Leone XIII: Rerum Novarum
riflessioni filosofiche, teologiche, pastorali (a cura del Dottor Pierangelo D’Andrea, mio valoroso studente)
(Pubblico con grande piacere in questa sede questo originale saggio di Pierangelo, che ho avuto modo di conoscere e di apprezzare nell’ambito formativo dell’I.S.R.R., di Udine, Gorizia e Trieste, afferente alla Facoltà Teologica delle Venezie. Pierangelo, consapevole del momento di drammatica incultura, se non di analfebetizzazione che stiamo attualmente vivendo, mi ha offerto questo prezioso contributo, a commento della fondamentale enciclica di Papa Leone XIII, che mise in pubblico, davanti al mondo, una Dottrina sociale che la Chiesa cattolica fino a quel fatidico 1891, non aveva ancora evidenziato, come interpretazione evangelica dell’eguaglianza dei diritti tra tutti gli uomini, e di una giustizia sociale ancora di là da venire, in dialogo con il mondo e con le nascenti dottrine del socialismo e della democrazia.)
L’enciclica di papa Leone XIII: Rerum Novarum ha affrontato una tematica e aperto una serie di riflessioni molto interessanti e importanti sulla questione sociale e di conseguenza l’intervento dei cattolici in questo ambito.
(Papa Leone XIII)
Conoscendo anche per sommi capi ciò che significa e implica l’espressione “questione sociale”, il discorso è – e sarebbe – amplissimo.
Mi soffermerò in particolare su due aspetti: quali problemi sociali hanno attirato l’attenzione del pontefice: le condizioni di lavoro degli operai o meglio dei proletari – come riconosce chiaramente papa Leone – e la sua proposta per cercare di alleviarle e la proprietà privata.
L’enciclica Rerum novarum è stata promulgata il 15 maggio 1891, dal Vaticano.
Lo stato unitario italiano esisteva da appena 30 anni e comprenderà Roma e lo stato pontificio dal 20 settembre 1870. I 21 anni trascorsi da quella data furono caratterizzati, da parte pontificia (Pio IX), da una netta opposizione e chiusura nei confronti del Regno d’Italia.
Leone XIII, pur disapprovando la fine dello Stato della Chiesa, per l’aspetto legato in particolare alla proprietà privata e alla considerazione che solo l’indipendenza politica di uno Stato della Chiesa cattolica avrebbe permesso di esercitare liberamente la sua funzione pastorale, si aprì al mondo. Già in precedenti encicliche aveva affrontato tematiche attuali, ma con questa sorprese veramente il mondo cattolico.
Padre Bartolomeo Sorge ricorda il clima di chiusura della Chiesa che scomunica il mondo moderno[1]. Nell’aprirsi al mondo, con Leone XIII, la visione cristiana si scontra con l’ideologia del capitalismo e del marxismo: due «visioni globali e totalizzanti della vita umana … entrambe figlie della medesima cultura materialistica del mondo moderno.»[2]
La Rerum novarum non giunge all’improvviso, afferma Sorge ricordando vari vescovi in Europa, negli USA, oltre a diversi laici che si impegnano attivamente nell’azione sociale e nella ricerca scientifica.
La caratteristica e l’ispirazione di fondo dell’enciclica ha
natura prevalentemente dottrinale e di principio delle risposte che la Rerum novarum dà alle sfide della ‘questione operaia’. Ovviamente nell’enciclica non manca il riferimento alla situazione storica concreta, ma questa appare più che altro occasionale. Il vero nodo della questione è ritenuto di natura essenzialmente filosofica ed etica.
Di conseguenza, Leone XIII di fatto pone le premesse della cosiddetta ‘dottrina sociale’ della chiesa (sebbene questa espressione non si trovi nella Rerum novarum), esposta in forma organica e sistematica, deducendola dai principi immutabili del ‘diritto naturale’ e della rivelazione cristiana. Praticamente nasce l’ideologia cattolica per contrastare, restando sullo stesso piano, il liberalismo e il marxismo.[3]
Sorge prosegue:
Bisogna riconoscere che esiste una scelta forte in favore del primato della dignità umana contro il primato della economia. Il lavoro non è una merce, ma espressione della persona umana. Lo Stato deve tutelare e promuovere i diritti di tutti, specie di chi non può farsi sentire. Gli operai hanno diritto alla libera associazione.[4]
Per avvicinarsi all’impressione che fece all’epoca, giova citare in proposito un passo del romanzo di G. Bernanos, Diario di un curato di campagna:
La famosa enciclica di Leone XIII, voi la leggete tranquillamente, coll’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di quaresima. Alla sua epoca, piccolo mio, ci è parso di sentirci tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo! Ero, in quel momento, curato di Norenfontes, in pieno paese di miniere. Quest’idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposta alla legge dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini come sul grano, lo zucchero o il caffè, metteva sottosopra le coscienze, lo credi? Per averla spiegata in cattedra alla mia buona gente son passato per un socialista e i contadini benpensanti m’hanno fatto mandare a Montreuil, in disgrazia. D’essere in disgrazia me ne infischiavo un bel po’, renditene conto. Ma sul momento…”[5]
Leone XIII prima di venire eletto al soglio pontificio fu nunzio apostolico in Belgio e per buoni trent’anni vescovo a Perugia. Nonostante la sua esperienza nel e del mondo, però, la concezione che sottostà alla sua proposta pastorale è legata in gran parte alla civiltà contadina, di ambiente medievale: ciò risulterà chiaro per la proposta, che farà, delle corporazioni… Ciononostante si era reso ben conto della situazione sociale, economica e politica del suo tempo.
