La marchesa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, una patriota vera, esempio di buona militanza politica
Si legge sul web che Cristina Trivulzio di Belgiojoso, nobildonna nata a Milano nel 1808 ivi morta nel 1871, è stata una patriota, giornalista e scrittrice, e che partecipò attivamente al Risorgimento. Editò giornali rivoluzionari, mentre molte sue opere sono incentrate sugli anni della Prima Guerra di Indipendenza. Ne parlo perché mi sembra una figura interessante di donna collocata in un periodo nel quale le donne, o erano al lavoro in focolari più o meno ricchi, e soprattutto poveri, mentre solo una minoranza di loro stava nelle stanze del potere a cincischiare con cicisbei e nullafacenti. Pochissime studiavano qualcosa e Cristina era tra queste. O povere e socialmente insignificanti o ricche e ugualmente insignificanti, con pochissime eccezioni, tra le quali la marchesa Cristina.
Oppure possiamo trovare Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini, coniugata Verasis Asinari e storiograficamente nota come Contessa di Castiglione, agente segreto a nome e per conto di Conte Camillo Benso conte di Cavour, che la inviò da Napoleone III, con il quale fece qualcosa.
(Cristina Trivulzio di Belgiojoso)
Interessante l’elenco dei suoi nomi di battesimo, che rappresentano i modi onomastici in uso nelle famiglie nobili del suo tempo: Maria Cristina Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura.
Figlia di Gerolamo Trivulzio, marchese di Sesto Ulteriano, discendente di una delle famiglie storiche dell’aristocrazia milanese e del famoso Gian Giacomo, comandante militare lombardo del ‘500, e di Vittoria dei marchesi Gherardini, nacque il 28 giugno 1808 nel palazzo di famiglia. Nell’atto di battesimo figura come Cristina Trivulzi, anche se diverse furono le varianti usate per il suo cognome, da Trivulzi a Triulzi o Triulzio, e lei stessa, fanciulla, si firmava Cristina Trivulzia. Dopo la sua morte si imporrà la versione Trivulzio.
Cristina rimase orfana di padre a quattro anni. La madre si risposò un anno dopo con Alessandro Visconti d’Aragona. Tra nobili, come era obbligatorio allora e fino quasi a i nostri tempi.
Lei si descrive alla sua amica Ernesta Bisi, sua maestra di disegno, in questo modo: «Ero una bambina melanconica, seria, introversa, tranquilla, talmente timida che mi accadeva spesso di scoppiare in singhiozzi nel salotto di mia madre perché credevo di accorgermi che mi stavano guardando o che volevano farmi parlare».
A quei tempi alle signorine di nobile famiglia, a palazzo veniva insegnato il canto, il disegno, solotamente il francese (che era la lingua franca delle corti di tutta Europa da Parigi a San Pietroburgo) e il pianoforte.
Il mondo familiare di Cristina la avvicinò ben presto a sensibilità politico-morali che albergavano in minoranze “rivoluzionarie” partorite dal mondo liberale progressista, che trovava adepti anche nel mondo della borghesia intellettuale e dell’aristocrazia aperta al nuovo.
Cristina ebbe diverse perdite nei suoi affetti, come una qualsiasi altra persone. Fu colpita, dopo della morte del padre, anche dall’arresto del patrigno Alessandro Visconti, accusato di aver partecipato a moti carbonari. Tra i suoi amici, il conte Federico Confalonieri, che ricordiamo per la condanna allo Spielberg, dove fu incarcerato con Piero Maroncelli, quello della rosa rossa che donò al suo carceriere…
Cristina sposò giovanissima il bel principe Emilio Barbiano di Belgioioso, anche se ne fu sconsigliata stanti le abitudini dell’aristocratico. Il conte Ferdinando Crivelli le aveva infatti inviato la mattina stessa delle nozze un epitalamio eloquente, echeggiante il Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte, che Wolfgang Amadeus Mozart aveva già musicato con successo. Eccolo:
«Che poi che teco alquanto avrà goduto,
lussureggiando andrà con Questa e Quella,
e invano ti udirem gridare aiuto:
ma come indietro più non si ritorna,
render solo potrai corna per corna»
Infatti, Cristina non sopportò a lungo il bel cicisbeo e se ne separò.
