L'”essere” è più importante dell'”avere”, soprattutto per quanto concerne la persona umana, non solo perché costituisce la struttura verbale generale di tutte-le-cose-che-esistono, ma anche perché comprende l'”avere” al proprio interno, come una parte-del-proprio-essere-persona
Nella storia del pensiero occidentale e nelle prassi scrittorie – spesso – i due fondamentali verbi italiani, essere e avere, sono normalmente e correttamente usati nel rispetto di grammatiche come quella italiana derivata dal latino (e dal greco antico), in quanto verbi ausiliari atti a formare costrutti (tempi e modi) verbali complessi, e costituiscono, in sovrappiù, termini-concetti fondamentali per sviluppare la riflessione filosofica, logica ed etica.
Comparando i due verbi pare si possa dire che – comunque – è più importante l'”essere”, in quanto può essere ritenuto (caro lettore, nota che il termine deve essere continuamente utilizzato in uno dei due sensi, quello verbale oppure quello sostantivale), e usato come sostantivo, specialmente nella filosofia classica, e particolarmente in ontologia (come scienza dell’essere e del divenire) e in metafisica (o scienza dei principi primi)
Fin da Parmenide di Elea, da Eraclito di Samo, da Platone, da Aristotele, da Plotino, etc., il termine e concetto di essere costituisce il punto di riferimento del pensiero filosofico.
Per l’Eleate l’Essere è la sostanza immutabile, costitutiva di tutte le cose, per cui si può dire che l’essere è e il non-essere non è. Banale? No, fondamentale, perché permette di distinguere in modo rigoroso l’appartenenza a una certa essenza di un ente (ogni-cosa-che-è), distinguendola da ogni altra essenza. Ad e. io-persona-di-nome-Renato ho il mio essere-uomo come sostanza (o essenza, o anche forma) della mia individualità che, comunque, ontologicamente e moralmente, possiede lo stesso valore di ciascun altro essere umano, con il quale, appunto, condivide l’essenza, che si chiama “umanità”.
Si può dunque dire che, se la mia essenza di essere umano è condivisa con ciascun altro, mentre la mia personalità mi distingue assolutamente da chiunque, pure mantenendo l’essenza-in- comune.
Si può dire che io-sono-Renato mentre non-sono-qualsiasi-altro-essere-umano.
Parmenide ha ragione, e però Eraclito, considerato il suo avversario teoretico (da divulgatori senza scrupoli e insegnanti mediocri) non ha torto. Eraclito è “quello del pànta rèi“, cioè del tutto-scorre, come l’acqua sotto il ponte, che però, pur scorrendo in quantità e, oggi diciamo, in strutture molecolari diverse, è pure sempre acqua (H2O), cioè mantiene la sua essenza di acqua, nonostante scorra. E dunque anche Eraclito ha ragione. Vero è, anche in questo caso, che l’essere è ciò-che-è, in questo caso l’acqua, come sostrato dell’ente, che però – strutturalmente – cambia di continuo.
Un altro esempio: io, tu gentile lettore, siamo la stessa medesima persona, sia da infante o bambino, sia da giovane, sia da adulto, sia da anziano. Il sostrato (essenza-sostanza-forma, termini che in metafisica sono pressoché sinonimi) del nostro essere non muta, ma le cellule che costituiscono il nostro corpo muoiono, sostituite da altre cellule che si formano nel tempo cronologico, che passa. Il tempo cronologico nel luogo dove stiamo e consistiamo in quanto esseri-umani, perché – oramai lo sappiamo – se fossimo in viaggio nello spazio a una certa velocità (prossima a quella della luce), anche il tempo muterebbe, dilatandosi, dal punto di vista dello stato di partenza sulla Terra.
In questo caso l’essere immutabile parmenideo potrebbe coincidere con il pànta rèi eracliteo… o no?