La rivoluzione industriale iniziata attorno al 1770 in Inghilterra, favorita da un nuovo modo di produzione e dall’invenzione del motore a vapore che sfruttava il carbone, e poi dall’elettricità, si espanse in tutta l’Europa occidentale toccando anche l’Italia. Ciò aveva provocato l’esodo di masse contadine nei centri urbani dove diventarono operai e il cui unico mezzo di sostentamento era il lavoro delle proprie mani. Le condizioni di lavoro erano pessime: orari di lavoro che arrivavano a 12 – 16 ore al giorno, tutti i giorni, con pausa solo alla domenica o anche solo la domenica mattina, sfruttamento disumano, bambini e fanciulli nelle miniere insieme con gli uomini e obbligati ad un rendimento pressoché uguale, idem per le donne che entravano soprattutto nell’industria tessile, ambienti insalubri sia per le temperature (troppo alte o troppo basse), umidità, fumi, ecc.. Davanti a queste condizioni, gli operai cercarono di difendersi: oltre le prime lotte contro le macchine (luddismo, ecc.), nacquero dei sindacati e partiti politici di autodifesa dei lavoratori, sostenute dalle teorie politiche socialiste e comuniste, ecc..
Il papa, al n. 13, spiega i motivi per cui ha inteso intervenire su questa materia e ricorda che la soluzione dei problemi provocati dalla rivoluzione industriale vanno risolti insieme: dalla Chiesa principalmente con le sue proposte e la fattiva collaborazione dei padroni, dei proletari e dello Stato.
In quest’opera di risoluzione, Leone XIII al n. 15 evidenzia e sottolinea l’avversione sua e della Chiesa alla teoria e alla pratica della lotta di classe: perché si parte da una concezione di opposizione e di sopraffazione di una classe su un’altra. Riconosce che le differenze sociali ci sono e restano, per tante ragioni: economiche, sociali, culturali, ideali, spirituali, ideologiche, di propensioni personali, ma la soluzione non può essere che quella cristiana della concordia: su questo porta l’esempio del corpo e delle membra e ricorda – giustamente – che una classe non può esistere senza l’altra. Ma la concordia non può prescindere da un aspetto fondamentale: la giustizia (n. 16) e proprio qui Leone XIII riconosce la disparità esistente tra padrone e operaio che porta il primo ad abusare della debolezza dell’altro sfruttandolo, costringendolo ad accettare condizioni di lavoro spesso – quasi sempre, all’epoca e ahimè, sovente anche oggi! – disumane, come accennato sopra, e giocando al ribasso sul salario (al n. 17[6]) che non permette a chi lavora una vita degna – ancorché frugale -, né a sé né alla propria famiglia. La soluzione che il papa propone (comincia a proporre) al n. 18 è la carità. Qui e nel paragrafo seguente Leone XIII inizia un discorso sulla ricchezza che basa sul tema della proprietà privata: su questo mi soffermerò più avanti.
La carità è legata al riconoscimento della fondamentale, originaria fraternità umana e cristiana (n. 21[7]) e continua ricordando (al n. 27) che lo Stato è fatto tanto dai ricchi quanto dai proletari e che compito principale dello Stato è tutelare i più deboli (al riguardo cita san Tommaso, Summa Theologiae 2-2, q 66, a.1-2) e che chi più ha più deve dare, più deve contribuire al benessere sociale, quindi dei più deboli.
Giova ricordare che, all’epoca, non esistevano, se non in minima parte e solo per alcune categorie, delle “assicurazioni sociali”: non c’era indennizzo per gli infortuni, chi stava male non riceveva stipendio, la pensione non c’era. Questa sarà introdotta in Germania da Bismarck nel 1889 e in Italia nel 1898.
