Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

“(…) ha fatto cose giuste e ha fatto anche cose sbagliate…” (afferma Giulio Napolitano, citando suo padre, che in questo modo ebbe a scrivere concludendo l’autobiografia, durante le esequie laiche del 26 Settembre 2023 celebrate a Palazzo Montecitorio)

Sono rimasto stupito e ammirato di queste parole espresse dal professor Giulio Napolitano, figlio maggiore del Presidente Giorgio, mancato dopo una lunga e valorosa vita politica nei giorni scorsi.

Devo dire che Giorgio Napolitano, come dirigente del PCI e come politico non mi ha mai “scaldato particolarmente il cuore”. Lo ho sempre percepito, forse con qualche pregiudizio (che è un giudizio prematuro, incompleto), un po’ come un apparatcik di stampo sovietico post staliniano.

Infatti, nonostante storicamente abbia rappresentato, assieme a Giorgio Amendola e a Gerardo Chiaromonte, quella che veniva chiamata “area migliorista” del Partito, e quindi la più vicina per cultura politica al mio socialismo riformista turatiano, nenniano e craxiano, umanamente mi sentivo, ai tempi del PCI trionfante degli anni ’70/ ’80, più vicino a figure come Pietro Ingrao, il “dialogante” con i giovani e con “quelli del Manifesto”, con la ragazza rossa Rossana Rossanda, con Luigi Pintor, con Aldo Natoli e con il caro Lucio Magri, che ebbi modo di conoscere, che non a Napolitano.

E torno al discorso di Giulio. Il figlio certamente si riferiva alle posizioni che il padre assunse nel 1956 al tempo della Rivoluzione ungherese, quando quel capo riformista, Imre Nagy, dopo che il moto popolare fu soffocato nel sangue, fu catturato dai post stalinisti, condannato a morte e impiccato; e nel 1968, quando i tank del Patto di Varsavia intervennero come in Ungheria, e schiacciarono la Primavera di Praga e allontanarono Alexander Dubcek dalla Segreteria del Partito comunista cecoslovacco, che aveva assunto posizioni riformiste di apertura a forme di pluralismo e di democrazia.

Il ’68 praghese aveva messo in grande difficoltà il PCI di Luigi Longo e del successivo segretario Enrico Berlinguer, che qualche anno dopo ebbe il coraggio (qualcuno sostiene che fu un coraggio tardivo, ma invito questo qualcuno a mettersi nei panni di Berlinguer in quei primi anni ’70) di parlare di “fine della spinta propulsiva dell’Unione Sovietica“, e di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della NATO come Nazione italiana, rischiando così di farsi ammazzare da un camion a Sofia, in un attentato organizzato dai Servizi segreti bulgari per conto del KGB. (Pare).

Dov’era Napolitano in quei frangenti? E’ questo che probabilmente intendeva suo figlio Giulio nella sua omelia tenuta durante le esequie laiche. Nei ’70 poi, però, Giorgio Napolitano “venne allo scoperto”, e fu il primo dei comunisti italiani a essere invitato negli USA, strada che imparò e insegnò anche agli altri, come ha sottolineato D’Alema, dicendo queste parole: “Napolitano è colui che ha portato nel PCI la cultura democratica anglosassone“. Vero. E’ un merito, anche se la cultura democratica anglosassone non è priva di brutti difetti.

Come Presidente della Repubblica, rieletto una seconda volta, ha rappresentato la Nazione con grande dignità anche se con un piglio un po’ autoritario, in un contesto di estrema debolezza dei partiti, e , in generale, fece bene. Ricordiamo ancora tutti il suo discorso di insediamento per il secondo mandato, quando letteralmente “schiaffeggiò” i partiti che (un po’ idiotamente) lo applaudivano in Parlamento, denunziando la loro insipienza, e in presa diretta li invitò a non applaudire le critiche che stava loro rivolgendo, per non incappare addirittura nel ridicolo.

Napolitano è stato un grande personaggio della politica italiana del dopoguerra, per lo più, a mio avviso, da collocare sul versante positivo, perché seppe diventare, da militante politico non mai banalmente allineato sulle posizioni di chi governava il suo PCI e poi i partiti che seguirono (PDS, DS, PD), uomo delle istituzioni repubblicane affidabile e stimato in Italia e all’estero.

La sua laicità non è mai stata militante, perché ha saputo e voluto dialogare con la Chiesa e con due papi, con papa Benedetto e con papa Francesco. In Napolitano si può riconoscere lo spirito “cavouriano” di chi desidera tenere separati rigorosamente i due ambiti nel rispetto reciproco, ma non nell’ignoranza reciproca. La tradizione migliore della laicità italiana.

In politica, anche da comunista, Napolitano è stato un uomo dialogante, mai contrario a trovare convergenze con chi oggettivamente sentiva più vicino, come i socialisti. Mai anticraxiano come molti suoi compagni, avendo la capacità di distinguere la grande politica nella prospettiva strategica e storica, dal giudizio sui singoli personaggi che potrebbero avere caratteristiche ritenute poco “di sinistra”, come il protagonismo e il decisionismo, come se i grandi capi della tradizione comunista (Lenin, Stalin, Mao, Castro, etc.) non fossero stati decisionisti, e anche molto autoritari, incomparabilmente più di lui. Giorgio Napolitano seppe valutare con equilibrio, ad esempio, l’episodio nel quale il Capo del Governo Bettino Craxi si oppose agli Americani (in quel caso al Presidente Reagan), quando questi volevano catturare Abu Abbas a Sigonella, responsabile di azioni terroristiche gravissime, ma in consegna allo Stato Italiano, e fece circondare i Delta Force da un reparto dei Carabinieri, per far capire agli Americani che in Italia comandava il Governo italiano. Nella tradizione precedente, soprattutto dopo la Seconda Guerra mondiale, gli USA, i nostri principali liberatori dal nazi-fascismo, erano abituati a ben altre genuflessioni, e Bettino non si genufletté.

In quel caso il compagno Giorgio fu fortemente e chiaramente “patriottico”.

Durante le esequie laiche, il cardinale Ravasi ha ricordato come Napolitano fosse un uomo spiritualmente inquieto e in ricerca. Ascoltando assieme l’Ave verum di Mozart, Napolitano ebbe a commentare: “Sono stati quattro minuti di bellezza ultraterrena“.

Noi nulla sappiamo del cuore dell’uomo, di quell’uomo.

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