La Marchesa ebbe presto la sfortunata ventura di mostrare i primi segni di epilessia, che la accompagnarono per il resto della sua vita.
Intanto il giovin signore la tradiva con una sua amica, per cui Cristina a un certo punto scrisse alla sua amica Caterina Bisi le seguenti parole: «Credetti dovere al mio decoro, ed al mio titolo di moglie di non acconsentire formalmente alla continuazione delle sue relazioni con la Ruga». Ufficialmente non divorziarono mai, ma si separarono di fatto nel 1828, rimanendo poi in rapporti più o meno cordiali e tentando qualche volta un riavvicinamento.
Alla fine degli anni venti Cristina si avvicinò alle persone più coinvolte con i movimenti per la liberazione, facendo iniziare la vigilanza della polizia austriaca nei suoi confronti, che non la mollò più, nonostante cercasse di evitare pressioni sull’aristocrazia lombarda.
Molti anni dopo, Cristina illustrerà così la situazione che si era determinata nella prima parte del secolo: «Delle libertà politiche e civili] gli italiani avevano sperimentato soltanto la speranza. Soltanto il diritto di parlarne era stato fin qui garantito, per cui quando i dominatori austriaci e borbonici proscrissero la parola magica e si rivelarono per quei tiranni incurabili che sono, furono e sempre saranno, gli italiani sentirono, forse per la prima volta, il peso intollerabile delle catene, le maledirono e si prepararono ai sacrifici più nobili pur di spezzarle».
Le attività rivoluzionarie della Trivulzio maturarono nel periodo in quanto Cristina stava rivelando i suoi problemi di salute, che però non le impedirono di confermare le sue intenzioni politiche.
Girava per l’Italia tra i circoli liberali, a Firenze, a Napoli, a Roma, e poi in Svizzera, in quel di Ginevra e di Lugano. E anche a Berna dove cercò di riprendersi all’aria buona delle montagne elvetiche.
Nonostante quanto si è detto, con la dovuta cautela, il governo di Vienna le metteva comunque di continuo i bastoni fra le ruote e la sorvegliava, soprattutto attraverso il commissario Torresani, che diventò il suo persecutore continuo.
Quando Cristina si sistemò a Parigi, gli averi della marchesa furono sequestrati dal governo imperiale, per cui per lungo tempo Cristina non riuscì ad attingere ai propri beni personali e familiari.
Si arrangiò con pochi soldi per alcuni mesi. Si cucinò per la prima volta da sola i suoi pasti e si guadagnò da vivere cucendo pizzi e coccarde. Una vita molto diversa da quella a cui era abituata a Milano; eppure quando aveva iniziato quest’avventura, non aveva riflettuto molto prima di agire, anche se sapeva di dovere così affrontare tempi difficili. Una principessa che decideva di vivere in mezzo agli stenti suscitava curiosità. Fu come ricevere una seconda educazione, come scoprire cosa significasse essere una donna, oltre che un’aristocratica:
«Ricca erede, cresciuta nelle costumanze dell’aristocrazia milanese, non conoscevo proprio nulla delle necessità della vita […] non potevo rendermi conto del valore di un pezzo di cinque franchi. […] Potevo dipingere, cantare, suonare il pianoforte, ma non avrei saputo far l’orlo a un fazzoletto, cuocere un uovo sodo od ordinare un pasto», scriveva auto-biograficamente.
Cristina preferiva il disagio parigino piuttosto che gli agi milanesi. e questo mostra il suo carattere e la sua determinazione patriottica, anche se temeva l’Austria, che a quei tempi avrebbe anche potuto ottenere dalla famiglia della marchesa che la monacassero! Assurdo, diremmo oggi, ma allora era così.