Leone XIII osserva che le differenze tra gli uomini ci sono, ci sono sempre state e sempre ci saranno, come ricordato sopra, e rammenta che la ricchezza di una nazione è data dal lavoro degli operai e degli artigiani: qui pare ricordare – anche se non lo cita – Locke che al capitolo quinto del Secondo Trattato sul governo[8], riguardo l’origine della proprietà privata e della ricchezza riconosce che c’è il lavoro dell’uomo.
Perché il lavoro si svolga tranquillamente, occorre che «sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica» (n. 29). Qui deve intervenire lo Stato per garantire tutte le condizioni ottimali che salvaguardino altresì la moralità, la salute, il diritto di esercitare i doveri religiosi (come si esprime il papa) ed evitare gli scioperi e riconoscere – di conseguenza – la pari dignità dei cittadini. In ogni caso, lo Stato – dice il papa – non deve intervenire oltre il necessario[9], pur avendo «riguardo speciale ai deboli e ai poveri» (n. 29), questo perché i ricchi già hanno i mezzi per tutelarsi da soli, i proletari no. A questo proposito Leone XIII affronta il tema delle modalità della prestazione lavorativa (n. 33) e si sofferma sulla durata del lavoro, del necessario riposo, entrambi rapportati alle forze, alla fatica richiesta (cita espressamente i minatori), quindi dell’età e del sesso dei lavoratori (riguardo alle donne ricorda che la loro “natura” è di educare i figli e curare la casa…): non tenerne conto è immorale. Riguardo il necessario riposo festivo, il papa sottolinea la sua valenza anche spirituale per l’uomo, in particolare gli “obblighi religiosi”: se non ci fosse un accordo tra le parti, dovrà intervenire la magistratura.
Al numero 8 e in particolare al numero 19 della Rerum novarum Leone XIII introduce specificamente il discorso sulla proprietà privata:
In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto è, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. È lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni (S. Th. III-II, q. 66, a. 2). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità.[10]
Al n. 34 parla del salario e qui il discorso di Leone XIII è – purtroppo – di sconcertante attualità, anche oggi, in Italia in molti Paesi del mondo!
Il papa riconosce che la misura del salario è determinata dalla legge del mercato e che i padroni tendono a pagare il meno possibile, ma, osserva Leone XIII, quando l’operaio non si sottrae ai suoi doveri, ha diritto ad una retribuzione che gli consenta una vita dignitosa (e quindi riconosca innanzitutto la sua dignità di persona). Il papa sul salario ricorda che lavoro è il mezzo per mantenersi in vita (e lo fa richiamando alla mente il testo di Locke citato) e questo è un obbligo, sottolinea.
La determinazione del salario implica quindi «un elemento di giustizia naturale» perché costringere l’operaio ad accettare una mercede troppo bassa è violenza. Lo stipendio deve consentire all’operaio di mantenere sé e la propria famiglia (il riferimento e alla famiglia monoreddito) in modo frugale, ma dovrebbe permettergli di mettere da parte qualche risparmio… Il discorso qui si lega a quello della proprietà privata e alla concezione – già citata all’inizio – di Leone XIII: lo vedrò di seguito.
Nel commento a cura del Servizio per la pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Milano si legge:
Leone XIII registra con favore le “realtà nuove”, dando così un alto avvallo spirituale ai contestatori dell’ordine stabilito, agli animatori del mondo operaio, a un certo socialismo cristiano e svela arditezza del proposito, che suscitò l’entusiasmo di alcuni, ma anche le riserve e addirittura le resistenze di molti. Fa venire allo scoperto e chiama finalmente scandalo «quello che veramente è indegno dell’uomo, abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgano i suoi nervi e le sue forze» (n. 10) e ancora: «Gli operai sentono che da cupidi padroni sono trattati in modo molto inumano e quasi non valutati più di quello che producono lavorando» (n. 34). Vengono richiamate non solo la legittimità ma anche la necessità dell’intervento dello Stato in ambito economico per monitorare e sanare le malattie del corpo sociale e per garantire a tutti i lavoratori degne condizioni di vita. In tal caso si fa strada nella coscienza della Chiesa il valore della presenza dello Stato moderno in nome delle esigenze della giustizia.[11]
Ho scritto più sopra che molti aspetti denunciati dal papa 133 anni fa sono purtroppo ancora attuali: su questo aspetto insiste e allarga il discorso, riconoscendo l’indubbio valore anche profetico dell’enciclica Rerum Novarum[12], l’enciclica Centesimus Annus di papa Giovanni Paolo II.[1]
Leone XIII sviluppa ampiamente il tema della proprietà privata, ricollegandosi soprattutto al pensiero di Tommaso d’Aquino e – senza citarlo – J. Locke. La proprietà non è in opposizione al diritto naturale ma lo completa grazie all’intervento della ragione umana. Approfondendo il discorso sulla proprietà privata, elemento su cui Leone XIII si basa per contrastare le proposte socialiste, si può dire che il concetto di un diritto naturale era già sorto in antichità: un esempio famoso si può rinvenire nella tragedia Antigone di Sofocle; altro autore che viene tenuto in grande considerazione anche nella Chiesa è Cicerone che nella sua Repubblica afferma:
La vera legge è la retta ragione, in accordo con la natura, diffusa fra tutti gli uomini, immutabile, eterna, quella che chiama al dovere con il suo comando, con il suo divieto distoglie dalla frode; ma che non ordina o vieta invano agli onesti, né comandando o vietando muove i disonesti. Non è permesso proporre modifiche a questa legge, né è lecito derogare a una qualche sua disposizione, né è possibile abrogarla interamente.[13]
Il concetto verrà recuperato dai padri della Chiesa. L’esistenza del diritto naturale è riconosciuto indirettamente anche dall’apostolo Paolo quando in Rm 2, 14-16 afferma che Dio ha posto nel cuore degli uomini la legge.