Ascoltavo qualche tempo fa un politico (peraltro, laureato) durante una conferenza organizzata dal Movimento 5 Stelle, che conosce la mia distanza politica dal loro movimento, ma mi ha invitato ugualmente, mostrando un’apertura mentale che altri non hanno, nella quale ho proposto i Fondamenti antropologici dell’uomo, che non riusciva a cogliere la com-presenza dell’essere uguali (l’uno vale uno di grillina memoria) e nel contempo dell’essere irriducibilmente diversi, unici. Eppure, per rinforzare il mio ragionamento dialogando con il pubblico, mi riferivo a lui stesso, perfino toccandogli una spalla quando lo definivo uguale a me in dignità e irriducibilmente diverso come personalità, esperienza, ruoli privati e pubblici. Quel politico (della sinistra ex comunista) non era capace di cogliere che la differenza tra singolo essere umano e singolo essere umano non si limita alle diversità ideologiche o di scelta politica, ma si riferisce al tutto e totalmente del singolo essere umano-persona, per tre ragioni: genetica, ambiente di nascita e crescita ed educazione ricevuta, anche nel senso di formazione culturale, e che la politica viene-dopo i fondamenti. Niente da fare. Questa è anche la ragione per cui politici (i più, ma non tutti, grazieadio) e giornalisti (i più, ma non tutti, grazieadio) non masticano neanche l’a-b-c di un’antropologia filosofica di base e di conseguenza “appendono” il loro sapere e il loro agire a un sostegno senza i fondamenti. Tale carenza (chiamiamola pure ignoranza tecnica che, se perseverante, assume anche, a mio avviso, una valenza morale) impedisce che la politica (e di conseguenza il giornalismo di cronaca e di commento) abbia una visione completa della realtà, soprattutto quella umana, e dei gruppi umani, comunque declinati sociologicamente, dal villaggio all’azienda, dalla scuola ai reparti militari, dall’università ai centri di ricerca.
Platone, Aristotele e Plotino nell’antichità hanno conservato e sviluppato, sia pure in modi diversi, la nozione di “essere” come struttura metafisica della realtà tutta, e così è stato fino alla grande Scolastica di Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio e Giovanni Duns lo Scoto, mentre Gugliemo di Ockam (osserviamo, caro lettore, che tutti e quattro sono frati, o domenicani o francescani, come Roberto Grossatesta, che per primo nel Medioevo intuì la struttura eliocentrica) cambiò strada scegliendo piuttosto Eraclito, che poi fu preso a modello dalla rivoluzione filosofica del Cinque e Seicento, da Francis Bacon, Galilei, e soprattutto Descartes, il quale spostò l’attenzione dalla realtà oggettiva dell’essere alla percezione dell’io pensante. Il soggettivismo che nasce con il grande Francese, si sviluppa in seguito con la grande filosofia inglese (l’empirismo di Locke, Hume e Berkeley) e tedesca, da Leibniz a Kant a Hegel, passando per Fichte e Schelling, e contemporaneamente da Schopenhauer a Nietzsche.
La centralità dell’io-soggetto mette in ombra per quattro secoli la filosofia realista, con un progressivo e radicale sostituirsi alla nozione di una realtà che pre-scinde dal nostro percepire, sentire, vedere come soggetti pensanti. Se vero è che, intuitivamente, se io non percepisco, sento, vedo, perché non sono nelle condizioni fisico-psichiche per poterlo fare, essendo un infante o un malato incosciente, possiamo affermare senza tema di smentita che la realtà a noi circostante continua ad esistere, a nascere, a morire, a crescere, a decrescere, secondo legge fisico-chimiche che la ricerca scientifica ci ha donato fin dall’inizio della curiosità umana, cioè fin dalla ominazione, si può dire.
Mi sembra un atto di superbia e presunzione pensare che il mondo ex-sista solo in funzione di me. Il soggettivista radicale mi può rispondere (e qui utilizzo il modello dialettico della quaestio tommasiana, ma anche il modello che usa con efficacia il mio amico, attuale Presidente di Phronesis , l’Associazione Italiana per la Consulenza filosofica che in questi giorni celebra i trent’anni dalla sua fondazione, professor Giorgio Giacometti, mio successore nel ruolo) che, se non sono cosciente, che il mondo-reale esista o non esista non mi interessa, perché non lo posso percepire né godere. Non è, credo, l’opinione di Giacometti, se lo conosco bene. Accetto, ma mi sembra che questo modo lontanamente eracliteo di percepire la realtà manchi di una ammissione fondamentale: che, come il Sole non è al centro dell’universo (per millenni si credette che così fosse), nemmeno io lo sono. Ciò nonostante, secondo un’etica del fine e della persona di stampo greco-latino-cristiano, il mio valore di persona singola è incommensurabile, perché sta nel tempo profondo e nello spazio in-eterno, e che la mia anima, in quanto spirituale e semplice, Platone docet (cari, e sempre gentilissimi nei modi, atei militanti), è immortale!
