Hamas e il groviglio tragico del Vicino Oriente
Quanto ha avuto inizio, di terribilmente tragico, sabato 7 Ottobre 2023 in Israele, nel Vicino Oriente (non Medio Oriente che è più a Est!) mi suggerisce di affrontare in qualche modo il tema “Hamas”, certamente nei limiti della mia non-specializzazione storiografica e storico-contemporanea, ma utilizzando gli strumenti politologici e filosofico-teologici a mia disposizione, perché quanto accaduto, al di là della sua dimensione terribilmente bellica, è estremamente complessa e merita di provare a congiungere la riflessione utilizzando diverse chiavi di lettura. Parto da una breve sintesi che riguarda l’organizzazione socio-politico-militare autrice dei fatti iniziati qualche giorno fa.
Dal web: Ḥamās, acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (in arabo حركة المقاومة الاسلامية?, Movimento Islamico di Resistenza, ovvero حماس, «entusiasmo, zelo, spirito combattente») è un’organizzazione politica e paramilitare palestinese islamista, sunnita e fondamentalista, che si può definire, sulla base dei parametri politologici di giudizio in uso, di estrema destra, tant’è che si configura, nei suoi propositi ideologici, come antisemita e antiebraica, prima e più ancora che come anti-istraeliana.
Ha un’ala militare (le Brigate Ezzedin al-Qassam) ed è considerata un’organizzazione terroristica da Unione europea, dall’Organizzazione degli Stati americani, dagli Stati Uniti, da Israele, dal Canada, da una corte giuridica in Egitto, e dal Giappone, ed è bandita dalla Giordania, mentre Australia, dalla Nuova Zelanda, dal Paraguay e dal Regno Unito, classificano solo la sua ala militare come organizzazione terroristica.
Fondata dallo sceicco Ahmed Ysin, ‘Abd al-‘Aziz al-Rantisi e Mahmud al-Zahar nel 1987 sotto la pressione dell’inizio della prima intifada come braccio operativo dei Fratelli Musulmani per combattere con atti di terrorismo lo Stato di Israele, Hamas ha commesso e rivendicato svariati attentati suicidi contro i civili israeliani, tra cui l’attentato di Gerusalemme del 1997, quello di Rison LeZion del 2002 (16 vittime ciascuno), il massacro del bus 37 ad Haifa (17 vittime civili, la maggior parte delle quali bambini e adolescenti) e molti altri soprattutto durante la seconda intifada, provocando centinaia di vittime civili e militari. Dal 2001, ha più volte attaccato Israele con razzi, principalmente Qassam e, in misura minore, razzi per BM-21 Grad, venendo accusata di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Hamas gestisce anche ampi programmi sociali, e ha guadagnato popolarità nella società palestinese con l’istituzione di ospedali, sistemi di istruzione, biblioteche e altri servizi in tutta la Striscia di Gaza.
Lo Statuto di Hamas propone il ritorno della Palestina alla sua condizione pre-coloniale e l’istituzione di uno Stato palestinese. La stessa Carta dichiara che “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihad. Ciononostante nel luglio 2009 Khaled Mesh’al, capo dell’ufficio politico di stanza a Damasco”, ha dichiarato che Hamas era intenzionato a cooperare con una “soluzione del conflitto Arabo-Israeliano che includesse uno stato Palestinese sui confini del 1967”, a condizione che ai rifugiati palestinesi venisse riconosciuto il diritto al ritorno in Israele e che Gerusalemme Est fosse riconosciuta come capitale del nuovo stato. Tale risoluzione, ovvero l’accettazione della soluzione a due Stati, è stata ripetuta varie volte dagli esponenti di Hamas e dai suoi sostenitori. D’altra parte Israele (insieme agli Stati Uniti) sembra accettare solo formalmente tale soluzione.
Inoltre nel 2006 Isma’il Haniyeh, leader di Hamas all’epoca, ha dichiarato: «Se Israele dichiarasse di dare ai palestinesi uno Stato e ridare loro tutti i loro diritti, allora saremmo pronti a riconoscerli».