Sul tema dei diritti naturali, di cui la proprietà privata è parte, si può osservare, da un punto di vista laico, quindi non collegato alla Rivelazione, che i dubbi ci sono stati e ci sono, cioè che i diritti naturali non esistano, siano solo costruzioni culturali. Dal lato opposto, però, si deve osservare che certi principi, non legati all’ambito culturale mediterraneo, in particolare ebraico e greco-romano, si ritrovano, più o meno nelle stesse formulazioni, anche nei popoli di tradizione diversa da quella “occidentale”, che questo tipo di proprietà non è l’elemento di base in tutte le culture umane: esistono (marginalmente, anche nella realtà italiana ed europea) e sono esistite delle forme di proprietà collettiva a cui potevano accedere i membri di quelle comunità. Mi piace ricordare che nella Bibbia si afferma (non con queste precise parole, ma il concetto è questo) che la Terra è di Dio. In Lv 25 si afferma esplicitamente che ogni 50 anni i terreni che per qualsiasi motivo (soprattutto per debiti) erano stati sottratti ai proprietari originari, ritornassero ai primitivi proprietari. Con questo non si afferma una particolare forma di proprietà ma si sottolinea, soprattutto, che gli uomini della terra sono degli amministratori, degli “affittuari”: ciò che viene riconosciuto nella Genesi (1 e 2,16)è che l’uomo non è libero di distruggerla per il suo tornaconto personale, ma deve utilizzarla e conservarla.
A proposito delle critiche e del riaccoglimento del diritto naturale nelle culture giuridiche sopra evidenziate, mi sembra opportuno leggere quanto scrive Francesco Viola nel suo saggio sulla rinascita del diritto naturale nel Novecento.
Possiamo individuare tre rinascite del diritto naturale: quella dell’inizio del Novecento, quella provocata dalla seconda guerra mondiale e quella propria del costituzionalismo contemporaneo a partire dagli ultimi due decenni del Novecento. Tutt’e tre appartengono a questo “secolo breve”, ma bisogna rendersi conto che sotto la stessa etichetta vi sono fenomeni culturali e istanze filosofiche ben diverse. Se vi sono tre rinascite, vuol dire – come ha notato Bobbio – che vi sono state almeno altrettante morti o crisi e conseguenti ritorni del giuspositivismo.
1. Il ritorno del diritto naturale agli inizi del Novecento è in realtà dettato dall’insoddisfazione nei confronti del giuspositivismo ottocentesco, che aveva in generale perseguito l’obiettivo di una rigorosa separazione della sfera giuridica, trascurando troppo le idealità morali e le basi sociali del diritto.
2. Il ritorno del diritto naturale dopo la seconda guerra mondiale è ovviamente dettato dal fatto che le evidenti e gravi violazioni della dignità umana erano state permesse o non impedite dal diritto positivo e che, quindi, bisognava evitare che ciò avvenisse di nuovo.
3. Il ritorno del diritto naturale alla fine del Novecento è stato provocato dall’espansione della problematica dei diritti umani all’interno dei regimi costituzionali con la conseguente trasformazione del modo di concepire il diritto positivo stesso. Qui la rinascita del diritto naturale si confonde in modo spesso indistinguibile con la crisi interna al positivismo giuridico.[14]
Relativamente al diritto naturale in ambito cattolico in particolare e più in generale sulla discussione sul e del diritto naturale nel sec. XX si rinvia al testo del saggio testé citato, da p. 19 in poi.