Più lontana ancora da me è la concezione di un essere-persona, non solo polisemantico (e qui sono anche d’accordo) che non trova mai una de-finizione di ente, sia pure in movimento, ma in possesso di un sostrato genetico-ambiental-culturale che mi ha costituito in modo originale e irripetibile, ed è definita come, di volta in volta, struttura casuale (attenzione: non causale o causata) auto-formantesi, oppure derivato socialmente determinato, oppure ancora struttura biologicamente determinata in ordine a ogni azione compiuta o da compiere. In sintesi: se delinquo, o sono malato, come ritiene il biologismo giuridico, ovvero sono sfruttato e condizionato dalla società, come ritiene lo sia un marxismo mal declinato, oggi talora prevalente nel dibattito a sinistra, e purtroppo – orrendamente – quasi sostituito dalla pseudo-cultura woke, che pervade intellettualità, sinistra liberale, grande stampa, potentati della nuova economia e anche molta accademia. Dannatamente!
Se così fosse, potremmo buttare al macero ogni discorso etico e giuridico, così come formatosi fin dalla Regole del re Caldeo Hammurabi, dalle leggi dell’Egitto antico e, soprattutto, per quanto ci riguarda, dal Decalogo esodeo-deuteronomico, che costituisce, a ben vedere, il fil rouge, la struttura concettuale sostanziale, ad e., della stessa Costituzione della Repubblica Italiana, nonché delle Dichiarazioni Universali dei Diritti dell’Uomo (1779-1948). E potremo buttare a mare tutto il Diritto penale e civile, con si suoi limiti e difetti, fin dalla sua costituzione storica nella diacronia degli eventi.
E aggiungo: ogni cosa che viene-all’essere e dunque all’esistere, è immortale sotto il profilo dell’essere stesso, in quanto nemmeno Dio può far-non-essere-esistito-qualcosa-che-invece-lo-è-stato. Solo il fervidissimo (anche troppo) Tertulliano e pochi altri, potrebbero voler contraddire questa asserzione, che vede in Emanuele Severino il massimo sostenitore contemporaneo.
Da ultimo, voglio ricordare Martin Heidegger, che nel secolo scorso volle mettere in mora la metafisica classica dell’essere per proporne (a sua insaputa?) un’altra: quella dell’esser-ci (Da-sein), cioè di una verità del reale che coincide, cartesianamente, con il pensiero, e in particolare con il “pensiero poetico”. Sottovoce mi pare di poter dire che l’essere rotondo e inviolabile parmenideo spunta da tutte le parti, per tanto che si voglia mettergli la sordina, e così chiudo con un tono confidenziale un tema severo, che però rischia di stancare chi non è aduso a frequentarlo.
Di contro, il verbo avere può essere utilizzato nel senso di “possedere, ottenere”, oltre che di verbo ausiliare per costrutti complessi.
Nel titolo, che riprendo c’è scritto: L'”essere” è più importante dell'”avere”, non solo perché costituisce la struttura verbale generale di tutte-le-cose-che-esistono, ma anche perché comprende l’avere al proprio interno. Questo mi sembra interessante, che ogni-cosa-che-è, compreso l’essere umano, nel contempo possiede l’essere-che-gli-è-dato, da Dio, per chi crede, o dalla Natura, per l’ateo.
L’agnostico, invece, sta in attesa, sulla riva dl fiume della vita.
Invito a leggere, a questo proposito, il libro “Avere o essere”, scritto da Eric Fromm nell’immediato Secondo dopoguerra, oltre ai testi degli autori citati, cui suggerirei di aggiungere grandi poeti e scrittori come Dante, Leopardi, Dostoevskij e Marcel Proust, solo per dirne alcuni, tacendo di molti, per lasciare ad ognuno la curiosità e l’impegno di cercarli.
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