Cristina ebbe anche modo di conoscere personaggi che fecero la storia di Francia dell”800, come il generale La Fayette, presente anche nella Rivoluzione Americana e Adolphe Thiers, liberale, ma quando i socialisti instaurarono La Comune de Paris, nel 1870, feroce repressore. Ma Cristina viveva in tempi precedenti.
Nessuno dei due, però, nonostante la fama e il prestigio, riuscì ad aiutare Cristina facendole recuperare almeno una parte dei suoi beni che erano stati sequestrati dagli Austriaci. Ce la fece, a un certo punto, con l’aiuto del solo conte Apponyi, che intercedette direttamente con il principe Clemens von Metternich, l’onnipotente primo ministro del kaiser austro-ungarico. La Fayette si limitava a fare l’ospite importante e un po’ cicisbeo salendo spesso all’appartamento di Cristina, che era capace di ospitarlo con signorilità e capacità culinarie indubbie, salvo perorare talora con qualche successo per far ottenere alla marchesa qualche attività professionale che le permettesse di mantenersi, come quando il redattore del Constitutionnel, Alexandre Bouchon, le offrì una collaborazione per il giornale, proponendo a Cristina di scrivere articoli relativi alla questione italiana e di tradurne altri dall’inglese. Conoscendo la passione della principessa per l’arte e per il disegno (la Belgiojoso dipingeva nel contempo porcellane e dava ripetizioni di disegno), le chiese inoltre di fare il bozzetto di tutti i parlamentari francesi, firmandosi La Princesse ruinée (La principessa rovinata).
La donna accettò, nonostante La Fayette si scandalizzasse per la firma suggerita da Bouchon e si preoccupasse per la salute cagionevole della sua protegée, ritenendo troppo faticoso soprattutto ritrarre i parlamentari. In maggio, il vecchio militare la invitò inoltre nel castello di campagna di La Grange-Bléneau, non lontano dalla città, dove la Trivulzio rimase poco tempo a causa di una caduta da cavallo che la costrinse a tornare a Parigi.
La Fayette apprezzava gli articoli che Cristina licenziava per il giornale così come la dignità della donna, incurante degli stenti e della necessità di mettersi in gioco, ma apparteneva pur sempre a una famiglia dell’aristocrazia e vi era stato educato prima della rivoluzione, per cui mal sopportava che una nobildonna dovesse lavorare per vivere. Per questo non aveva nemmeno la pazienza di attendere un ricavato dalle «ricchezze lombarde, dal vostro milione di cammei, dalla vostra casa in Svizzera, dai vostri lavori di Parigi», e la invitava pertanto a rivolgersi presso un notaio, da cui con facilità sarebbe riuscita a ottenere un prestito che avrebbe potuto restituire con tranquillità.
A un certo punto Cristina chiese all’ex marito di raggiungerla a Parigi, nella chiarezza di una convivenza da “separati in casa”.
Non mancavano, però, i pettegolezzi. È rimasta famosa, più delle altre, la caricatura del marchese di Floranges, nome d’arte di Jacques Boulenger. Lo scrittore fece un resoconto volutamente fallace dell’esperienza avuta nella dimora della donna (Boulenger si riferisce ancora all’appartamentino di Rue Neuve-Saint Honoré). Dopo aver ironizzato sul pallore e la magrezza di Cristina, Floranges si divertì a ritrarre le stanze della casa in uno stile da romanzo gotico, e concludeva aggiungendo ulteriori cattiverie gratuite, che possono essere prese come summa delle critiche che una parte della società parigina muoveva alla Belgiojoso: «Non contenta di cospirare, di essere bella, di saper suonare la chitarra, di difendersi con un pugnale, di dipingere ventagli e di far sapere a tutta Parigi che l’asma la stava perseguitando essa leggeva l’ebraico e scriveva un libro».
