figli di compagne diverse). Epperò faccio notare a chi critica lo spot da sinistra, come la mettiamo con i ben più numerosi spot che sostengono le famiglie arcobaleno?
In ogni caso, l’opinione pubblica e i media si stanno occupando forse troppo di questo spot, mentre un popolo, ad esempio quello armeno, viene cacciato dalla propria patria, il Nagorno Karabak. Ci interessa di più il petrolio azero…
Sul versante della cultura “alta” leggo le parole che spende a Modena, nell’ambito del Festival della Filosofia, il (meritatamente) noto professor Umberto Galimberti e rimango male. Molto.
Se il milieu culturale generale attuale italiano è anche quello esemplificato nello spot di cui sopra, di contro, invece di constatare che si potrebbe dare generosamente un pensiero riflessivo come ausilio per la riflessione delle persone e a chiarire le zone buie o sconnesse delle pubbliche opinioni, rilevo l’esatto contrario.
Sullo spot di cui sopra tornerò più avanti. Intanto mi interessa parlare un po’ del pensiero di questo intellettuale così importante, di un pensiero che da anni sta proponendo, desolatamente di taglio pessimista, se non nihilista.
Innanzitutto, cari lettori, non dimentichiamoci mai che gli intellettuali, soprattutto quelli molto “mediatizzati”, tipo il su citato o il dott. Crepet, hanno una enorme responsabilità per ciò che sostengono, per come lo fanno, e per i luoghi, ambienti e tempi nei quali si esprimono.
Non posso accettare che Crepet, quando interviene in pubbliche sale ricolme di genitori, usi un tono, non solo predicatorio, ma spesso svilente e offensivo nei confronti dei presenti, che sarebbero, a suo autorevole e molto auto referenziale parere, tutti (o quasi) incapaci di educare nel modo giusto i loro figli.
Tornando a Galimberti, per me non è culturalmente condivisibile questa sua proclamata idea che oggi ogni pensiero fondato su convinzioni “forti” sia fuori luogo, perché “sarebbero” finiti i tempi dei “pensieri forti” della tradizione giudaico-cristiana e greco antica. In altre parole, che oggi ci si deve rassegnare al provvisorio, all’eventuale, al pressapoco, accontentandoci di questo. No!
Potrei cominciare ad imbastire qui un discorso teoretico, propriamente filosofico, prima di carattere estetico (nel senso aristotelico di un’àisthesis, cioè di una “manifestazione dell’essere”, metafisico finché si vuole, ma verificabile), e poi introducendo il tema scientifico dell’etica, come scienza del giudizio morale sull’agire libero, buono o malo dell’uomo, e come sapere strutturato su uno statuto robusto e logicamente non confutabile. Non lo farò per non appesantire il testo.
Mi limiterò, invece, a mostrare con semplicità come non sia accettabile, né razionalmente, né moralmente, che si segua Galimberti su questo versante di rassegnazione che non prevede una ri-segnazione (lemma che costituisce filologicamente e semanticamente la radice del termine precedente) di nuove partenze verso idee filosofiche relative alla vita e al pensiero tout court. Questo mai.
Caro Galimberti, non dobbiamo temere la metafisica! Mai! La metafisica è la strada per com-prendere la possibilità di ordinare il pensiero sul giudizio intorno alla verità delle cose. Caro Galimberti, tener da conto la struttura di pensiero monolitico di Parmenide, che scrive dell’essere rotondo e fisso, o di Aristotele che suggerisce un metodo robustamente argomentato su come-ragionare (con il sillogismo, cioè con la logica, che appartiene a d ogni sapere naturale storico-umano) non vuol dire credere che tutto-ciò-che-esiste sia rigidamente fisso e immutabile, no.
Aristotele e Platone hanno sintetizzato la nozione di “essere” di Parmenide assieme con il “pànta-rèi” eracliteo. Tutto scorre, epperò sul tessuto dell’essere (delle cose).
