Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

I “Ritornanti”

“…i Valdesi, incalzati dalle truppe francesi e piemontesi, in territorio di Exilles, scesero dal Colletto dei Quattro Denti verso Eclause e da qui a Salbertrand. Il ponte sulla Dora Riparia, unico accesso allo spartiacque con la Val Chisone, era presidiato dall’esercito francese. Durante la notte i valdesi sferrarono un disperato attacco con una carica all’arma bianca. Le grida dei più audaci “Coraggio, coraggio, il ponte è conquistato!” infervorarono gli uomini che si avventarono sul ponte e riuscirono ad espugnarlo, riscuotendo poche vittime in confronto ai nemici che lasciarono sul terreno centinaia di morti e innumerevoli feriti.
Da Salbertrand si dispersero nel Gran Bosco, riuscirono a raggiungere il Colle di Costapiana e discendere su Pragelato per rientrare alle valli di origine.

Rientrati nelle loro terre, i valdesi si impegnarono a Sibaud, una frazione di Bobbio Pellice, a mantenere fra loro unione e solidarietà. Stretti dalle truppe francesi si trovarono impegnati in mesi di guerriglia e furono costretti ad asserragliarsi alla Balsiglia, una borgata sopra a Massello, in val Germanasca. L’attacco nel maggio 1690 delle truppe franco-sabaude stava per segnarne la fine ma li salvò l’improvviso cambiamento nelle alleanze politiche che portò il duca di Savoia a scendere in guerra contro i suoi ex alleati francesi.”

Solo nel 1848 i Valdesi conquistarono i diritti civili e politici sotto re Carlo Alberto.

(Pietro Valdo)

Il racconto sopra riportato è l’ultimo capitolo di una persecuzione cui i Valdesi, cristiani protestanti perseguitati dai Francesi e dai Piemontesi, come gli Ugonotti, ma prima di loro, fin dal 1200, tennero duro per secoli, finché, con la loro costanza e il loro coraggio, riuscirono a tornare nelle Valli piemontesi che avevano lasciato.

Ne canto la storia:

Son solo quelli che ritornano/ o anche quelli invero mai partiti?/ I Ritornanti stanno sulla strada/ di vite frante e di colori arditi.

Vanno i Valdesi incontro agli alti monti/ seguìti dal dolore immoto e grave,/ speranza e fede li accompagna sempre/ virtù cristiane e umane fonti vive.

Chissà se i migranti che vengono a sopravvivere da noi, invece di morire di pene e di lavoro, potranno ritornare alle loro terre come i Valdesi?

Se no, rimangano tra noi diventando popolo nostro come nella storia grande si registra da millenni, magari imparando dalle leggi e dalle consuetudini dell’Impero Romano.

Caro lettore, leggi il discorso dell’imperatore Claudio al Senato, che ti propongo di seguito.

(Tacito, Ann. XI, 24)

“I miei antenati, il più antico dei quali, Clauso, di origine Sabina, fu contemporaneamente accolto nella cittadinanza romana e nel numero dei patrizi, mi esortano ad adottare i criteri da loro seguiti nel governo dello Stato, trasferendo qui quando si può avere di meglio, dovunque si trovi. Non ignoro infatti che i Giulii furono fatti venire da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porci da Tuscolo, e per lasciare da parte gli esempi antichi, furono chiamati a far parte del senato uomini provenienti dall’Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia e, da ultimo, i confini dell’Italia stessa furono estesi sino alle Alpi, perché non solo i singoli individui, ma interi territori di popoli si congiungessero in un solo corpo sotto il nostro nome. All’interno si consolidò la pace e all’esterno si affermò la nostra potenza, quando si accolsero nella cittadinanza i Transpadani e l’insediamento delle nostre legioni in tutte le parti del mondo ci offrì l’occasione per incorporare nelle loro file i più forti dei provinciali e dare così nuovo vigore all’impero esausto. Ci rammarichiamo forse che siano passati tra noi i Balbi dalla Spagna e uomini non meno insigni dalla Gallia Narbonese? I loro discendenti vivono tuttora e dimostrano di non amare certo meno di noi la nostra patria. Per quale altra ragione decaddero Sparta e Atene, pur così potenti sul piano militare, se non per aver bandito da sé i vinti quali stranieri? Ma l’accortezza del nostro fondatore Romolo fu tale che molti popoli ricevettero da lui la cittadinanza nello stesso giorno in cui ne erano stati vinti come nemici. Su di noi hanno regnato re stranierie la concessione di magistrature a figli di liberti e non è una novità dei nostri giorni, come alcuni credono erroneamente, ma una pratica seguita dai nostri antichi (…), o senatori, tutto quello che oggi si crede antichissimo, un tempo fu nuovo: le magistrature prima riservate ai patrizi passarono ai plebei e dai plebei ai Latini e infine agli altri popoli d’Italia. Anche questo provvedimento diverrà un giorno antico e ciò che oggi noi sosteniamo con esempi precedenti sarà anch’esso annoverato tra i modelli.”

L’imperatore Claudio non è passato alla storia come uno dei capi romani più brillanti, tant’è che Augusto temeva per la sua debolezza e il suo futuro, come si evince dalle lettere che scambiava in famiglia. In ogni caso Roma era una realtà tale da far sì che comunque emergessero posizioni e considerazioni civilissime e aperte come quelle sopra riportate.

Un altro elemento per dissentire fermamente dalla fin troppo celebrata Simone Weil che paragonava lo stato nazista all’Impero romano, con un’arbitraria e ingenerosa approssimazione.

Legga le parole di Claudio chi ritiene alcuni popoli o culture superiori alle altre. Le leggano i fanatici, i razzisti naturali e quelli “di ritorno”, le leggano i violenti e i semplificatori concettuali, le leggano coloro che si informano a senso unico.

Leggano la lezione di Claudio, con un po’ di umiltà e di disposizione d’animo a comprendere la complessità delle cose umane e del mondo.

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