Cristina aveva ben altro per la testa: non sapeva l’ebraico e intraprese solo più avanti l’attività di scrittrice. Tra l’impegno patriottico e i vari problemi rimaneva ben poco tempo per la cura della casa e la vita mondana. Per comprendere come la principessa vivesse nel primo anno parigino pare più affidabile la relazione di una spia austriaca che, dopo aver raccolto le considerazioni del patriota ferrarese Giuseppe Ragni, dipinse un’esistenza piuttosto ritirata, lontana dai teatri ma legata alle sedute della Camera, frequentate assiduamente, e un giro di amicizie alquanto ristretto. A un certo punto il patriota Giuseppe Poerio e il conte Apponyi si mobilitarono perché Cristina potesse beneficiare di un provvedimento di clemenza austriaco, ma Metternich accettò solo in parte le loro richieste, acconsentendo a girarle gli alimenti finché fossero persistiti i problemi di salute.
Cristina era fisicamente molto provata; le sofferenze derivanti da una salute cagionevole per natura si erano acuite con le peripezie dell’ultimo periodo italiano e dei primi anni francesi. Quando nel 1832 si recò a Ginevra per incontrare la madre, questa la trovò «smagrita, imbruttita, invecchiata».
Un altro problema intervenne a turbare la tranquillità della nobildonna: l’astio di una parte degli immigrati italiani presenti in Francia. Una spia austriaca ricordava come la Belgiojoso si prodigò con generosità sin dall’inizio in favore dei suoi connazionali, precisando però che «non tutti le furono riconoscenti, forse nessuno». Il dissidio con Mazzini, di cui non approvava una politica che considerava avventata e cui rifiutò di sovvenzionare la seconda spedizione in Savoia, fu sicuramente alla base di una parte delle discriminazioni subite da Cristina. Lo stesso patriota genovese la accusò, in una lettera a Giuditta Sidoli, di stare «al meglio con l’Austria».
La donna dovette confrontarsi con la freddezza del visconte di Chateaubriand, ma con fatica, poiché la Belgiojoso era incapace di mentire e fuggiva ogni smanceria.
Poi, d’improvviso l’atteggiamento del visconte mutò radicalmente. Salutandolo una sera, la Trivulzio, anziché ricevere l’abituale freddo gesto che un pur minimo rispetto delle convenzioni obbligava Chateaubriand a fare, vide il volto dell’uomo illuminarsi. «La fronte di René si è schiarita; sul volto tutto sorride, occhi, bocca e fronte, e questo sorriso luminoso è rivolto a me insieme con un piccolo cenno col quale mi invita a sedergli accanto». Il misterioso voltafaccia rimase inspiegato, ma si rivelò definitivo. Da quel momento il visconte intrattenne sempre con Cristina una conversazione amichevole e gentile, e la principessa diventò amica intima della coppia, tanto da essere (facendo morire d’invidia le altre nobildonne).
A Parigi Cristina prendeva parte alle riunioni dei socialisti sansimoniani, dove si poteva discutere anche di dottrine abbastanza tecnocratiche ante litteram, come l’idea che poneva il progresso e la produzione fossero alla base dell’evoluzione sociale. Gli adepti percepivano questa filosofia come una vera e propria religione. La Belgiojoso si recava agli incontri generalmente accompagnata da uno degli amici più cari tra gli immigrati, Piero Maroncelli. Il carteggio con Maroncelli lascia immaginare che i sansimoniani la attraessero perché ponevano la donna sullo stesso piano dell’uomo e rivendicavano per il sesso femminile pari diritti in società. Non male per i tempi, vero?
Interesse anche maggiore suscitarono in lei le idee professate nel mondo del liberalismo cattolico, tra i seguaci di Lamennais e Lacordaire. Particolare affinità instaurò con il pensiero dell’abate Pierre-Louis Coeur, docente alla Sorbonne e fervente sostenitore della necessità, per la Chiesa, di affrancarsi dai retaggi del passato e di abbracciare il progresso sociale, stando al passo con i tempi. L’abate non mancava, inoltre, di denunciare le ingiustizie commesse dalla Chiesa e il suo controverso rapporto con il potere, che l’aveva portata a dimenticare i poveri e gli emarginati, venendo così a toccare una questione che fu sempre cara alla principessa. Nel 1843 il conte di Cavour, dopo aver assistito alle sue lezioni, lo descrisse in termini entusiastici all’amico Pietro di Santarosa.