Sulla giustificazione della proprietà privata della terra, inizialmente, e poi dei beni in generale, il riferimento implicito è a Locke, già citato, che riconosce l’esistenza di proprietà comuni, ma sottolinea la funzione e l’importanza del lavoro come spiegazione dell’origine della proprietà privata.
Su questi concetti, relativi all’economia coeva ai prodromi della rivoluzione industriale, legati anche all’accumulazione originaria necessaria per l’avvio del processo di modifica dei modi di produzione, si basa pure Leone XIII che si rifà anche all’ambiente contadino. Da questo contesto socio-economico il papa trarrà ispirazione per le proposte che avanza per la soluzione del conflitto sociale.
Secondo Tommaso, il trattenere dei beni attraverso la proprietà privata è necessario per la vita degli uomini poiché ognuno ha una cura migliore delle proprie cose e questo porterebbe ad un miglioramento soprattutto del bene comune. Se invece la proprietà appartiene a tutti o a parecchi, volentieri viene evitato il lavoro lasciando ad altri la cura di ciò che dovrebbe essere o che è comune, come avviene quando la servitù è molto numerosa. Il diritto di proprietà è dunque sottoposto all’utilità dell’individuo ma anche a vantaggio della comunità.
Ma se l’uomo, dice Locke nel capitolo quinto del Secondo trattato sul governo, è padrone e “proprietario” della sua attività, non sarà di conseguenza proprietario anche dei frutti del suo lavoro? La maggioranza delle ricchezze, frutti che una persona si è presa la pena di raccogliere, e dei terreni che avrà dissodato sarebbero il prodotto del lavoro dell’individuo: la proprietà di ciascuno si estende perciò alle sue opere, ai risultati del suo lavoro, che sono il prolungamento della persona.
Anche Giovanni Paolo II nella sua enciclica Centesimus Annus riconosce la proprietà privata, ma sottolinea con maggiore forza che non è un valore assoluto proprio per la destinazione universale dei beni della terra (§ 30). Sulla stessa onda di Tommaso e di Leone XIII è Sorge quando sottolinea che tra i motivi della sconfitta dei regimi socialisti vi è anche il tema della proprietà privata, abolita, quando rileva che la mancanza di una proprietà non incentiva le persone a lavorare per se stesse. L’esperienza storica ha – purtroppo – dimostrato come mettere in comune la proprietà nel sistema socio-politico-economico dominante non ha dato e non dà i risultati ottenuti e ottenibili con la proprietà privata. Resta il fatto che nel regime capitalistico la proprietà privata porta necessariamente alla
concentrazione della ricchezza e il potere in pochissime mani, come già riconosceva 133 anni fa papa Leone XIII…
Diversi pontefici ritorneranno sulla dottrina sociale (o questione sociale[1]): Quadragesimo Anno del papa Pio XI, 1931, dove enuncia il principio di sussidiarietà e richiama la funzione sociale della proprietà privata, Mater et Magistra di Giovanni XXIII del 1961, Populorum progressio di Paolo VI del 1967, Centesimus Annus di Giovanni Paolo II nel 1991 e Benedetto XVI con Caritas in veritate del 2009.
Il concetto e il principio di sussidiarietà si può far risalire già a Leone XIII quando al n. 28 afferma che, contro lo statalismo, «è giusto … che si lasci all’uno e all’altra [cittadino e famiglia] tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti.» salvo l’obbligo per lo Stato di intervenire a difesa dei più deboli.
Ma è appunto ai nn 79-81 di Quadragesimo anno che Pio XI usa il termine subsidium che si può tradurre con aiuto ma anche – come è stato interpretato – con sussidio da cui sussidiarietà. In particolare al n. 80 Pio XI afferma:
Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva[2] le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.
Poi al n. 81:
Perciò è necessario che l’autorità suprema dello stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità.
Sarà papa Giovanni XXIII a usare esplicitamente il termine “principio di sussidiarietà” nell’enciclica Mater et Magistra al n. 40 che cita espressamente il n. 40 di Quadragesimo anno.
Il principio di sussidiarietà è stato accolto nella legislazione dell’Unione Europea: «nel trattato di Maastricht, siglato il 7 febbraio 1992, ha qualificato la sussidiarietà come principio cardine dell’Unione europea.»[3] e nella Costituzione della Repubblica Italiana all’art. 118[4].