L’ala politica di Hamas ha vinto diverse elezioni amministrative locali in Gaza, Qalqilya e Nablus. Nel gennaio 2006 con una vittoria a sorpresa alle elezioni legislative in Palestina del 2006 con il 44% circa dei voti, Hamas ottenne 74 dei 132 seggi della camera, mentre al-Fatah, con il 41% circa dei voti ne ottenne solo 45. La distribuzione del voto però era molto differente nei vari territori: le principali basi elettorali di Hamas erano nella striscia di Gaza, mentre quelle del Fatah erano concentrate in Cisgiordania. Questo lasciò subito presagire che, se i due partiti non avessero trovato un compromesso, sarebbe potuta scoppiare una lotta per il controllo dei due territori nei quali ciascuno dei due partiti era più radicato.
A seguito della Battaglia di Gaza (2007) tra Fatah e Hamas, questa prese il controllo completo dell’omonima Striscia eliminando o allontanando gli esponenti avversari; nel quadro di tali eventi e tra accuse di illegalità a loro volta i funzionari eletti di Hamas furono eliminati fisicamente o allontanati dalle loro posizioni dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e i loro incarichi furono assunti da esponenti del Fatah e da membri indipendenti. Il 18 giugno 2007, il Presidente palestinese Maḥmūd ʿAbbās (Fath) ha emesso un decreto che mette fuorilegge le milizie di Hamas
Il termine “palestinese”, con una chiara accezione identitaria, è attestato già nel X secolo, quando il geografo palestinese al-Muqaddasī scrisse: “Ho parlato con loro [lavoratori a Shiraz] della costruzione in Palestina […]. Il maestro scalpellino mi ha chiesto: sei egiziano? Ho risposto: no, sono palestinese”. Gli Arabi residenti in Palestina cominciarono ad usare sempre più diffusamente il termine “palestinese” nel periodo precedente alla Prima guerra mondiale. Nei giornali fondati in Palestina tra il 1908 e il 1914, erano frequenti i riferimenti ad una peculiare nazione palestinese (al-umma al-filistiniyya in arabo), tra l’altro in contrapposizione all’immigrazione sionista percepita come una minaccia all’identità di tale nazione. Elementi costitutivi di tale identità erano la provenienza dalla regione ad ovest del fiume Giordano nota da secoli in arabo come Filastin e considerata dai musulmani Terra Santa (al-Ard al-Muqaddasa), l’attaccamento ad un particolare villaggio e l’appartenenza a uno specifico clan familiare, l’uso di un particolare dialetto arabo (arabo palestinese), la religione (in maggioranza l’islam sunnita, ma con minoranze cristiane, sciite e druse) e gli usi locali. Al contempo, la nazione palestinese era sentita come parte del mondo arabo e del Bilad al-Sham (“Grande Siria”) in particolare, senza per questo mai perdere i suoi peculiari tratti storici e culturali.
Durante il periodo del mandato britannico della Palestina, il termine “palestinese”, sebbene fosse usato anche per riferirsi ad ogni cittadino del mandato (inclusi gli ebrei; la Brigata Ebraica – composta esclusivamente da ebrei- che ha combattuto durante la II Guerra mondiale a fianco degli Alleati, inquadrata nell’esercito britannico, venne allora chiamata Brigata Palestinese) diventerà poi riferito alla popolazione arabofona quando riferito ad una specifica identità nazionale (anziché alla cittadinanza), ed apparve frequentemente in libri, riviste e giornali arabi per tutto il periodo del mandato.
Nel dicembre 1920, gli arabi palestinesi in un congresso tenutosi ad Haifa dichiararono che la Palestina era un’entità araba autonoma e rifiutarono le rivendicazioni ebraiche sulla Palestina. Dopo l’esodo del 1948, e ancor più dopo la Guerra dei Sei giorni nel 1967, il termine è venuto a significare non solo un luogo di origine, ma anche il senso di un comune passato e futuro da attuarsi in forma di uno Stato-nazione palestinese, lo Stato di Palestina, da situarsi su Cisgiordania, striscia di Gaza e Gerusalemme Est. Controversie sull’uso politico del termine sono sorte spesso, in base ad alcune dichiarazioni di leader palestinesi come Zuhair Muhsin.