Cristina e l’abate si conobbero nel 1834, anche se l’amicizia divenne più stretta negli ultimi anni del decennio, quando la corrispondenza epistolare tra i due si fece più fitta, e il sacerdote, deluso e stanco nel constatare come il rinnovamento auspicato non si realizzasse, si lasciò andare al dispiacere per il mondo frivolo – clericale e non – che lo circondava (e che naturalmente inventò una relazione amorosa tra Coeur e la Belgiojoso), conscio di trovare nella nobildonna un animo ricettivo, identificando nel «suo inesauribile fondo di grandezza» come un «mistero divino».
Nei dieci anni parigini Cristina continuò a contribuire alla causa italiana, cercando di influenzare i potenti, scrivendo articoli e diventando addirittura editore di giornali politici, quando non trovava altri editori disposti a pubblicare suoi scritti giudicandoli pericolosi.
A lei continueranno ad arrivare richieste di finanziamenti per fini patriottici, e lei cercherà di distribuirne tantissimi, in modo da aiutare i poveri esuli italiani, di cui lei era ormai diventata la referente parigina, e investendo in sommosse o addirittura organizzando movimenti di armi per i “ribelli” italiani. Nel 1834, ad esempio, donò 30 000 lire (su un suo budget complessivo di centomila) per finanziare il colpo di mano mazziniano nel Regno di Sardegna. Per l’occasione, la nobildonna aveva persino ricamato con le proprie mani le bandiere degli insorti.
Nella società francese degli anni Trenta, però, Cristina si fece notare soprattutto per il proprio salotto, uno dei più frequentati e importanti dell’epoca. A Parigi conobbe anche i musicisti Vincenzo Bellini e Franz Liszt, che non nascosero la loro ammirazione per lei, di cui era pervaso anche Heinrich Heine, in quanto contemplativo, mentre Alfred de Musset desiderava altro (!)! Non mancò neppure Honoré de Balzac a quel concerto di amicizie e di simpatie. Fors’anche non mancò George Sand.
Il 23 dicembre 1838 nacque Maria, l’unica figlia della principessa. Per un secolo e mezzo i biografi di Cristina spiegarono l’evento come frutto di un occasionale rapporto con il marito, che la donna continuava a frequentare e che quell’anno viveva a Parigi. Malvezzi e Barbiera si posero su questa linea senza fornire altre spiegazioni. Tuttavia, a partire dal 1971 la critica ha cominciato ad analizzare la vicenda da un punto di vista affatto diverso, fondandosi su documenti epistolari e su considerazioni che hanno messo fortemente in discussione la versione ufficiale. Tra l’aprile e il giugno di quell’anno la storica francese Yvonne Knibiehler licenziò uno studio in cui si sosteneva che il vero padre di Maria fosse un latro, il Mignet, la cui madre aveva peraltro lo stesso nome, assai poco diffuso nelle famiglie dell’aristocrazia lombarda.
Il fatto è che la nascita della bambina non fu registrata presso gli archivi di Versailles, dove Cristina condusse vita ritirata nei mesi precedenti il parto e in quelli successivi, prima di partire per l’Inghilterra. L’intento sembra dunque quello di mantenere segreta la gravidanza: i carteggi del periodo non vi fanno alcun riferimento, tanto che neppure in una lettera che Federico Confalonieri spedì a un amico, in Italia, il 21 dicembre, vi si trova traccia.
Nel 1939 andò alcuni mesi nel Regno Unito con i suoi fratelli e sorelle, e in questa occasione si recò a trovare Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III in esilio, riuscendo a strappargli la promessa di operare a favore della causa risorgimentale italiana, una volta acquistato il potere in Francia. Invece, una volta conseguiti i suoi scopi, Luigi Napoleone si sarebbe mostrato molto tiepido per ciò che concerneva l’indipendenza dell’Italia.
Nel 1840 tornò in Lombardia.