I richiami provenienti dalla dottrina sociale della Chiesa furono colti nel 1948 quando entrò in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana che, nell’articolo 36, fisserà due criteri per la determinazione della retribuzione: quello di proporzionalità, in forza del quale la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e quello di sufficienza in forza del quale la retribuzione deve comunque garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Davanti a questi problemi e posti i concetti fondamentali dell’etica cristiana, come risolvere o cercare di intraprendere un percorso che porti a risolvere o almeno ad alleviare la situazione dei proletari e sopratutto la loro dignità di uomini e i loro diritti religiosi?
Alla luce delle sue considerazioni, cosa propone papa Leone?
Nel quadro complessivo della carità, già durante lo svolgimento del suo discorso il papa accenna ai rimedi che sono innanzitutto la difesa della proprietà privata nel quadro però di una concezione che rimanda alla civiltà contadina e artigianale[5]: quando Leone XIII parla del risparmio, lo fa per incentivare l’acquisto e la conduzione in proprio di terreni che dovrebbero garantire il mantenimento della famiglia assicurando una vita dignitosa ancorché frugale, poi, parlando delle associazioni, su cui mi soffermerò fra poco, cita espressamente le corporazioni di arti e mestieri medievali, non accorgendosi che la proposta risulta anacronistica, dato che aveva già descritto la condizione degli operai che hanno come unico mezzo di sussistenza la vendita del loro lavoro.
La parte in cui emerge chiaramente la proposta del papa è quella relativa alle associazioni: dopo aver difeso anche con citazioni bibliche il diritto e anche il dovere di associarsi per gli uomini e aver del pari difeso queste associazioni da ingerenze statali, Leone XIII dà delle indicazioni sui principi cui devono ispirarsi e come devono praticamente agire, per rispettare l’impostazione cattolica, le associazioni. In particolare ne difende l’autonomia dicendo chiaramente che i soci «debbono avere altresì uguale diritto di scegliere per i loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine.»[6]. In questo modo il papa non solo auspicava queste soluzioni alternative all’intervento dello Stato, ma valorizzava l’autonoma, responsabile azione dei cristiani.
Inizialmente (al § 36) il papa propone addirittura una collaborazione diretta tra operai e padroni nelle corporazioni: in base a quanto detto sopra erano di fatto impraticabili. Invece ebbero un grandissimo successo le SOMSI, cioè le Società Operaie di Mutuo Soccorso e Istruzione che si diffusero sin nei piccoli e piccolissimi paesi: qui in Friuli ne sopravvivono ancora alcune che dell’ispirazione originaria conservano l’aspetto dell’istruzione. Queste società avevano come scopo primario quello di garantire ai soci l’assistenza e le provvidenze che non erano previste né tanto meno garantite dallo Stato – come ricordato sopra -, per cui oltre ad assistere i soci e le loro famiglie in caso di malattia e/o disoccupazione, provvedevano ad acquisti collettivi di materie e strumenti per l’agricoltura, ecc..
Ne parla anche Pio XI in QA ai nn. 24, 33 – 35 dove, oltre a lodare Leone XIII e parlare delle benemerenze delle associazioni come le SOMSI, critica in modo allusivo il fascismo e altri regimi illiberali quando p.es. impediscono la costituzione di sindacati cattolici. Al n. 30 afferma che alcuni cattolici mettevano «in sospetto i tentativi di formare siffatte organizzazioni, quasi sapessero di un certo spirito socialistico o sovversivo.».
Le società di mutuo soccorso operaie furono costituite già in Inghilterra agli inizi del 1800, in Italia dai mazziniani e in parte dai socialisti (o comunque da operai non cattolici) a partire dal 1850. In Friuli diversi preti furono attivi in questo settore. Nel campo dell’aiuto finanziario furono costituire le Casse rurali e artigiane. Per la destra Tagliamento mi piace ricordare il prof. don
Domenico Fabrici (1833-1899) originario di Clauzetto e che a San Giorgio della Richinvelda creò uno di questi istituti, all’epoca denominato Cassa di Prestiti. La banca è tutt’ora attiva, pur con le modifiche rese necessarie dalle vicende socio-economiche.[1]
A parte il discorso sulle SOMSI, la proposta di cui al n. 26 di RN è senz’altro apprezzabile e in certa misura avvincente, ma – come ha dimostrato anche qui la storia – non applicabile nella forma indicata da Leone XIII. Troppo forti sono gli interessi in gioco per far sì che l’uomo rinunci al proprio egoismo personale e di classe: nonostante i ripetuti appelli dei papi e di tante altre personalità del campo filosofico (non solo cattolico e/o cristiano), teologico (idem), sociale, politico, anche economico [per quanto possa apparire paradossale: sì], l’uomo, il mondo ha proceduto e procede imperterrito sulla strada di un egoismo cieco ed ottuso che ci porterà alla distruzione non tanto del pianeta (se non si useranno le armi nucleari) quanto dell’umanità che perderà le condizioni per la propria sopravvivenza, se non completamente, certamente al livello delle conoscenze raggiunte sinora.