Non si può, caro Galimberti, ridurre tutto alla nientificazione che lei trae da soprattutto dal pensiero Nietzsche e da quello di Heidegger, che (se li si studia con attenzione, come non mi permetto di dire che lei non abbia fatto) non rifiutano affatto la metafisica come sapere filosofico, se non le sue “aberrazioni” di scuola, ma ne costruiscono una ad hoc, che si adatta al loro pensiero, il primo studioso ponendo la singolarità del soggetto-irriducibilmente unico-vivente-volente, che vuole acquisire un essere-completo, mentre il secondo osserva l’essere dal punto di vista del “ci”, del soggetto, del “sein” che comprende il “da” (da-sein, cioè esser-ci). In fondo, nel pensiero dei due germanici il nihilismo è fortemente temprato nella capacità del pensiero, di ogni pensiero, di autosostentarsi!
E mi fermo qui, altrimenti tradisco il mio assunto di non “rompere” le p. a chi legge.
E vengo all’ambiente (all’habeo–habitus) giudaico-cristiano. Ebbene, qui proviamo a recuperare Esodo, vale a dire Mosé che “vede” Dio, ma evitando di guardarlo (perché non si può vedere Dio e restare in vita), e acquisisce il nome di Dio, che è “io sono-io sono“, ovvero “io-sono-colui-che-sono” (eyè asher eyè).
Cosa c’è di implausibile in questa visio mundi, humanae vitae realitatisque? Intanto, nulla di ovvio, ma tutto di originale.
Caro Galimberti, altro che rifiutare queste fonti, che secondo lei si sarebbero inaridite. Frequentiamole, invece! magari irrorate di ciò che in filosofia hanno suggerito della differenza, cioè dell’interpretazione, del mettersi (empaticamente) nei panni degli altri, anche degli antichi: come insegnano ancora, tra altri, Origene di Alessandria, san Gregorio di Nissa e sant’Agostino e, venendo ai nostri tempi, Martin Heidegger, Paul Ricoeur, Hans Georg Gadamer e il nostro Luigi Pareyson.
Noi qui e ora, se vogliamo sbrogliare questa matassa insana a volte infame, dobbiamo riprendere a credere che occorre spogliarci del nostro io egoico-egolatrico-egoistico-autoreferenziale-superbo e arrogante e tornare a immergerci come in un rinnovato battesimo (baptìzomai, in greco, significa immergersi) nell’umiltà, nell’accoglienza del “nome” di Gesù (Jehoshua, cioè Dio salva!) il Cristo, per chi crede in Lui, e dell’uomo per chi si colloca sul versante del-non-porsi-il-tema-di-Dio.
A proposito del Nome, consiglio a chi è curioso di questi argomenti, di leggere il volume tratto da una tesi di laurea magistrale da me diretta, L’anima e il suo Nome, di Matteo Pozzi di Trieste, che sarà pubblicato tra pochi giorni dall’editore Segno (Tavagnacco – Udine).
E, infine, torno allo spot di Esselunga. A mio avviso, può essere critico e dispiaciuto per questo spot elegante solo uno che coltiva il politicamente corretto, immerso in un’enfasi “di tipo americano” da civil rights, e magari la cancel culture, da uno che aborre lo studio della storia, che è costituita e costruita, da un lato da contrasti e contraddizioni, nonché da tragedie immani, e dall’altro da eroismi di milioni e milioni di esseri umani di ogni tempo, luogo, cultura e religione.
Lo spot è bello e rispettoso (e la tristezza della bambina non è un attacco al divorzio, parbleu! né sconvolge un bambino di genitori separati che lo veda, perché questi vive concretamente ogni giorno la situazione rappresentata, suvvia, signora giornalista Silvia D’Onghia, che dalle colonne del Fatto Quotidiano quasi si straccia le vesti per la sceneggiatura), cari uomini e donne della sinistra che lo criticate (esclusa Schlein, che ha mostrato intelligenza nel non commentarlo, così distinguendosi dagli esponenti della destra, ma anche da molti dei suoi, tipo Bersani e Fratoianni che hanno detto che molti italiani non possono neanche permettersi di comprare quella pesca: il pietismo populista/ pauperista colpisce ancora!), e rappresenta un bandolo di ri-umanizzazione della comunicazione mediatica. Riserviamo le nostre energie critiche ad altri e più opportuni obiettivi, orsù, come l’impoverimento dei linguaggi e la banalizzazione delle relazioni inter-umane.
…e magari il contenimento del numero dei raccoglitoridicacchedicane che, se si incontrano per strada, si scambiano sicuramente i nomi dei rispettivi cani, ma non sempre i loro nomi propri di persone umane. Sembra incredibile, ma siamo a questo punto.
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