Il primo impatto con la terra d’origine non fu positivo: l’atmosfera lombarda, nel 1840, era molto dimessa e poco “rivoluzionaria”. L’eco dei moti carbonari era lontano negli anni e nello spirito. La principessa fu delusa anche dall’accoglienza di alcune personalità, in particolare dalla freddezza di Alessandro Manzoni, che la emarginava come peccatrice e arrivò addirittura a negarle la possibilità di recare l’ultimo saluto al capezzale della madre Giulia Beccaria, a cui Cristina era legata da sincera amicizia. Una parziale consolazione venne dal carteggio con Niccolò Tommaseo, deluso come lei e reso partecipe delle iniziative sociali che presto Cristina intraprenderà.
Subito dopo il rimpatrio la nobildonna andò a vivere nella residenza di famiglia a Locate, desiderosa di un’esistenza tranquilla e lontana dei clamori di una ribalta che esercitava su di lei un fascino sempre minore. Cristina ebbe così modo di rilevare la drammatica situazione dei contadini e dei loro bambini: «I bambini di questo mio paese sono nella più miseranda fra le condizioni umane. La cosiddetta mano d’opera è così ricercata che “[…] anche i ragazzi e le ragazze un po’ grandi stanno fuori tutto il giorno a lavorare nei campi, e i poveri bambini rimangono abbandonati nelle deserte case», mentre le malattie contratte in mezzo a paludi ed aria malsana falcidiano la popolazione.
Cristina non esitò a spendersi in favore dei poveri del luogo: malgrado le maldicenze e gli scetticismi generali, creò un asilo, riducendo significativamente il tasso di analfabetismo tra i bambini. Spinta dall’amico Tommaseo a continuare, la Belgiojoso aprì anche «una scuola elementare per ragazzi e ragazze, una scuola professionale femminile e una scuola di tecnica agraria maschile, dei laboratori artigianali per pittori, rilegatori, restauratori», lottando inoltre per riportare l’ordine sociale, imponendo la chiusura delle osterie durante le celebrazioni religiose e oltre le nove di sera. Gli episodi di violenza scomparvero così quasi del tutto. Era un’azione umanitaria e sociale a vasto raggio: secondo il modello fourieriano trasformò il suo palazzo in una sorta di falansterio. Una sala della villa divenne uno «scaldatoio» per le madri e i loro piccoli, offrì pasti a basso prezzo, medicine per i malati e doti alle donne prossime all’altare. Cristina avrebbe voluto anche modificare gli insegnamenti religiosi, che riteneva in parte criticabili, ma non procedette in una direzione che avrebbe incontrato notevoli ostacoli.
Cristina capì presto l’importanza di estendere il proprio programma inviando una circolare agli altri proprietari terrieri della Lombardia, nella speranza che avessero cura in particolare degli orfanelli, presenti nella regione «in una proporzione assai maggiore […] che altrove». Tuttavia, la circolare non riscosse adesioni, e le intenzioni della principessa furono completamente disattese, al punto che invitò il celebre abate Ferrante Aporti a visitare le proprie strutture, ottenendo una valutazione molto positiva. Nemmeno questo fu sufficiente per riuscire ad esportare il modello di Locate, ma il giudizio aportiano e gli sviluppi successivi di questa avventura sociale e umanitaria conferiranno al lavoro della Belgiojoso un’importanza non trascurabile, tanto più che arrivò ad organizzare associazioni fra lavoratori, anticipando in qualche modo forme di “sindacalismo”.
L’attività giornalistica di Cristina diventò in effetti preminente dal 1845 fino alle insurrezioni del 1848. Le prime prese di posizione furono moderate, ma coerenti con un pensiero sempre rivolto a promuovere una “rivoluzione italiana”, che avesse anche connotati di sensibilità sociale, come nell’esperienza della Gazzetta Italiana, di cui la marchesa si occupò personalmente.