A conclusione di questo – seppur limitato – esame della Rerum novarum, mi piace aggiungere i commenti del Servizio per la pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Milano riguardo i limiti e il valore di questa enciclica.
Limiti.
Se vengono percepite le ingiustizie e lo sfruttamento come voluti, la lettura susseguente suppone che esista semplicemente una giustizia interindividuale e non una ingiustizia strutturale o di sistema. In altri termini non sono messi in causa il sistema economico capitalista; gli abusi e le ingiustizie sono addebitate esclusivamente alla cattiva volontà degli uomini e non tanto alla logica della produzione capitalistica stessa. In tal caso l’enciclica detta delle regole etiche per l’individuo e affida la soluzione alla buona volontà degli uomini. Se è forte la denuncia, resistono nostalgie corporativistiche, schemi e modelli che si rifacevano al medioevo e che ormai erano superati dalle diverse condizioni storiche ed economiche. Non si coglie, in tal caso, la diversità degli interessi e il significato della conflittualità che viene superata in nome del Vangelo.
Se viene ad essere criticato come ideologia, il socialismo non viene valutato, se non altro, come movimento che si era fatto portavoce delle ragioni degli oppressi. È astratta l’affermazione della terra per tutti, così come l’affermazione: “La terra, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio di tutti”. Si assiste alla preoccupazione di portare soluzioni che mantengano un equilibrio sociale contro quella che veniva avvertita come una minaccia.[2]
Il valore di questa enciclica.
Questa enciclica fu una sorpresa poiché da molti decenni la Chiesa si era chiusa a riccio, lanciando scomuniche e rifiutando in blocco il “mondo moderno”, mentre però, nel frattempo, si era impegnata con le sue forze e intuizioni migliori in opere di carità, di educazione, di assistenza per i più bisognosi. Nello stesso tempo, di fronte alla malvagità e all’abbrutimento del mondo del lavoro, si continuava a suggerire “pazienza e la rassegnazione”. Ma l’ideologia socialista costituì “finalmente” una sfida sullo stesso piano concreto del lavoro e rappresentò l’innesco di una lotta che obbligò a ripensare e a salvare i valori cristiani nel nuovo tempo.[3]
Aggiungo pure le considerazioni di padre Sorge che afferma che il discorso sociale della Chiesa è legittimato dal fatto «che la rivelazione cristiana ha una intrinseca dimensione storica. L’economia della salvezza è storia, che tuttora si fa.»[4] Nell’affermare questo, rinvia a Paolo VI: Populorum Progressio e alla costituzione apostolica Gaudium et spes. Nel paragrafo 4 del cap. 1: Dottrina sociale, Sorge ribadisce che il vangelo è un messaggio sociale: per questo motivo la Chiesa si è sentita chiamata ad intervenire sulla questione sociale, con una serie di interventi soprattutto magisteriali che sono stati variamente etichettati: dottrina sociale, insegnamento sociale…
I principi dell’ideologia cattolica che Sorge individua ed elenca sono i seguenti:
- «dignità della persona umana e quindi del lavoro dell’uomo,
- «l’economia ha una sua dimensione etica, proprio in quanto essa è orientata al servizio dell’uomo», quindi deve essere stabilito il giusto salario,
- è necessario «che lo Stato intervenga nella questione sociale ed economica, aiutando i più bisognosi» in quanto lo Stato deve provvedere al bene comune.[5]
Commenta infine padre Sorge:
La chiesa mostra d’interessarsi sinceramente ai problemi del mondo operaio, le manca però ancora la preoccupazione di una visione globale della nuova società che sta nascendo. I problemi sono nuovi (res novae), ma la risposta dell’enciclica rimane inquadrata nell’ambito del vecchio modello di ‘cristianità’ da difendere, ed è lontanissima dall’immaginare che la nuova società debba sottrarsi alla guida della chiesa e della presenza confessionale dei cattolici, impegnati a eseguire passivamente le direttive sociali elaborate dalla gerarchia.