Se si vuole proprio tornare indietro di qualche millennio (tre!), forse i Palestinesi si possono considerare gli eredi delle tribù filistee, peraltro collocate proprio sul mare Mediterraneo in corrispondenza di Gaza, contro le quali combatterono i re d’Israele Saul e Davide.
E torniamo al drammatico oggi. Che cosa potrebbe essere ragionevole fare e pensare, per non aggravare la situazione in loco e sollecitare altri conflitti nel Vicino Oriente e nel resto del mondo dove la conflittualità con il fondamentalismo islamico è più virulenta?
Senz’altro non seguire ciò che sta dichiarando il premier Netaniahu, che è al potere (votato o votatissimo) democraticamente, cioè l’azione di terra senza limiti. Sperando che questa tragedia generi la fine politica di questo signore ambizioso e spietato, occorre che ONU e Nazioni guida, che non sono esenti da responsabilità e colpe, soprattutto nell’ultimo secolo (britannici, francesi, americani, ottoman-turchi, russi, sauditi, etc.), convincano, da un lato la direzione di Hamas a sedersi a un tavolo di trattative e Israele a fare altrettanto.
Un ruolo oggettivo hanno le grandi potenze, vecchie e nuove, dagli USA su Israele, alle nazioni arabe del Golfo, fino alla Cina, che obiettivamente ha interesse a indebolire gli “amici” degli Americani. Ciò non ostante, i vari profili di interesse possono convenire nel depotenziare, anche se solo sotto il profilo tattico della geopolitica attuale, che è in forte ri-definizione, i toni e gli atti più tragici. E la Persia? L’Iran cosa intende fare? Ecco, sono da riprendere con questo grande e decisivo paese le trattative che Trump interruppe, mentre sono da riprendere con i Sauditi le trattative che lo stesso Trump iniziò, denominate “accordi di Abramo”.
Un’altro ambito può essere quello teologico. I cristiani possono molto in questo senso e per un fine di pacificazione, e non solo mediante papa Francesco. In sede teologica si deve continuare senza sosta a dialogare con chi-ci-sta del mondo islamico. E non sono pochi coloro che dialogano con i cristiani, anche se le priorità mediatiche, impegnata quotidianamente a raccontare la violenza e il male, non gli bada.
La fede nell’unico Dio, si chiami Jahwe, Allah o Dio Padre (o anche Brahman), sempre dell’Omnipotente e Misericordioso si tratta. Non tanto nelle diverse teo-logie, cioè nei discorsi-su-Dio si può trovare concordia, ma nelle antropo-logie, nei discorsi sull’uomo, sui suoi diritti e sul comune dovere di manu-tenere il mondo piccolo sul quale tutti viviamo.
E dunque, è lo scambio culturale, è l’economia solidale e non predatoria, è il rispetto di ciascuno verso ciascun altro, che possono unire religioni e popoli, società e visioni-del mondo, culture ed economie. Occorre fare in modo che lo sguardo si alzi dal particulare tattico-economicistico-egoistico sprovvisto di qualsivoglia visione, a una visione sapiente e lungimirante del’umanità come comunità di destino.
Altro non saprei dire, condividendo pensieri e sentimenti di chi soffre con chi soffre, da tutte e due le parti in guerra.
Ancora una volta, se del caso, aggiungo che la grande politica (“grande” per modo di dire), nulla sa dire e fare se non approfittare di questa tragedia per miserandi fini di bottega partitica o ideologistica. Povera, insipiente, inutile.
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Un articolo positivo e costruttivo (tra tante odierne posizioni da curva degli ultrà), di cui apprezzo in particolare il “si può trovare concordia, ma nelle antropo-logie, nei discorsi sull’uomo, sui suoi diritti e sul comune dovere di manu-tenere il mondo piccolo sul quale tutti viviamo.”