Continuò la sua opera politica cercando di convincere tutti che l’unica soluzione per muoversi verso l’unione italiana era sostenere Carlo Alberto di Savoia. Il suo obiettivo, però, non era una monarchia, ma una repubblica italiana simile a quella francese; tuttavia, se per arrivare alla repubblica bisognava prima unire l’Italia, l’unico mezzo era di appoggiare la monarchia dei principi savoiardi.
Nel 1848, trovandosi a Napoli quando scoppiò l’insurrezione delle Cinque Giornate di Milano, partì subito per il Nord Italia pagando il viaggio ai circa 200 napoletani che decisero di seguirla, tra gli oltre 10 000 patrioti che si erano assiepati sul molo per augurarle buona fortuna.
Per qualche mese si respirò aria di libertà, ma si svilupparono anche forti discordie interne sulle modalità del proseguimento della lotta anti-austriaca. Pochi mesi dopo, il 6 agosto 1848, gli austriaci entrarono a Milano e lei, come molti altri, fu costretta all’esilio per salvarsi la vita. Si calcola che almeno un terzo degli abitanti di Milano espatriasse prima del ritorno degli austriaci.
Molto amareggiata, la Belgiojoso lasciò Milano il 5 agosto, in compagnia della figlia. La meta era la Francia, l’intento quello di intercedere per un intervento militare del governo transalpino in favore dei patrioti italiani. Dopo aver sostato a Torino raggiunse Grenoble, dove un incontro con il generale Oudinot si rivelò infruttuoso. A Parigi raddoppiò i suoi sforzi, attraverso la stampa, i salotti e i contatti con gli amici francesi di un tempo, come Mignet e Quinet, per convincere il governo, ma non ottenne nulla.
Nel 1849, Cristina Trivulzio di Belgiojoso si ritrovò a Roma, in prima linea, nel corso della battaglia a difesa della repubblica Romana, durata dal 9 febbraio al 4 luglio. A lei assegnarono l’organizzazione degli ospedali, compito difficile perché mancavano strumenti chirurgici ma che comunque assolse con dedizione e competenza, tanto da poter essere considerata come antesignana di Florence Nightingale.
Anche a Roma il movimento dei patrioti venne represso e per di più proprio con l’aiuto dei francesi sui quali Cristina tanto aveva contato. Sfumata anche questa speranza di libertà e sentendosi tradita dal suo stesso amico Napoleone III, salpò su una nave diretta a Malta. Iniziò così un viaggio che la portò in Grecia per finire in Turchia, nella sperduta e desolata valle di Ciaq Maq Oglù, vicino alla odierna Ankara. Qui organizzò un’azienda agricola. Da qui inviò articoli e racconti delle sue peripezie orientali ed in tal modo riuscì a raccogliere somme che le consentirono di continuare a vivere per quasi cinque anni. Nel 1855, grazie ad un’amnistia, ottenne dalle autorità austriache il permesso di tornare a Locate.
Nel 1858 morì suo marito Emilio. Nel 1861 si costituì finalmente l’Italia unita, da lei tanto desiderata, e poté quindi lasciare la politica con una certa serenità. Da questo momento visse appartata tra MIlano, Locate e il Lago di Como. Acquistò una villetta a Blevio dove si trasferì con il Budoz, il servo turco che l’aveva seguita ormai da un decennio e Miss Parker, la governante inglese che aveva vissuto con lei fin dal suo viaggio del 1839 in Inghilterra.
Morì nel 1871, a 63 anni. Aveva sofferto di varie malattie, subito molte peripezie, tra le quali anche un tentativo di omicidio, cosa che le lasciò diverse ferite. Fu sepolta a Locate di Triulzi, dove la sua tomba si trova tuttora.
In occasione del 140º anniversario della Repubblica Romana, il Consiglio Comunale di Roma, con delibera n. 40 dell’8 febbraio 1989, dedica alla Belgiojoso un viale interno alla Villa Doria Pamphili nel quartiere Gianicolense.
Una patriota, la marchesa Cristina di Belgiojoso, alla cui esperienza ogni patriota italiana contemporanea potrebbe ispirarsi, anche senza pretendere di imitarne le gesta.
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