Di fronte ai drammi della classe proletaria, la chiesa evangelicamente indignata insiste giustamente sul primato dei valori morali da tutelare, e propone con forza la filosofia perenne cristiana fondata sulla rivelazione e sul diritto naturale, ma le sfugge ancora l’importanza crescente che va acquistando l’analisi sociologica e scientifica per la conoscenza più adeguata dei problemi sociali; richiama duramente i ricchi al loro dovere di carità verso i poveri, manca però ancora la coscienza della natura strutturale della ‘questione operaia’, la cui soluzione suppone dunque una correzione profonda del modello stesso di produzione e di distribuzione della ricchezza.[6]
Tuttavia una nuova strada è stata aperta e su questa si incammineranno i nuovi pontefici. Soprattutto, con le novità portate dal Concilio Vaticano II ci sarà la consapevolezza che «le mediazioni storiche sono compito proprio e autonomo di un laicato rettamente formato»[7]
(PIERANGELO D’ANDREA)
Bibliografia
Leone XIII, Rerum Novarum, Edizioni Paoline, Alba, 1974
Pio XI, enciclica Quadragesimo Anno, dal sito: vatican.va
Giovanni XXIII, Enciclica Mater et Magistra, dal sito: vatican.va
Giovanni Paolo II, enciclica Centesimus Annus, dal sito: vatican.va
Costituzione della repubblica italiana, Corte Costituzionale, Servizio studi, Roma, 2023
M.T. Cicerone, La Repubblica 3, 22, 33, BUR Rizzoli, Milano, prima edizione digitale, 2013
J. Locke, Secondo trattato sul governo, Società Aperta, Sesto San Giovanni (MI), 2023
B. Sorge, Introduzione alla dottrina sociale della chiesa, Queriniana, Brescia, 20112 (Nuova edizione rivista e aggiornata)
Commento sulla Rerum Novarum, Diocesi di Milano: https://www.chiesadimilano.it/servizioperlapastoralesocialeedellavoro/files/2017/05/734__Fog156bis.pdf consultato il 31/01/2024
F. Viola, Le tre rinascite del diritto naturale nel Novecento, in Markus Krienke (a cura di), Ripensare il diritto naturale e la dignità umana, Tradizione e attualità di due topoi etico-giuridici, G. Giappichelli Editore, Torino, 2020
Su Papa Leone XIII: https://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Leone_XIII, consultato il 31/01/2024
Principio_di_sussidiarietà: https://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_sussidiariet%C3%A0 consultato il 19/02/2024
Onorò la chiesa e la sua terra, https://locusglobus.it/documenti/giampietro-de-domini/Onor%C3%B2-la-chiesa-e-la-sua-terra-Don-Giampietro-De-Domini.html , consultato il 09/02/2024
[1] Onorò la chiesa e la sua terra, https://locusglobus.it/documenti/giampietro-de-domini/Onor%C3%B2-la-chiesa-e-la-sua-terra-Don-Giampietro-De-Domini.html , consultato il 09/02/2024
[2] https://www.chiesadimilano.it/servizioperlapastoralesocialeedellavoro/files/2017/05/734__Fog156bis.pdf, 7
[3] Ivi, 5-6
[4] Sorge, cit. 21
[5] Ivi, 36-38
[6] Ivi, 40-41
[7] Ivi, 41
[1] È proprio Pio XI che al n. 2 di QA usa questo nome
[2] Sottolineatura mia
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_sussidiariet%C3%A0 consultato il 19/02/2024
[4] quando è stato sostituito con l’articolo 4, comma 1, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
[5] Leone XIII, cit. n. 26
[6] Ivi, n. 42
[1] B. Sorge, Introduzione alla dottrina sociale della chiesa, Queriniana, Brescia, 20112 , 31
[2] Ivi, 32
[3] ivi, 34
[4] ivi, 6
[5] G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Milano, 1978, 82
[6] Leone XIII cita Giac 5,4
[7] Leone XIII cita Rom, 8,17
[8] J. Locke, Secondo trattato sul governo, Società Aperta, Sesto San Giovanni (MI), 2023
[9] questa affermazione darà origine al principio di sussidiarietà su cui mi soffermo oltre
[10] Leone XIII, Rerum Novarum, Edizioni Paoline, Alba, 1974, § 19. Al n. 8 cita Dt 5,21
[11] https://www.chiesadimilano.it/servizioperlapastoralesocialeedellavoro/files/2017/05/734__Fog156bis.pdf, 6
[12] Cfr. B. Sorge, cit., 35-36
[13] Cicerone, La Repubblica 3, 22, 33, BUR Rizzoli, Milano, prima edizione digitale, 2013
[14] F. Viola, Le tre rinascite del diritto naturale nel Novecento, in Markus Krienke (a cura di), Ripensare il diritto naturale e la dignità umana, Tradizione e attualità di due topoi etico-giuridici, G. Giappichelli Editore, 18
Da qui inizia parte proprietà privata aggiungere QA Pio xi n. 49..
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